“Il governo di S. M. vede con favore la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, purché non si pregiudichino i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche”. Questo scriveva nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Balfour al banchiere Rothschild, principale referente del movimento sionista in Europa. Ma come ha potuto un semplice “focolare” ebraico in Palestina diventare il “focolaio” di un conflitto che incendia il Medio Oriente da decenni? Alla domanda ha indirettamente risposto Gideon Levy, editorialista di Ha’aretz: «Non era mai successo che un impero [il Regno Unito] promettesse una terra non sua [la Palestina] a un popolo che non ci vive [gli ebrei] senza chiedere il permesso a chi ci abita [i palestinesi]». Effettivamente, in Palestina vivevano all’epoca soltanto 50.000 sabra (ebrei locali) a fronte di 500.000 arabi tra musulmani, cristiani e drusi.
Col tempo la popolazione aumentò; e nel dopoguerra gli ebrei scampati ai pogrom e ai lager affluirono in massa, espellendo a forza un milione di palestinesi. Una “pulizia etnica” operata con qualsiasi mezzo. Tre milizie sioniste (l’Irgun, la Haganà e la banda Stern) si specializzarono in attentati terroristici nei villaggi, e anche a Gerusalemme: il 22 luglio 1946 l’esplosione all’Hotel King David provocò 91 vittime e il 6 gennaio 1948 toccò all’Hotel Semiramis (26 vittime). Dal 1948 ogni guerra scatenata dai governi arabi si è conclusa rafforzando Israele, che con l’aiuto della Francia si è dotato anche dell’arma nucleare e ora è inserito fra i primi cinque venditori al mondo d’armamenti hightech (con il contributo annuo di 3,8 miliardi di dollari gentilmente offerti dal Pentagono). «Vogliono tutto – borbottava John Kerry quando era Segretario di Stato – la terra altrui, i soldi nostri, le atomiche loro». Lo riconosceva già cinquant’anni fa Moshe Dayan: «I nostri amici americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi incassiamo i soldi, prendiamo le armi e snobbiamo i consigli».
La tragedia toccò l’acme nel 1956, quando Israele si unì a francesi e inglesi nel bombardamento di Suez: un dilemma per le comunità ebraiche d’Egitto, Iraq, Siria e Maghreb, prese tra due fuochi (a Baghdad gli ebrei erano un quarto degli abitanti). Ovviamente i governi arabi confiscarono i beni di chi era partito. Intanto, Israele vittoriosa e ben finanziata si lanciò in una politica d’immigrazione a tutto campo. Dalla sola Russia sbarcarono un milione di ebrei, veri e falsi, in genere digiuni di giudaismo (certuni si sono divertiti a disegnare svastiche sui muri). Solo qualche intellettuale israeliano la giudicava un’operazione neo-coloniale ammantata di retorica del kibbutz.
Qui ci avviciniamo a capire perché Israele costituisca il “focolaio” di un conflitto permanente in Medio Oriente. Theodore Herzl, fondando nel 1897 il movimento sionista, sognava uno Stato ebraico quale «bastione dell’Europa contro l’Asia, avamposto della civiltà contro la barbarie». Così Israele fece di tutto per sradicare le comunità ebree dal Marocco fino allo Yemen, distruggendo quella fiorente convivenza secolare. Diceva Ben Gurion: «Dobbiamo lottare contro lo spirito levantino che corrompe gli individui e la società, e preservare gli autentici valori ebraici come si sono cristallizzati nella diaspora». E Abba Eban: «L’obiettivo è di inculcare in loro uno spirito occidentale, invece di farci trascinare verso un orientalismo contro natura». Fino alla radicale negazione da parte di Golda Meir, intervistata nel 1969 dal Sunday Times («I palestinesi non esistono»), ribadita dall’attuale ministro delle Finanze Smotrich: «Non si può parlare di palestinesi, perché non esiste un popolo palestinese. Sapete chi è palestinese? Io sono palestinese!». Il negazionismo della destra israeliana arrivata al potere fa da inquietante contraltare all’assurdo negazionismo dei neonazisti europei riguardo alla Shoah.
Oggi la “sola democrazia in Medio Oriente” discrimina chi ebreo non è: ha messo in carcere almeno una volta il 40% dei palestinesi di sesso maschile, molti in “detenzione amministrativa” per anni senza processo; attua esecuzioni mirate senza rispettare le proprie leggi; vieta i matrimoni misti (non esiste il matrimonio civile); ha costruito un muro divisorio con i Territori Occupati condannato dalla Corte Internazionale di Giustizia; ha popolato la Cisgiordania di 600.000 coloni illegali, molti ultraortodossi e avidi lettori della Bibbia (che però non dice che è lecito confiscare terre, sradicare uliveti e sparare su contadini inermi).
Il colpo di grazia a ogni speranza di pace è stato inferto da Netanyahu, disposto a ogni bassezza pur di sfuggire alla giustizia israeliana, e ora anche a quella internazionale. Deferito alla Corte dell’Aia per crimini di guerra, vuole screditare l’ONU, ossia l’istituzione che ha tenuto a battesimo Israele consentendo alla diaspora di creare un proprio Stato nazionale. Mai prima d’ora un Segretario Generale dell’ONU era stato dichiarato “persona non grata”; è finito nella lista dei personaggi sgraditi a Netanyahu, che dal palco stesso dell’Assemblea Generale ha osato definire l’ONU “una palude antisemita”. In sintesi, Israele ricusa la legittimità del diritto internazionale, tra gli applausi di Washington.
L’attuale governo italiano non è da meno: ha fatto discretamente sapere che Netanyahu, se venisse in Italia, non verrebbe deportato all’Aia. Forse perché l’ospitalità è sacra? Certo, lo conferma la Bibbia: “Non opprimerai il forestiero” (Esodo 23,9). Il problema è che nella Bibbia si trova anche modo di giustificare l’occupazione della Palestina: ”Stabilirò il tuo confine dal Mare Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al fiume. Ti consegnerò gli abitanti del paese e li scaccerò dalla tua presenza” (Esodo, 23,31). Tanto più che i palestinesi non esistono, come si è detto sopra…
Sono migliaia i libri usciti per dimostrare che questo conflitto è il principale tumore dei molteplici focolai di instabilità in Medio Oriente. Eppure basterebbe una sola parola a spiegarlo: impunità.
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