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Articolo pubblicato sul blog dell’autrice “Invisible Arabs” il 04.03.2025.

Pensavo di essere in Europa, stamattina. E già questa, per me, è una sensazione a cui devo sempre abituarmi, mai dare per scontata: troppa vita a oriente del Mediterraneo. C’era però qualcosa di difficile da comprendere, stamattina, con una punta in più di disagio. Lingua, linguaggi, segni, parole, significati: uno spaesamento, sia spaziale sia temporale, che non avevo mai avvertito in maniera così netta.

Mi sono così trovata, di colpo, a Macondo. E per la precisione in quelle pagine, meravigliose, in cui si parla della malattia della smemoratezza. Con una cantilena così simile a quella dei cuntisti siciliani o degli hakawati palestinesi, Gabriel Garcia Marquez racconta:

“Con uno stecco inchiostrato Josè Arcadio Buendia segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffé e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”.

Ecco, nella realtà sdrucciolosa ci siamo già. Non da ora, non dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, guidato dal suo autocrate Vladimir Putin. Forse dal tempo dell’ascesa delle destre. Ancor di più da quando, citando ancora Garcia Marquez, abbiamo “dimenticato i valori delle lettere scritte”. Valori che tradurrei in diritti per tutti, regole che si applicano a tutti, secondo i dettami costituzionali – non solo italiani – che statuiscono una eguaglianza di fronte alla legge nazionale e al diritto internazionale, rispettano le differenze e le individualità, proteggono le libertà. Sulla eguaglianza sociale non avevamo mai raggiunto – in un’Europa a diverse marce – l’omogeneità nelle diverse latitudini del continente, ma di certo era chiaro, e lo è stato quasi subito, che sui diritti non avremmo mai fatto sconti. È la nostra cifra, ci siamo sempre detti, o perlomeno lo abbiamo sempre sbandierato in pubblico. Noi siamo diversi dagli altri, dalle altre parti del mondo, dalle autocrazie, da chi non può vantare la nostra modernità.

La nostra ‘cifra’ sui diritti, la nostra presunzione, la nostra arroganza sui diritti è ormai storia. Lo è in primis sui diritti sociali, che pure sono uno dei pilastri della nostra Costituzione e delle altre costituzioni europee.

Vogliamo, però, parlare delle libertà di cui pensavamo di essere maestre, maestri e modello? Delle libertà sempre più limitate, costrette entro recinti asfissianti: libertà di parola, manifestazione, dissenso, asserzione? Da Berlino, dove non si può usare l’arabo negli slogan, all’ex europea Londra, dove uno degli attori più noti (Khalid Abdallah, uno dei volti più affascinanti di The Crown) è stato convocato dalla MetPolice per aver partecipato a una manifestazione per la Palestina. Palestina, Gaza: una delle cartine di tornasole di una Unione (Europea) che ha dimenticato “i valori delle lettere scritte”. La Palestina, Gaza: si dirà che sono un elemento divisivo. No, sono proprio il terreno su cui si misura l’Europa, assieme e accanto all’Ucraina.

Su cui si misura l’Europa e l’assenza della politica dal suo radar etico e dalla sua stessa prospettiva di esistenza. Proprio allo stesso modo in cui si misura la sua stessa esistenza sulla nostra scandalosa politica delle migrazioni. Sin dal conto salatissimo pagato alla Turchia (già allora guidata da Recep Tayyep Erdogan) per tenersi i profughi siriani lontani dalle nostre città, le migrazioni hanno segnato il nostro inarrestabile decadimento morale, umano, e di conseguenza politico.

Lì, su quei confini e in quel tempo ci siamo persi. O forse ci eravamo persi da prima, quando avevamo pensato – tutti, credo – che sarebbe bastata una moneta per tutti, una bella, consolante moneta che abbatteva le frontiere, per poter avverare il sogno. Di Ventotene? No, certo. Ma qualcosa che almeno ne conservasse il profumo.

E invece no. “C’è un giorno che ci siamo perduti/ Come smarrire un anello in un prato/ E c’era tutto un programma futuro/ Che non abbiamo avverato”. Lo canta Ivano Fossati, e forse qualche poesia in musica ci potrebbe persino salvare, o almeno risvegliare dalla “malattia della smemoratezza”. Perché la questione di fondo è, appunto, la perdita delle parole. Di parole che abbiano un significato, un senso comune.

Le usiamo sempre, ancora. Libertà, diritti, occidente, democrazia, pensando che di libertà, diritti, occidente, democrazia siamo riusciti a fornire e scrivere una definizione comune. Forse sì, un tempo, ma la lingua è mobile, storica, modificabile (per fortuna), come ci insegnava un mai dimenticato e sempre rimpianto Luca Serianni.  E ora ci ritroviamo con uno svuotamento di senso, di sema, di significato che mette a repentaglio non solo tutti noi, ma una costruzione europea che – come la Costituzione italiana – era stata la più bella e ambita. Il sogno dopo l’inferno, la mattanza, il genocidio, tutto ciò che era stato contenuto nella seconda guerra mondiale, o nelle guerre mondiali del Secolo Breve.

Scendiamo in piazza per quale Europa, dunque? Oppure scendiamo in piazza perché il disagio di questi tempi amarissimi di guerre e del genocidio di Gaza ci mangia dentro, e dobbiamo trovare ristoro, fiato nello stare insieme  in uno spazio pubblico e politico finalmente riconquistato? Se non si aggiorna il vocabolario del nostro essere qui, in Europa, andare in piazza può solo perpetuare l’inganno. È l’inganno di Ursula von der Leyen, che la UE la rappresenta e la descrive come un esercito che deve difenderci da “potenziali invasori” (quali? La Spectre?). È un inganno che sacrifica la salute dei cittadini europei per spostare gli investimenti necessari a ospedali e istruzione sull’industria bellica che, peraltro, ci guadagna subito in Borsa al solo annuncio. La Storia non insegna nulla, lo sappiamo, ma sentire con le mie orecchie di un’Europa che si riarma, ad appena un secolo di distanza da quando lo fece l’ultima volta, scatenando l’inferno in terra, mi ha fatto sentire così lontana da questo continente.

All’idea di scendere in piazza per l’Europa non manca solamente una discussione finalmente seria su cosa vogliamo sia l’Europa. Manca una parola altrettanto svuotata di senso, da quando ci siamo persi. È la parola pace, considerata – quasi sempre, dalla vulgata e dal mainstream – una foglia di fico e un diritto a corrente alternata. È pace quando riguarda il primo mondo, se possibile bianco o sbiancato, come ci ha fatto sapere la presidente del consiglio Giorgia Meloni parlando accanto a Keir Starmer: per l’Ucraina dobbiamo avere una “just and lasting peace” (l’ha detto in inglese), una pace giusta e durevole che invece non si può applicare tra Israele e Palestina, e soprattutto, anzitutto per la Palestina. Cosa significa pace, cos’è la pace? Vista da questa Europa, è del tutto priva di ogni senso. Vuota, svuotata dal riarmo verso il quale stiamo correndo, incoscienti e – in fondo – disperati. Senza quella parola, piena e riferita a tutti, perché tutti ne abbiamo diritto, scendere in piazza è un esercizio monco, a cui manca il pilastro fondamentale perché abbia il respiro necessario del futuro.

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