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Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” su “il manifesto” dell’11.04.2025.

Sono sconvolgenti le riprese a volo d’uccello che mostrano la distruzione di Gaza a opera di Israele. Case, scuole, ospedali, luoghi destinati al culto ridotti a cumuli di rovine. Degli edifici, delle piazze e delle vie, dei ritrovi dove ferveva la vita quotidiana della città, Israele ha fatto un deserto pietrame e una catasta di cenere, una congerie enorme di ferraglie combuste e di detriti, una vasta sassaia: ha realizzato, Israele, il sepolcreto ove giacciono racchiusi i corpi dilaniati degli abitanti di Gaza, migliaia di migliaia, che ha sterminato.

È l’operazione intrapresa da Israele quale vendetta, dispiegata in risposta alla strage di cittadini israeliani (quasi mille e cinquecento) perpetrata da militanti di Hamas il 7 ottobre del 2023. Da allora, da diciotto mesi, ha preso il via l’eliminazione sistematica d’un intero popolo che da allora non trova soste, ma procede inesorabile in ottemperanza ai dichiarati propositi perseguiti dal Governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Si tratta di assicurare la soluzione finale (più propriamente e ‘tecnicamente’: Endlösung) della “questione palestinese”, da affrontare una volta per tutte, dicono i ministri e i generali, fino alla vittoria, con una strategia di sterminio, pur se attuata con strumenti diversi, come già, nel 1940, la Germania del Terzo Reich si propose di affrontare la “questione ebraica”, ovvero la ufficialmente designata dal Governo del cancelliere Adolf Hitler (Endlösung der Judenfrage, appunto).

Le riprese televisive mostrano come, quanti sono riusciti a scampare finora ai massacri, si allontanino dalle macerie con mezzi di fortuna e carichi di recuperate masserizie, o come in frotta uomini e donne si incamminino lungo aridi stradali di fuorivia in cerca di un effimero, spesso sperato invano, riparo e ricovero. Tutti i profughi restano esposti lungo la via agli attacchi degli aerei di Israele che non cessano di colpire la fuga degli sfollati inermi, non si astengono dall’uccidere con olimpica ferocia anche i feriti trasportati nelle ambulanze.

Come è accaduto che tali atrocità siano commesse, con la perfetta convinzione della loro piena legittimità, da Israele, una realtà statuale che non è estranea alla grande tradizione spirituale, culturale, religiosa dell’ebraismo? Israele che, anzi, ama presentarsi al mondo addirittura come l’erede unico e autentico, il custode fedele e il difensore eroico di quella cultura?

Imre Toth (1921-2010), il grande studioso delle matematiche antiche scampato ai campi nazisti, scrive in Essere ebreo dopo l’olocausto (Edizioni Cadmo, 2002): «Gli Ebrei non sono né una nazione che abita un territorio, né un’etnia o un popolo che parla una lingua unica, né una classe sociale – ancor meno una razza e mi sembra che perfino la loro appartenenza alla confessione mosaica sia insufficiente a definirli. Tuttavia essi sono sempre stati e sono ancora una collettività umana chiaramente delineata, la cui unità palpabile è il veicolo dell’unità nell’immensa molteplicità degli spazi umani ove sono stati e sono ospitati, lungi dall’esserle opposta». Ed argomenta su quella millenaria vicenda a dar conto di un peculiare “statuto”, dice Toth, che è loro proprio e speciale, un carattere prezioso e costitutivo non solo della relazione sociale, ma elemento qualificante della civiltà europea.

Si tratta della modalità della mediazione. «La mediazione ha certamente il suo genio particolare» scrive Toth, e «suo fondamento è la capacità di intelligere, la facoltà di comprendere simultaneamente le due parti in presenza, l’amico e il nemico; la capacità di identificare lo Stesso e l’Altro».

Parole di Toth che fa bene si meditino in questi cruenti giorni a fronte della tracotanza omicida che Israele pretende di esercitare in nome della tradizione e della cultura ebraica. La vocazione alla mediazione, dunque, la nobiltà dell’essere degli ebrei: «Lo statuto ontico di mediatore ha imposto loro di rinunciare a una patria», considera Toth: «La loro patria non era in nessun luogo, perché era ovunque. La loro patria eterna, la portano ovunque con sé. È un libro in cui sta scritto: “Non uccidere!”».

Un commento a “Israele e la distruzione nella Striscia”

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