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Articolo di Paola Caridi uscito su “il manifesto” del 07.05.2025, estratto della lectio magistralis tenuta a Udine, «Non dimenticare un solo nome», dedicato alla popolazione palestinese, ai vivi e ai morti.

Nascondono i corpi agli occhi del mondo, i sudari di Gaza. Oppure no. Non è vero. Anzi, è vero il contrario, li mostrano attraverso un simulacro, una parvenza di corpo. La rappresentazione di una vita che era.

Sono loro – i sudari – a difendere i morti dall’oblio. I morti ammazzati palestinesi. A coprire i loro corpi, cioè, proteggendoli con antica pietà dagli occhi del mondo. Occhi indifferenti, oppure – talvolta – volgari, voyeuristici. Sono i sudari, i teli funerari, a dare ai morti la dignità che abbiamo fatto perdere ai vivi. Per ignavia, indifferenza, o paura.

I teli bianchi, le sindoni che nell’antica e presente tradizione islamica avvolgono il corpo del defunto, si sono fatti strada in modo dirompente nella nostra vita, nel piccolo raggio d’azione dei nostri occhi, spesso distratti. In silenzio, ma con una progressione inesorabile. Macchie bianche nelle rare immagini di Gaza che vengono trasmesse dai tg. Involucri bianchi a cui si aggrappano i parenti, e piccole oscene caramelle (oscene per la nostra inabilità a fermare il massacro) che i padri portano nelle loro braccia, percorrendo a piedi la strada verso una sepoltura spesso improvvisata.

I bianchi teli funebri sono, ora, l’inequivocabile segno della strage. Del genocidio. Il segno più evidente, quella macchia bianca che ci inchioda a una responsabilità umana, di specie. Ed è come se, per noi, qui, per noi, si fosse rotta attraverso quei sudari la nostra amnesia collettiva. Perché quei lenzuoli di cotone, lino, mussolina, soprattutto, sono parte della nostra antica memoria. A rifletterci con un po’ di calma, di attenzione, sono difatti uguali alle bende di lino da cui viene liberato Lazzaro e riportato alla vita. Sono uguali alle stesse bende che sono nel sepolcro in cui Gesù Cristo era stato sepolto dopo la crocifissione, e che vengono trovate a terra da chi accorre alla tomba.

Sono gli stessi teli bianchi, bianchi come il sudario che – è scritto ancora nel vangelo di Giovanni – «era stato posto sul capo» di Gesù. Ed è il medesimo telo candido, in questo caso di seta, che la sera del 25 aprile scorso è stato appoggiato sul viso di Papa Francesco, ultimo gesto chiamato – non a caso – velatio, prima di chiudere definitivamente il corpo del pontefice nella cassa, dopo il saluto del popolo dei cattolici al suo pastore nella Basilica di San Pietro.

Il velo, il telo, il sudario, il lenzuolo funebre. Un pezzo di stoffa rende il corpo invisibile agli occhi del mondo, e allo stesso tempo è come se proteggesse il defunto dalla vista della morte. Dalla paura, dal terrore della guerra.

Sono proprio i sudari di Gaza il segno, il simbolo di corpi che non vediamo. Della fisicità della guerra. Tutto si è concentrato, infatti, proprio su quei pezzi di tessuto subito scomparsi. Nell’ottobre 2023 è sparita immediatamente la mussola, il telo tradizionale per la sepoltura che si andava a comprare al mercato subito dopo la morte del parente. I kafan, i teli bianchi, di cotone o di più economico tessuto sintetico, sono stati i primi a scomparire, dalle bancarelle, dai negozi. È stato il primo segno che tutto era diverso, più rapido, più violento, incommensurabile rispetto alle precedenti quattro guerre israeliane su Gaza.

A Gaza c’è tempo da perdere. Si viene uccisi, si muore, e i corpi vengono rapidamente lavati (quando c’era ancora acqua da poter usare) e avvolti, spesso avvoltolati, nei sudari. Se possibile, seguendo il rito islamico della cura della salma che si riassume in pochi, necessari, obbligatori passaggi: lavare il suo corpo, avvolgerlo in un sudario, profumarlo con oli essenziali, pregare per lui o lei, e seppellire la salma nella terra.

Sono le regole della cura e sepoltura dei defunti, codificata da secoli e secoli, a testimonianza della sacralità del corpo. Nella terra desolata di Gaza, sono regole impossibili da seguire per i morti, ma che per proprietà transitiva si applicano anche ai vivi. Non c’è acqua, non c’è cura, per gli uni così indissolubilmente legati agli altri, i morti e i vivi, tanto da dar luogo a una danza macabra dolorosamente contemporanea. Vivi e morti assieme, in una processione funeraria in cui, fisicamente, bare e uomini in armi, sudari e madri dolorose riempiono l’intero spazio della guerra.

Chi, tra i morti, ha potuto avere dei funerali – comunque frettolosi per non mettere a rischio i vivi – ha conservato il proprio corpo, seppur mutilato e violato. Ha conservato un simulacro attraverso cui i familiari possono sapere che il distacco è reale. Così non è per quelle almeno diecimila anime che rimangono sotto tonnellate, milioni di tonnellate di cemento e ferro. Seppelliti sotto le macerie, nel cimitero di 365 chilometri quadrati che è la Striscia.

Quelle macerie non hanno alcuna pietà. Quella pietà, al contrario, che segna – in modo meraviglioso – il Cretto, il sudario di cemento immaginato dal genio di Alberto Burri per dare memoria alla Gibellina distrutta dal terremoto del Belice del gennaio 1968. Burri raccoglie i pezzi di corpo della città di Gibellina. Raccoglie, cioè, le macerie delle case. Le ricompone compattandole con reti metalliche, ricostruisce gli edifici attraverso le macerie compattate, le copre con un sudario di cemento. Il corpo della città viene così contenuto proprio nella sindone, nel lenzuolo funebre che copre alla vista il corpo e, allo stesso tempo, dà alla città la compiutezza originaria. E che sia programmaticamente un sudario lo dicono le pieghe nel cemento – le pieghe del telo funebre – che segnano, come un incedere, le pareti verticali che chiudono le case e tracciano le vecchie strade, la mappa della Gibellina antica.

Compiutezza e memoria. Burri compone qualcosa di riconoscibile (la colata di cemento) per conservare memoria di ciò che è stato distrutto. Ridà vita e dignità alla città di Gibellina e ai suoi abitanti. Ai suoi cittadini. Nulla di tutto questo è a Gaza, nella Striscia di Gaza, da nord a sud, in cui le macerie sono non solo distruzione, ma il risultato di un tentativo di annientamento, di cancellazione. Una scena del crimine.

Si è aperta il 7 maggio scorso la ventunesima edizione del festival vicino/lontano, in programma a Udine fino a domenica 11 maggio. Intorno alla parola chiave «scarto», sono oltre cento gli eventi proposti: dibattiti, incontri, mostre, spettacoli e proiezioni, con 200 protagonisti del mondo delle scienze, della letteratura, dell’arte, dello spettacolo e dell’informazione. La manifestazione è stata aperta alla Chiesa di San Francesco dal rettore dell’Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari e da Paola Caridi. Sabato la serata-evento del Premio Terzani 2025, conferito alla memoria delle giornaliste e dei giornalisti uccisi a Gaza.

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