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Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” su “il manifesto” del 25.04.2025.

Foto di Günther Simmermacher da Pixabay

Come scrive in Spera, quando il 13 dicembre del 1969 fu ordinato sacerdote, Francesco compose una sua «personale confessione di fede» ove, tra l’altro, è dato leggere: «credo nella meschinità della mia anima». Questo «mi sento indegno» è ricorrente nelle sue pagine autobiografiche, fino a metter capo a una confessione: «Se penso a qual è la grazia più grande che desidero dal Signore, e che ho sperimentato, è la grazia della vergogna». E aggiunge: «La mia vita è descritta nel capitolo 16 del Libro di Ezechiele», là dove si legge «stabilirò io il mio patto con te e riconoscerai che io sono il Signore, cosicché tu ti ricorderai e ti vergognerai e non oserai più aprir bocca di fronte alla tua onta».

La sua vita Francesco intende condurre, ci dice allora, nell’umiltà di chi possiede la consapevolezza d’esser nulla davanti a Dio. Tale la condizione umana per il cristiano: sapersi un nulla che brancola nell’oscurità e resta senza scampo nel peccato se non si affida a lui, se consuma la vita terrena senza l’alleanza, senza il patto con il Signore. Sommo peccatore è colui che si ritiene un ‘giusto’, è colui che nega «la meschinità della propria anima» e non si dichiara né si presenta agli altri come peccatore. Il giusto si dice esente dal peccato. È convinto che il peccato non è dentro di lui, ma è fuori. Sono gli altri che peccano e il suo compito, che Dio gli conferisce, è combatterli quei nemici di Dio.

Nel 1984, di Jorge Mario Bergoglio appare nel «Boletín de Espiritualidad» della Provincia Argentina della Compagnia di Gesù, Sobre la acusación de sí mismo (Dell’accusa di sé stessi) una riflessione composta di nove brevi paragrafi che introducono alla meditazione di alcuni passi – che Bergoglio indica e riporta in appendice – tratti dagli Insegnamenti spirituali di Doroteo di Gaza.

In particolare dal settimo degli Insegnamenti di Doroteo (santo, monaco in Palestina, nato ad Antiochia nei primi anni del sesto secolo, uno dei tre grandi padri del monachesimo di Gaza con Barsanufio e Giovanni, morto nel 565) Bergoglio trasceglie i brani in cui si raccomanda la pratica dell’accusar sé stessi, come il seguente che trascrivo: «Ogni giorno pecchiamo e ci lasciamo portare dalle nostre passioni; abbiamo abbandonato il retto cammino che ci hanno mostrato i Padri e che consiste nell’accusare noi stessi; al contrario, seguiamo il cammino tortuoso in cui ognuno accusa il prossimo. Ognuno di noi, in ogni circostanza, si affretta a buttare la colpa sul fratello e a caricarlo di pesi. Viviamo nella negligenza, senza curarci di niente, e – per un altro lato – domandiamo conto al prossimo di come lui compie i comandamenti».

Bergoglio commenta: «chi si autoaccusa lascia spazio alla misericordia di Dio» e rimanda alla parabola (Luca 18,13) che Gesù disse «per alcuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri» là dove il fariseo ringrazia Dio perché non è «come gli altri uomini», mentre il pubblicano «non osava neppure alzare lo sguardo al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio, sii benigno con me, peccatore!’»; parabola che si conclude con: «Vi dico che questi tornò a casa giustificato, l’altro invece no, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Il richiamo al Vangelo consente a Bergoglio di ribadire un convincimento che manterrà costante e appare centrale nella sua opera di pontefice: «Colui che sa accusare sé stesso è una persona che saprà sempre avvicinarsi bene agli altri, come il buon samaritano, e – in questo avvicinamento – Cristo stesso realizzerà l’accesso al fratello».

Accedere al fratello, con-patire. Francesco insegna che nell’accusa di se stessi si custodisce il primo cespite che induce la condotta del cristiano al non fare mai ricorso, nel rapporto con gli altri, alla violenza, al contrasto, al conflitto. Sta qui il seme, in punto di teologia, dell’avvicinarsi bene agli altri che afferma la pratica della pace tra gli uomini, da perseguire e instaurare quale umano corrispondere. Sta qui la imprescindibile determinazione di Francesco a chiudere «la via senza meta», la «criminale irragionevolezza» della guerra che «non apre prospettive, non risolve nulla, incancrenisce tutto».

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