Due testi recenti, di fonte istituzionale, aiutano a rendersi conto di quanto impresentabile sia il risultato emerso dalla COP 29, svoltasi a Baku dall’11 al 23 novembre, in materia di aiuti finanziari ai paesi poveri – l’argomento che quest’anno si trovava al centro dei lavori.
Il primo è un documento che l’UNCTAD ha elaborato proprio in vista dell’incontro di Baku1, con l’obiettivo, innanzi tutto, di valutare quello che in materia di Climate Finance è successo negli ultimi 15 anni. Nel 2009, infatti, in occasione della COP 15 di Copenhagen, i paesi sviluppati hanno convenuto sulla necessità di generare entro il 2020 un flusso di 100 miliardi di dollari all’anno, destinati a soddisfare i bisogni finanziari dei paesi in via di sviluppo – impegno che gli Accordi di Parigi (2015) hanno poi ribadito precisandone la durata fino al 2025. Di qui la necessità, quest’anno, di definire un nuovo quadro di riferimento, e anche, però, la possibilità di affrontare il compito facendo tesoro dell’esperienza già compiuta, in modo da non ripetere gli errori del passato.
Fin dall’inizio, infatti, la vicenda non è stata un esempio di lungimiranza. A giudizio di Rachel Kyte, la rappresentante inglese a Baku, i 100 miliardi del 2009 sono venuti fuori come una cifra “campata per aria” (“plucked out of the air”), proposta all’epoca da Hillary Clinton in modo estemporaneo, senza alcun fondamento in evidenze, ricerche, calcoli, ecc. In breve, puramente arbitraria. Primo errore, dunque, da non ripetere – e infatti il documento dell’UNCTAD mette al lavoro il Global Policy Model sviluppato nell’ambito delle Nazioni Unite, lo integra con un approccio di tipo bottom-up, più aderente alle necessità emergenti dagli stessi programmi dei paesi poveri, e su questa base perviene a indicazioni giustificate in modo esplicito (e quindi, per così dire, ‘falsificabili’). Che in breve sono le seguenti.
Tabella 1 – Le implicazioni finanziarie della lotta contro il Climate Change nei paesi in via di sviluppo (miliardi di USD)
Dunque, nel complesso, necessità di finanziamento annuale che ammontano a circa 890 miliardi di dollari nel 2025, destinati a crescere fino a circa 1.460 nel 2029, secondo l’andamento più o meno lineare disegnato nella Figura 1, per poi stabilizzarsi a questo livello.
Come lo stesso documento mette in rilievo, si tratta di un ordine di grandezza ormai condiviso, coerente con le indicazioni contenute in tutti gli studi che negli ultimi anni si sono occupati di Climate Finance, compreso l’importante rapporto Songwe-Stern-Bhattacharya, predisposto in occasione della COP 27 del 20222. Rispetto a quest’ultimo, vale però la pena di segnalare una diversa valutazione del fabbisogno globale che può essere coperto per mezzo di risorse mobilitate all’interno degli stessi paesi poveri: per limitarsi al 2025, 220 miliardi secondo l’UNCTAD (riga B di Tabella 1), tre volte tanto, 653 miliardi, secondo il rapporto Songwe-Stern-Bhattacharya. L’entità dello scarto si commenta da sola, ma qui, soprattutto, va detto che il punto merita attenzione perché, al di là delle cifre, rinvia a una valutazione che riguarda l’intero quadro delle relazioni finanziarie tra paesi ricchi e paesi poveri.
In realtà, secondo l’UNCTAD, le cifre della riga B devono essere considerate ‘ottimistiche’, essendo calcolate secondo una logica di best-case scenario, vale a dire nell’ipotesi che i prossimi anni vedano cospicui interventi di riforma della governance economica globale, in grado di incidere sui molteplici motivi di inefficienza e iniquità che oggi la contraddistinguono: livello degli oneri debitori, alto costo degli investimenti là dove maggiormente sono necessari, alti livelli di instabilità finanziaria, insufficienti reti di protezione, flussi monetari illeciti, misure commerciali unilaterali, ecc. Solo a patto di mettere mano a questi dossier, si può assumere che i paesi poveri partecipino agli sforzi collettivi nella misura stimata – con il risultato, però, che una valutazione più realistica, avvertita del fatto che le riforme della governance economica globale non saranno certamente in atto nel 2025, implica che la cifra di 220 miliardi e quelle relative agli anni subito successivi debbano essere corrette ribasso (e il fabbisogno di finanziamenti esterni, per conseguenza, aumento).
Torneremo sui problemi che sorgono quando gli obiettivi di finanza climatica, e più in generale di lotta contro il Climate Change, siano collocati nel quadro delle relazioni economiche globali. Per il momento, facciamo nostra l’idea, leggibile tra le righe del documento UNCTAD, di attribuire ai valori di Tabella 1 un valore ‘euristico’ – di considerarli una sorta di ‘grado zero’ dei doveri di sostegno che gravano sui paesi ricchi, destinato a farsi valere anche se per magia, da domani, le cose iniziassero ad andare nel migliore dei modi possibili. E ancora, raccogliamo l’invito dell’UNCTAD a non lasciarci impressionare dalla differenza, chiaramente drammatica, tra i 100 miliardi del 2009 e i 1.460 che oggi risultano essere il minimo indispensabile dal 2030 in poi. In primo luogo, come detto, quelli erano una cifra ‘di fantasia’, che in nessun modo può essere ritenuta un valido termine di confronto; e poi, soprattutto, la Figura 2 mostra quanto poco l’ordine di grandezza che oggi è in discussione nella comunità scientifica possa ritenersi fuori scala rispetto alle dimensioni dell’economia globale.
Di nuovo, i dati si commentano da soli, anche se è impossibile non sottolineare il fatto che l’1,4% del Pil dei paesi ricchi (corrispondente agli 890 miliardi necessari nel 2025) è pari a (molto) meno della metà dell’incidenza dei sussidi di cui tuttora beneficiano i combustibili fossili: argomento che pure riprenderemo quando il tema della finanza climatica nel quadro dell’economia globale sarà affrontato con la dovuta larghezza di riferimenti.
Detto questo, che cosa è venuto fuori dalla COP 29? L’unica cifra di cui ha senso parlare è il flusso di almeno 300 miliardi all’anno che i paesi sviluppati hanno assunto come obiettivo a partire dal 2035, secondo la previsione contenuta nell’art. 8 del documento finale in materia di finanza. All’incirca, sebbene con un certo indebolimento, la previsione ha lo stesso statuto dei 100 miliardi decisi nel 2009 e ribaditi nel 2015: appunto per questo diciamo che ha senso parlarne, mentre nessuna considerazione merita l’appello rivolto “a tutti gli attori” affinché “lavorino insieme” in vista di un aumento dei finanziamenti a 1.300 miliardi l’anno, sempre a partire dal 2035, contenuto nel precedente art. 7. Non si tratta un impegno, e neppure di un obiettivo, o almeno di un proposito – non è altro un omaggio puramente formale al fatto che tutti, ormai, parlano di cifre a tre zeri, che nessuno, infatti, ha preso sul serio. Per motivi precisi, che diremo, sarebbe stato meglio se si fosse evitato di includerlo nel testo.
Il confronto, dunque, sta nei termini che seguono: una previsione di 300 miliardi entro il 2035 contro un fabbisogno, a fare cifra tonda, di 900 miliardi nel 2025 destinato ad arrivare linearmente a 1.500 a partire dal 2030. Difficile immaginare un risultato peggiore, tanto se si considera la differenza delle grandezze quanto se si fa mente locale su quella dei tempi, che notoriamente, in materia di Climate Change, sono cruciali. Una dimostrazione di incoscienza, viene da dire, nella quale veramente c’è qualcosa di ‘enorme’, che in certo modo lascia senza fiato.
D’altra parte, i numeri non sono tutto. Secondo il documento dell’UNCTAD, l’esperienza dei 15 anni alle nostre spalle mostra che almeno altrettanto importanti sono gli aspetti ‘qualitativi’ dei finanziamenti destinati a sostenere gli sforzi dei paesi poveri in materia di lotta contro il Climate Change.
Intanto, un’osservazione di carattere generale. I 15 anni di attuazione dell’impegno assunto a Copenhagen hanno prodotto una lunga scia di sospetti, risentimenti, recriminazioni, ecc. La soglia dei 100 miliardi è stata raggiunta in ritardo, nel 2022, e neppure, per la verità, sappiamo bene se effettivamente si sia raggiunta: riclassificazioni di finanziamenti già concessi ad altro titolo, inclusione di finanziamenti a basso contenuto ambientale e criteri di addizionalità tutt’altro che precisi hanno impedito il conseguimento di un risultato limpido, non controvertibile3. Al fondo, una generale vaghezza su cosa propriamente debba intendersi per ‘finanza orientata al clima’, unita alla mancanza di un appropriato sistema di rendicontazione, ha dato luogo a condizioni endemiche di opacità e di incertezza, fatte apposta per generare motivi di sfiducia tra le parti. Per questo, da parte di tutti gli osservatori, si è sostenuto che la COP 29 fosse innanzi tutto chiamata a istituire un regime trasparente, fatto di impegni ben definiti, suscettibili di verifiche stringenti, in grado di generare un diverso livello di serenità – e per questo, prima, abbiamo segnalato quanto dannosa (più che inutile) sia una previsione come quella contenuta nell’art. 7 del documento finale, che brilla per vacuità e per ipocrisia.
Ma neanche l’obiettivo di 300 miliardi è stato oggetto dei vari interventi di ‘specificazione’ emersi dalla precedente esperienza come passaggi obbligati sulla strada di un assetto diversamente produttivo. Per punti.
L’attribuzione delle responsabilità di contribuzione
L’obiettivo in questione, come già quello del 2009, è imputato indistintamente alla totalità dei paesi sviluppati: nessuno di essi sa in quale misura debba partecipare al suo conseguimento. Anche in questo caso si fa fatica a credere che le cose stiano davvero in questi termini, ma tale è la realtà, con il risultato che neppure è chiaro se davvero si possa ravvisare l’esistenza di un ‘impegno’: in effetti, nessuno può essere accusato di mancare ai suoi doveri, siano pure soltanto ‘morali’, per la semplice ragione che non esiste alcun dovere (di cui sia nota l’entità) posto in capo a qualcuno (di cui sia noto il nome). Così, a più riprese, l’UNCTAD afferma che le parti, qualunque sia l’entità dei finanziamenti, dovrebbero evitare un outcome costituito da un obiettivo […] cumulativo, privo di un meccanismo di ripartizione degli sforzi”, visto che una situazione del genere sembra fatta apposta per generare “ritardi e problemi di free riding”4. E in positivo suggerisce che ogni paese, in omaggio al principio delle Common but Differentiated Responsabilities and Related Capabilities, sia chiamato a contribuire in proporzione al suo Prodotto interno lordo, con una eventuale correzione destinata a tener conto delle sue responsabilità in termini di emissioni correnti e storiche5. Ma nulla del genere è preso in considerazione nel documento conclusivo di Baku, dove al contrario neppure si distingue con chiarezza il caso degli Stati da quello delle istituzioni internazionali di natura multilaterale, introducendo un ulteriore motivo di annacquamento delle responsabilità.
Le fonti e le forme del finanziamento
L’ultimo cenno già introduce al tema della provenienza e della natura delle risorse da rendere disponibili. Da sempre, si può dire, nei documenti delle COP (e in buona parte della letteratura) si insiste molto su quanto la finanza privata possa contribuire alla raccolta degli ingenti mezzi che sono necessari. Ma l’esperienza del passato dice tutt’altro: di fatto, i finanziamenti mobilitati su basi private sono stati molto inferiori alle aspettative (in media intorno al 17% del totale, mai più del 20%), tanto da meritare il seguente giudizio da parte del capo degli economisti della World Bank: “gli sforzi di mobilitazione del capitale privato sono stati giudicati duramente, a causa del loro fallimento nel raggiungere quello che, retrospettivamente, era un obiettivo irrealistico”. Per di più, i finanziamenti privati tendono a evitare i paesi più poveri, maggiormente bisogni di sostegno, e privilegiano gli investimenti a fini di mitigazione, con pregiudizio di quelli a fini di adattamento (cfr. oltre). Di qui la tesi, centrale, che gli obiettivi di sostegno dei paesi in via di sviluppo “devono essere perseguiti in via prioritaria per mezzo di fonti pubbliche attivate dai paesi sviluppati su basi bilaterali” – senza escludere altre possibilità, ma confinandole a un ruolo sussidiario, integrativo, se non proprio marginale. Al contrario, nel testo uscito da Baku, la retorica di “un’ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali”, comprese non meglio identificate “fonti alternative”, è nuovamente spesa a piene mani (art. 8, lettera a), casomai con una particolare attenzione (lettera c) al ruolo delle banche multilaterali di sviluppo.
Ancora, la Figura 3 mostra che, in passato, la maggior parte della finanza orientata al clima ha assunto la forma di prestiti piuttosto che di sussidi, in buona parte a tassi mercato, anche nel caso dei paesi che si trovano in fondo alla scala dei redditi pro capite. E a proposito delle banche di sviluppo multilaterali, tale è stata la forma dal 90% dei contributi provenienti dalle loro casse. Dunque, un altro ‘errore’ da correggere, e decisamente non di poco conto, visto che lo stato di cose appena richiamato tende ad aggravare la situazione debitoria dei paesi poveri e a restringere i loro spazi di finanza pubblica. Anche su questo punto esiste ormai un consenso apprezzabilmente largo. Anche su questo punto, però, la COP 29 non ha fatto alcun passo avanti, mancando di affermare il principio che i dati di Figura 3 vanno sostanzialmente ribaltati: intorno ai tre quarti dei finanziamenti devono arrivare sotto forma di grant, o in subordine di prestiti altamente agevolati; il resto sotto forma di prestiti pur sempre concessi a condizioni chiaramente sostenibili.
L’articolazione tematica
Implicita nelle cose già dette è la circostanza che l’allocazione dei finanziamenti per tipo di intervento abbia largamente privilegiato gli obiettivi di mitigazione a scapito di quelli di adattamento. Tipicamente, gli investimenti legati a questi ultimi si risolvono nella disponibilità di nuovi beni pubblici, che in quanto tali, per definizione, non danno luogo a flussi di cassa appropriabili individualmente. Di qui la loro scarsa o nulla appetibilità per la finanza privata, che come abbiamo appena visto ha dominato la scena, e la loro congenialità, viceversa, ai finanziamenti pubblici, liberi da vincoli di profittabilità, che anche per questo motivo devono veder crescere la propria quota sul totale. Più o meno il contrario nel caso degli investimenti legati a obiettivi di mitigazione (essenzialmente, la produzione di energia per mezzo di fonti fossili), più facilmente assimilabili al caso di un ‘normale’ business. E di nuovo, però, siamo in presenza di una situazione che va modificata, innanzi tutto per mezzo di una più precisa definizione dei due tipi di intervento (attualmente identificati tanto genericamente quanto la stessa di Climate Finance) e poi per mezzo dell’assegnazione ex ante di quote all’uno e all’altro tipo, non necessariamente uguali per tutti i paesi contributori e certamente diverse per quelli riceventi. Sennonché, manco a dirlo, anche questa necessità – pur chiara, visti i contorni ormai assunti dalla crisi climatica – è stata del tutto disattesa.
***
Si potrebbe continuare, completando il quadro degli argomenti che si prestano a considerazioni simili a quelle che precedono (la necessità di appropriati sistemi di monitoraggio, il miglioramento delle procedure di accesso ai benefici, altri ancora). Ma in questa sede non sembra la cosa più utile da fare. Anzi, in un certo senso, può perfino sembrare superfluo affannarsi a mostrare la sostanziale vacuità dei risultati annualmente prodotti dalle COP: anche la radicale inadeguatezza del loro impianto istituzionale è un dato ormai acclarato67. Sicché l’argomento che piuttosto bisogna cercare di affrontare è quello delle ragioni che ‘stanno dietro’ la visibile incapacità di impostare le strategie di affrontamento della crisi ecologica (non soltanto di quella climatica) in modo che non sia pressoché risibile – ed eventualmente quello delle condizioni alle quali si potrebbero ottenere risultati di diverso genere. È quello che ci ripromettiamo di fare nella prossima puntata di questo contributo, per altro pur sempre a partire da considerazioni abbastanza circostanziate, ancora riferibili alla Climate Finance,che si avvarranno di un importante lavoro del Fondo monetario internazionale (la cui attività di studio qualche volta riserva delle sorprese).
Comunque, un altro anno è destinato ad andare perduto. Uno dei motivi per i quali le decisioni della COP 29 erano attese con tanta ansia è che in vista del prossimo appuntamento – la COP 30 che si terrà a Belem, in Brasile, alla fine del 2025 – è prevista una nuova tornata dei piani di azione che i tutti i paesi devono presentare ogni 5 anni. Si sperava appunto che un risultato almeno decente in materia di sostegno finanziario potesse incentivare i paesi in via di sviluppo a innalzare significativamente il livello delle proprie ‘ambizioni’ (come si usa dire); e se la speranza in un esito decente della COP di Baku peccava di ingenuità, bisogna dire che l’esito negativo, invece, non manca di essere una cosa seria. La definizione dei nuovi piani d’azione (attesa per il prossimo mese di febbraio) avverrà in un clima che la COP di Baku ha reso tanto più sconfortato e conflittuale, con più che probabili effetti depressivi sugli obiettivi che i paesi metteranno all’ordine del giorno. Cosa ben grave, in effetti, visto il quadro che emerge dai dati di Tabella 2: nella migliore delle ipotesi (quella che contempla anche gli impegni ‘condizionati’), i piani vigenti comportano un innalzamento della temperatura di 2,6 °C; in un’ipotesi più realistica, che mette in conto soltanto gli impegni ‘incondizionati’, un aumento di 2,9 °C; e in quella più probabile, visto che gli impegni mancano di qualsiasi sistema di enforcement, un aumento intorno a 3 °C. Come in molti hanno osservato a Baku, l’obiettivo di 1,5 °C è già “morto e sepolto”, ma resta da vedere quanto grave sarà il suo superamento, e per questo, nonostante tutto, conviene continuare a ragionare intorno al ‘che fare’.
(Continua)
Note
1 UNCTAD – United Nations Conference on Trade and Development, The New Collective Quantified Goal on climate finance, novembre 2024.
2 V. Songwe, N. Stern, A. Bhattacharya, Finance for climate action. Scaling up investment for climate and development, Report of the Independent High-Level Expert Group on Climate Finance, novembre 2022.
3 Cfr. Ian Mitchell e Edward Wickstead, Has the $100 Billion Climate Goal Been Reached?, Center for Global Development, maggio 2024 (disponibile in rete).
4 È questo il motivo per cui l’introduzione di un sistema di ripartizione degli oneri tra i paesi sviluppati è una rivendicazione dei paesi poveri: con tutta evidenza, la sua assenza crea una sistema di incentivi ‘al contrario’, destinato a deprimere il livello dei finanziamenti resi disponibili. Per altro verso, è il caso di notare che l’UNCTAD non si spinge fino al punto di chiedere che i doveri degli Stati, una volta definiti in termini operabili, siano anche ‘assistiti’ da un qualche sistema di enforcing – che pure, ovviamente, è indispensabile al fine di creare condizioni di affidamento reciproco sufficientemente solide. Limiti di mandato istituzionale spiegano fin troppo bene la lacuna, che tuttavia resta tale e da sola, in verità, pregiudica la prospettiva di una governance all’altezza della situazione. Al tempo stesso, non si vuole negare che un sistema di ripartizione degli oneri, quantunque introdotto soltanto ‘sulla carta’, sarebbe comunque un passo avanti.
5 Naturalmente si possono adottare criteri più sofisticati, come ad esempio si fa in L. Pettinotti, T. Kamninga, S. Colenbrander, A fair share of cli mate finance? The collective aspects of the New Collective Quantified Goal, Climate Resilience Alliance, maggio 2024, dove il livello del Pil e quello delle emissioni storiche (dal 1990) sono combinati con l’entità della popolazione. È anche interessante osservare che qualsiasi criterio di fair sharing fa emergere difformità eclatanti: per esempio, secondo quello appena richiamato, a un capo dello spettro si trovano la Norvegia e la Francia, che hanno mobilitato finanziamenti superiori al doppio di quelli che ‘dovevano’, e a quello opposto gli Stati Uniti, con un percentuale del 32% (peggio ha fatto soltanto la Grecia). Il dato italiano è pari al 72%.
6 Cfr., in questo stesso sito, i commenti alle precedenti COP di Glasgow, Sharm El Sheikh e Dubai.
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