Filosofia,l’amore che è intelligenzae la libertà che è amore.
[Romano Romani dalla prefazione a La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale,di Imre Toth, Bollati- Boringhieri, Torino 2007, p. 5]
L’identità di un popoloè quelladei suoi spiriti più liberi.
Noi ci siamo ispirati alle parole del Tractatus politicus di Spinoza:«non ridere, non lugere nequedetestari sed intelligere». Sì, intelligere,si devono comprendere!
[da Imre Toth – Emerich Roth –Essere Ebreo dopo l’Olocausto,Edizioni Cadmo, Fiesole 2002]
Gli ebrei della diaspora, non soltanto dopo la distruzione di Gerusalemme, ma anche quando si trovavano in Egitto e ne sono fuggiti, sono sempre stati – assimilati o no, emancipati o no – degli emigranti. In quanto tali sono stati emarginati, odiati, rinchiusi nei ghetti, perseguitati.
Questa è la situazione di partenza, quella dalla quale, anche, nasce il problema del sionismo.
Il sionismo non considera Gerusalemme e la Palestina la terra promessa, ma la patria perduta quasi duemila anni fa. Una patria alla quale tornare ora è un diritto da conquistare con la forza delle armi cacciando o sopprimendo chi la abitava e la abita.
Questo principio, fondato sul diritto della forza, è una delle conseguenze della persecuzione sofferta dagli ebrei in Europa, ma comporta l’annientamento dell’identità ebraica. Un annientamento incoraggiato dall’attuale destra estrema nel mondo occidentale, anche in relazione con il problema dell’emigrazione (clandestina?) che tanto occupa i pensieri e la cronaca sia in Europa che negli Stati Uniti.
Il problema degli ebrei, la questione ebraica, ora, dunque, deve essere ridotta alla questione sionista. Antisemitismo è il pensare che si riduca lo spazio che gli ebrei sionisti in Israele cercano di strappare ai palestinesi per riunire in Israele tutti gli ebrei del mondo: già i nazisti affermavano, quando stavano concentrando nei campi di sterminio gli ebrei che uccidevano nelle camere a gas, che il problema ebraico si potesse risolvere anche inviando gli ebrei in una terra, anche la Palestina, dove creare una nazione ebraica. Lo stesso Eichmann, durante il processo, disse di aver favorito l’emigrazione di alcuni ebrei in Palestina.
Ben altri problemi solleva l’identità degli ebrei della diaspora. Essi sono esseri umani inquieti, tesi verso ideali di pace e di giustizia sociale, sono menti pensanti: difendono i diritti degli emarginati, la libertà di religione e di parola, hanno problemi e pongono problemi alla politica, all’economia, alla storia e alla scienza. Sono insopportabili. Lo sa bene anche Netanyahu, quegli ebrei, in Israele, hanno sempre difeso i diritti dei palestinesi.
Ma chi li vuole sentire? Ne sono stati uccisi più di sei milioni, ma ora non li fanno più parlare: i sionisti, nelle comunità ebraiche, li minacciano e, comunque, li hanno messi in minoranza. Sconfitti con l’arma democratica del voto. In democrazia la maggioranza vince. Anche in questo, la forza conta più del diritto, è diritto. Il diritto della forza.
Non v’è un’autorità spirituale che rappresenti tutti gli ebrei, ma è sufficiente lasciar parlare i rappresentanti delle maggioranze. E, d’altro lato, le armi fanno più rumore delle parole.
La verità è la prima vittima della guerra, non perché muore, ma perché resta nascosta. Non ci si deve stancare di cercarla.
Porre con la guerra il problema del sionismo significa mettere a tacere ciò che implica la riflessione su ciò che è accaduto al popolo ebraico nel secolo scorso in Europa. Ridurre cioè la questione ebraica al problema dei rapporti tra arabi e sionisti. Lo Stato di Israele non sarebbe stato concesso agli ebrei, nel 1948, per accogliere i superstiti dai campi di sterminio nazisti, ma per dare un vantaggio alla parte sionista nella guerra arabo-sionista che era iniziata sessanta anni prima.
Il seme antisemita – o, meglio, antiebraico – non era nato dunque in Europa, ma in Palestina.
A questo punto della storia, per come la intendono i sionisti, non c’è mai stato un ebraismo della diaspora, e la stessa Shoah non sarebbe che un episodio dello spostamento di una grande popolazione di religione e origine ebraica dall’Europa verso la Palestina a formare la nazione di Israele.
Questa tuttavia non è una nuova luce per vedere il futuro, ma un nuovo buio per nascondere il passato. L’ebraismo della diaspora ha una storia profonda di critica e di sviluppo nel pensiero e nel progresso dell’umanità. Un contributo al progresso e all’evoluzione della storia che non può essere ignorato né dimenticato. Il futuro dell’Umanità ha bisogno di questa ricerca della giustizia e della pace che è rappresentata dalla storia dell’ebraismo della diaspora, assai più di quanto il sionismo abbia bisogno delle armi per rendere più ebraico (o meno palestinese) il territorio del proprio Stato.
Della pace tutti gli esseri umani hanno bisogno, anche quelli che fanno la guerra, perché di guerra non si vive, di pace sì.
II
Il sionismo si è alleato con il presidente degli Stati Uniti che deporta gli emigranti. Ha la stessa considerazione dei deboli, del popolo palestinese, che hanno gli Stati Uniti dei miserabili, dei poveri, dei diseredati, dei derubati.
Per convincere l’Iran a non procurarsi l’atomica, Israele bombarda i reattori nucleari, non tratta, come avevano fatto Reagan e Gorbacev, per ridurre reciprocamente i propri arsenali atomici. Questi governanti del Duemila non si curano del futuro dell’umanità, negano persino la crisi climatica e non temono la guerra nucleare. Pensano soltanto nei termini di un potere spietato e tirannico che dovrebbe ridurre i popoli e la storia al loro servizio e a quello di tutti gli ingiusti. Non comprendono che a muoverli non è la libertà, ma la necessità che determina il loro arbitrio e ogni arbitrio.
L’ingiusto pensa che obbedendo alla necessità si domini la realtà, ma obbedendo alla necessità si rinuncia per sempre alla libertà e alla felicità, molto spesso anche alla vita.
Certo, si può sacrificare la propria esistenza alla ricerca della libertà, ma lo si fa insieme agli altri e per gli altri, non per la cupidigia del denaro e del potere.
I sionisti israeliani si giustificano degli eccidi a Gaza, mettendo in rilievo che quasi sempre tra gli uccisi c’è anche qualche appartenente ad Hamas. Per uccidere un colpevole o un sospetto colpevole vale la pena di uccidere anche molti innocenti.
La stessa cosa vale per l’Iran. Ma gli omicidi non possono considerarsi una necessità né una promessa di pace. Perché i popoli hanno bisogno di evolvere con la parola, non con la violenza. La violenza produce in chi ne è vittima e in chi ne è colpevole altra violenza. La violenza scava nell’animo di chi la compie un abisso che non si riempie, un vuoto incolmabile.
C’era un piccolo gruppo di ortodossi ebrei che non volevano entrare nell’esercito e non pensano che sia religiosamente positiva l’esistenza dello Stato di Israele. Sono stati obbligati, per legge, alla leva militare. Si deve scavare anche nel loro animo il nulla che distrugge l’identità ebraica, la storia della Pasqua che ha liberato il popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto, facendolo attraversare il deserto nutrito dalla sua innocenza, dissetato dalla sua speranza. Perché la stessa cosa è sperare e amare. Di speranza e amore si nutre ogni emigrante, ogni essere umano che giunge in terra straniera. Egli spera di essere giunto in una terra di esseri umani civili, che accoglie lo straniero, che non lo caccia, non lo disprezza, non lo perseguita per il solo fatto di essere straniero. Perché nello straniero, un popolo civile riconosce un dio, il divino. La vita umana è fatta di parola e la parola è dialogo. Chi non dialoga non parla, non sa parlare neppure con se stesso. Un essere umano senza parola, che non è in dialogo con se stesso, appartiene sempre alla specie umana, ma non è libero, perché la libertà umana è ricerca della verità e della bellezza.
La Bibbia ebraica non diventerà mai il libro di uno Stato, è e resterà sempre il libro di un popolo che abita in tutta la Terra ed è fratello di tutti gli altri popoli.
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