Intervento tenuto alla riunione di “Antigone” presso la Casa Internazionale delle Donne il 13.02.2025.
Quando mi avete chiesto un intervento sulla detenzione femminile, vi ho risposto che dovevate chiedere a Grazia Zuffa, ben più esperta di me su questo tema. Grazia non c’è più, e allora cercherò di dirvi io qualcosa sulle sue ricerche e i libri scritti e curati con Susanna Ronconi. Dell’ultima campagna, sua e della Società della ragione, Madri fuori, sapete già tutto, perché ne siete e siamo partecipi.
Dunque, brevemente, due titoli: Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere con Susanna Ronconi (2014, Futura, 2° ed. 2023) e La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti (2020 Futura), sempre con Susanna Ronconi. Naturalmente Grazia ha scritto molto altro, su questo e altri temi importanti di ciò che chiamiamo “criminologia critica”: la politica delle droghe, la giustizia di comunità, la giustizia riparativa, l’ergastolo, l’ospedale psichiatrico giudiziario, da ultimo le case di lavoro e le colonie agricole (che io ignoravo esistessero ancora) con la Società della ragione e Franco Corleone. Ha scritto e ha fatto, perché Grazia non è stata solo una studiosa rigorosa e brillante, ma, come si conviene a una femminista seria, ha “praticato”, svolgendo un’intensa attività politica e sociale. Ci vorrebbe un’intera giornata per ricostruire la sua biografia intellettuale e politica, dentro e fuori le istituzioni. Una delle ultime cose che ha scritto è un bellissimo articolo sulla gestazione per altri, pubblicato nel sito del CRS, dove, tra l’altro, discute e contesta il suo essere reato, oggi addirittura reato universale.
Ma torniamo al carcere femminile. Intanto, vi invito a rileggere l’articolo da lei scritto in Questione Giustizia in occasione del 40° anniversario della riforma penitenziaria, ripostato ieri in un ricordo su Facebook da Riccardo De Vito.
La prigione delle donne è il proseguimento della ricerca di Zuffa e Ronconi sulla detenzione femminile. Come il primo, anche questo è frutto di una ricerca empirica dentro le carceri toscane, in cui sono state intervistate sia le detenute che le operatrici e gli operatori e messo in atto un progetto di self empowerment, centrato sul partire da sé, pratica femminista per la prima volta sperimentata con le detenute.
In Italia sono poche le ricerche sulla detenzione femminile e dunque questi sono testi molto preziosi, sia per la ricchezza delle testimonianze che per l’accuratezza e la profondità delle riflessioni delle autrici. Direi anzi che sono libri imprescindibili per comprendere l’intero universo carcerario italiano, poiché l’ottica prescelta, quella della differenza femminile e del partire da sé, consente di tracciare non solo i vissuti delle detenute, ma anche, attraverso di essi, le criticità dell’intero sistema penitenziario italiano, in linea di principio volto alla “risocializzazione”, ma in realtà, e nel migliore dei casi, piegato a una “rieducazione” intesa come adeguamento alle norme esplicite, e ancor di più a quelle implicite, del sistema stesso, centrato sulla sicurezza. Alla quale risocializzazione, rieducazione e, dunque, tutela dei diritti delle detenute e dei detenuti, devono per forza piegarsi. Deresponsabilizzazione, infantilizzazione e, soprattutto nel caso delle donne, patologizzazione del disagio, nonché subordinazione di ogni esigenza e richiesta all’ordine che deve regnare in ogni istituto, traducono i diritti in benefici e privilegi concessi sulla base della conformità per un verso alle regole interne, per altro verso – di nuovo, soprattutto per le donne – agli stereotipi della maschilità e della femminilità tradizionali. Soprattutto per le donne, perché più forti e risalenti sono gli stereotipi cui sono soggette. Per esempio, ciò che Zuffa chiama “l’eccesso materno”, ossia l’insistenza sulla questione della maternità, sia da parte delle detenute che delle operatrici e degli operatori, risponde non solo alle preoccupazioni e ai tormenti reali vissuti dalle recluse rispetto agli eventuali figli lasciati alla custodia di altri e altre, ma nasconde, sempre secondo la lettura di Zuffa, la necessità, più o meno implicitamente richiesta dal sistema, di mostrarsi “buone madri” a dispetto dei reati commessi. Perché sulle donne detenute pesa non soltanto lo stigma del reato, ma quello, ben più pesante, di aver deviato rispetto agli standard cui le donne, tutte, sono chiamate a conformarsi.
Affettività e sessualità sono i grandi rimossi dell’universo carcerario, con ricadute pesantissime sul senso di sé dei reclusi e delle recluse. E quando affettività e sessualità vengono convogliate, su altre recluse, ciò che spesso aiuta ad affrontare la detenzione, succede di venire, di nuovo, stigmatizzate e patologizzate. La negazione di affettività e sessualità ben rappresenta il tasso di afflittività presente in ogni carcere. Ed è, presumibilmente, vissuta peggio dalle donne che non dagli uomini, essendo ancora le maggiori depositarie dei vincoli e delle relazioni familiari e affettive in genere. Ma, come dicevo, non è che una spia di tutto ciò che non funziona, e non può funzionare, in prigione: se la pena deve tendere alla “rieducazione”, come recita la Costituzione, allora questa pena non deve consistere nel carcere.
Il carcere, infatti, non è stato mai soltanto il luogo dove la pena consiste nella pura e semplice privazione della libertà, mentre tutti gli altri diritti fondamentali sono garantiti, come in linea di principio dovrebbe essere. Viceversa, il carcere è sempre servito sia da laboratorio dove si sperimentano modi per ricondurre chi vi è rinchiuso a una “normalità” secondo gli standard e gli stereotipi correnti o dominanti, sia come discarica dove separare i “cattivi” dai “buoni”, in nome della sicurezza di questi ultimi.
È di solito questa seconda funzione a prevalere, tanto più in un periodo, come quello presente, dove la pena si configura presso la “gente” come “meritata”, dunque nel suo senso più strettamente retributivo e, soprattutto, afflittivo. Lo spostamento dell’enfasi dai “criminali” alle “vittime”, e l’attuale centralità e protagonismo di queste ultime, hanno come risultato l’ostilità diffusa verso qualsiasi attenuazione dell’afflittività della pena (basta ricordare l’alzata di scudi nei confronti della sentenza CEDU contraria all’ergastolo ostativo – a seguita da analoghe alzate di scudi dopo la pronuncia della Consulta – o l’eco mediatica della protesta di qualche vittima verso la concessione di benefici al condannato o condannata per reati che la riguardano). In questo contesto culturale e politico, è ben difficile affrontare in concreto non solo la questione dell’affettività e della sessualità per i detenuti e le detenute, ma anche la tutela di altri diritti fondamentali che, in linea di principio, spetterebbero a tutti, reclusi e no.
Ciò che apre a un discorso di fondo: il carcere è riformabile? Questa domanda è vecchia quanto il carcere stesso: nasce infatti quando la prigione diventa la pena principale, cui tutte le altre pene fanno, al massimo, da corollario. È possibile un carcere che “risocializzi” o “rieduchi”, come vorrebbe quello che Ronconi chiama “il mandato trattamentale” imposto dalla nostra Costituzione? Ora, già rieducazione e risocializzazione sono termini plurisemantici che sono declinati in maniere diverse. Coniugati al carcere sono, come nota Ronconi, un ossimoro. Il carcere è una istituzione totale. In essa dunque si esplicano tutti i processi analizzati da Erving Goffman in Asylums (Einaudi, 1961): spersonalizzazione, decostruzione del sé, soggezione allo staff, ricostruzione di un sé “normalizzato” secondo il modello proposto dallo staff stesso, fino alla vera e propria sindrome da prigionizzazione. E dunque, no: si possono fare carceri migliori di quelle esistenti oggi in Italia, meno affollate, meno afflittive, con più e migliori servizi. Ma, di fondo, il carcere non è e non può essere un luogo di rieducazione e ancor meno di risocializzazione.
E tuttavia, nel senso comune, il carcere è dato per scontato, in qualche modo “naturalizzato”, se ne ignora la storia, si pensa che sia sempre esistito. Di questa pena si contestano al massimo gli eccessi afflittivi, le torture da parte della polizia penitenziaria quando vengono allo scoperto, il sovraffollamento e i disagi che ne derivano: ma della necessità della sua esistenza non si dubita, tanto che come rimedio viene semmai proposta la costruzione di nuove carceri. Che si riempirebbero inevitabilmente come le altre. Le cosiddette misure alternative vengono concesse sempre più raramente, in risposta al prevalente mood punitivo. In passato, periodicamente, venivano concesse amnistie, che, almeno per un certo periodo, alleggerivano la pressione: oggi, nessun governo osa più una mossa del genere.
Eppure, cominciando proprio dalle donne detenute, una decisa decarcerizzazione sarebbe, oltre che desiderabile, del tutto possibile. Recluse per lo più per reati non particolarmente gravi, molte con condanne inferiori ai tre anni, considerate anche dall’opinione pubblica non “pericolose” quanto gli uomini, poche, sempre rispetto alla popolazione carceraria maschile, che senso ha, oltre quello vendicativo, tenerle in prigione? La decarcerizzazione andrebbe ovviamente accompagnata da una altrettanto decisa depenalizzazione, cominciando dalle cosiddette “droghe”, il cui proibizionismo è tra le cause maggiori di detenzione, sia per le donne che per gli uomini.
Ecco, cominciando dalle donne è dunque possibile vedere il carcere per quello che è: un deposito di vite a perdere, destinato perlopiù a chi proviene dalle fasce povere, marginali, già socialmente escluse o discriminate. La resilienza (e la resistenza) delle detenute – resilienza e resistenza che da Zuffa e Ronconi vengono non solo descritte ma potenziate – mostrano come anche in prigione si conservino spazi mentali di libertà, e questo rende la detenzione ancora più straziante.
La campagna “Madri fuori” e, contestualmente, la decisa partecipazione della Società della ragione al contrasto del ddl Sicurezza proposto dal Governo, completano l’impegno scientifico e politico di Grazia Zuffa per lo smascheramento e allo smantellamento delle istituzioni totali, il carcere e non solo.
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