Articolo pubblicato su “Strisciarossa” il 27.11.2024.
Trecentosettanta voti a favore, soltanto nove più del minimo indispensabile per ottenere il via libera del Parlamento europeo e cominciare il cammino alla guida dell’Unione nel momento forse più delicato e incerto nella storia dell’Europa istituzionale.
La matematica, certo, non dice tutto sulla nascita del secondo esecutivo di Bruxelles guidato dalla popolare tedesca Ursula von der Leyen. Non dice tutto ma quel che dice non è poco. Mai, almeno da quando democrazia ha voluto che la massima espressione del potere europeo fosse sottoposta al giudizio degli eletti dai cittadini del continente, una personalità a capo della Commissione e tutto il suo staff avevano ricevuto un consenso così basso. E mai la maggioranza che l’ha insediata era apparsa tanto precaria e quasi indefinibile, con tutti i gruppi politici importanti – popolari, socialisti, liberaldemocratici, verdi e gli ultimi arrivati nel consesso di quelli che contano, quelli che si autodefiniscono “conservatori” – divisi al loro interno e uniti solo dal grande difetto di rispondere, ciascun partito, molto più a logiche di appartenenza nazionale che allo spirito comunitario che la loro assemblea dovrebbe, in teoria, esprimere.
Nella confusione, però, un dato appare chiaro. Il disegno di ribaltare totalmente l’equilibrio politico dell’Unione distruggendo la maggioranza democratica ed europeista che l’ha retta negli ultimi anni per sostituirla con un patto tra i popolari e le destre all’insegna del ridimensionamento della sovranità europea, quello che era prima delle elezioni di maggio il sogno dichiarato del sovranismo alla Meloni, è fallito. Ma sono andate invece in porto le manovre orchestrate dalla destra del gruppo popolare, condotta alla battaglia dal capogruppo Manfred Weber, per far sì che la rielezione di Ursula von der Leyen avvenisse con una maggioranza in cui una parte almeno della destra radicale, la componente meloniana del gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) fosse determinante.
Virata a destra
La vecchio-nuova presidente della Commissione ha accettato queste manovre, le ha anzi in qualche modo più che assecondate fatte proprie, un po’ per cinico tatticismo di potere, molto perché su alcuni temi l’alleanza con quella destra corrisponde alla sua propria sensibilità politica. Ne citiamo due: l’immigrazione e il rapporto che l’Europa deve avere con la NATO e gli Stati Uniti anche nell’imminente prospettiva dell’avvento di Donald Trump.
Su tutti e due i temi von der Leyen è stata abbastanza esplicita nel discorso con cui ha aperto la sessione del voto. Discorso nel quale è parso alquanto ridimensionato l’impegno a proseguire sulla strada del Green Deal, che pur se riaffermato, è stato inserito dalla Presidente nella cosiddetta “bussola della competitività” che, raccogliendo le indicazioni del rapporto Draghi, dovrà, oltre che cercare di colmare il gap di innovazione nei confronti degli USA e della Cina, tutelare la produttività delle imprese tradizionali. Ma soprattutto i toni forti della Presidente sono stati dedicati, e non certo per la prima volta, al riarmo necessario dell’Europa, visto non tanto come realizzazione di un sistema di difesa continentale quanto come il maggiore contributo che i paesi dell’Unione dovrebbero dare, a suon di spese aumentate, alla NATO.
Si sbaglierebbe, però, a giudicare lo spostamento a destra segnato prima dal risultato delle elezioni di maggio e ora dal nuovo schieramento parlamentare a sostegno della Commissione von der Leyen 2 soltanto come il frutto di congiure di palazzo e cinici giochi di alleanze per apparecchiare maggioranze à la carte da fare e disfare sui diversi dossier. Lo spostamento a destra dei vertici istituzionali dell’Europa, che era già evidente nel Consiglio europeo nel quale si era già andata consolidando negli ultimi tempi una netta maggioranza di governi nazionali orientati a destra e che ora coinvolge la Commissione non solo per le manovre di Weber e il cinismo di potere di von der Leyen, traduce in fatti politici istituzionali spostamenti profondi che coinvolgono le opinioni pubbliche di molti paesi, nei quali il vecchio demonio del nazionalismo sta offrendo riposte false ma fascinosamente semplici alla sempre meno governabile complessità dei problemi economici e sociali.
Il caso Romania
La sinistra europea e le forze europeiste dovrebbero partire da qui. Ai tanti e gravi segnali venuti nei mesi scorsi dal dilagare delle destre nelle elezioni di varia natura che si sono tenute in tante parti d’Europa se n’è aggiunto uno, significativo anche se ignorato quasi totalmente dai media italiani, proprio nell’immediata vigilia del voto sulla Commissione, con lo stupefacente risultato ottenuto nelle urne della Romania da un candidato dichiaratamente nostalgico del fascismo autoctono e ammiratore dell’autocrazia di Putin. La resistibile ascesa di Călin Georgescu, costruita tutta – nel più pieno segno dei tempi – con i like e i follower di TikTok configura un evento politico il cui peso non va valutato sulla base dell’importanza, relativa, del suo paese nel contesto delle nazioni, ma come espressione degli spiriti nazional-revanscisti che stanno dilagando in quella parte d’Europa, animati soprattutto, ma non solo, dall’imperialismo russo e dalla sua guerra di aggressione.
Restiamo ancora per un attimo in quelle regioni balcaniche per sottolineare il fatto che il partito di riferimento di Georgescu, l’Alleanza per l’Unione dei Rumeni (unione da perseguire anche inglobando con la forza la Moldova), fa parte a pieno titolo al gruppo ECR di Giorgia Meloni, a ennesima testimonianza del fatto che nel panorama dei tre gruppi dell’estrema destra rappresentati nel Parlamento europeo quello capitanato dall’italiana soltanto ai più ingenui (e a Weber e von der Leyen) può apparire come il più presentabile e moderato.
E la sinistra?
Nelle discussioni che si apriranno, probabilmente, nel seno del gruppo socialista sulla diaspora dei voti delle diverse componenti nazionali (il no dei francesi, l’astensione dei tedeschi, il sì degli italiani del PD, salvo l’eccezione di Marco Tarquinio e Cecilia Strada) un dato di fatto dovrebbe valere come premessa: i tre gruppi dell’estrema destra, sommando insieme i 78 dell’ECR, gli 84 “Patrioti” di Salvini e Le Pen e i 25 para-nazisti tedeschi, avrebbero un totale di deputati inferiore di un solo numero a quello del gruppo popolare: 187 contro 188. Il condizionale si spiega con la contradictio in terminis che impedisce ai nazionalisti di costituirsi in unità politica ma non, alla bisogna, di combattere insieme le stesse battaglie. Il confine indicato da Weber tra le destre “cattive” da tener fuori dalla maggioranza e quelle “buone” da circuire e inglobare è del tutto volatile. Tant’è che in uno dei primissimi provvedimenti del nuovo Parlamento, quella sulla tutela delle foreste, tutte le destre estreme, dai “conservatori e riformisti” agli alternativi per la Germania, hanno votato allegramente insieme con il PPE mettendo in minoranza tutti gli altri.
Il voto parlamentare con cui è stata varata la nuova Commissione, insomma, ha messo in evidenza, oltre che la fragilità dell’equilibrio su cui si reggerà il nuovo esecutivo von der Leyen, le contraddizioni della strategia socialista (sempre che parlare di strategia non sia un puro pio desiderio) nei confronti dell’ondata nazional-sovranista che sta aggredendo l’Europa, non solo al livello delle sue istituzioni brussellesi ma anche nelle opinioni di massa dei diversi paesi. Due dei quali, la Germania e la Francia si troveranno a breve termine a fare penosi conti con l’avanzata delle destre estreme, la prima con le elezioni anticipate del febbraio prossimo, la seconda con la spada di Damocle fatta pendere dai lepenisti sulla precarietà del governo di destra voluto da Macron. La scelta compiuta dai dirigenti del Partito democratico, su cui ha anche influito, colpevolmente subìto, il ricatto meloniano della “fedeltà nazionale” nel voto alla Commissione con una vicepresidenza “esecutiva” (dizione che non esiste nei Trattati) affidata all’italiano Fitto, è un frutto avvelenato di quelle contraddizioni, che hanno lasciato alla sinistra sinistra, a una parte dei Verdi e agli ondivaghi e opportunisti Cinquestelle l’intera rappresentanza italiana all’opposizione dell’operazione di destra con cui è nata la Commissione von der Leyen 2. La spiegazione che dopo il voto è stata data da qualche esponente del Partito democratico si appoggiava all’argomento per il quale votando contro si sarebbe “consegnata” la nuova Commissione all’egemonia della destra. Buona l’intenzione, forse, ma il risultato ottenuto lascia molti dubbi.
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