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Una scommessa vinta

Non molti avrebbero puntato, solo tre mesi fa, sulla sua possibilità.

Eppure è successo: sabato 21 giugno oltre centomila persone hanno riempito il centro di Roma per dire No alla guerra, No al riarmo, No al genocidio e No all’autoritarismo.

Una marea capace di riunire dalle ACLI ai centri sociali, portando in piazza l’associazionismo di movimento, il variegato pianeta pacifista ed ecologista, sindacati confederali e di base, partiti politici fuori e dentro il Parlamento.

Chiamati dalla campagna Stop ReArm Europe, nata nel marzo scorso da due consapevolezze fondamentali: a) con il piano di riarmo di 800 miliardi deciso dalla Commissione europea, la guerra smette di essere “un incidente di percorso” e diviene la nuova dimensione sistemica per forgiare l’economia, la società, la cultura e la democrazia dei prossimi anni; b) se questo è vero, solo la costruzione di un movimento di massa a livello nazionale ed europeo può impedirla, modificando i rapporti di forza nella società e imponendo un’inversione di rotta all’agenda politica nazionale e continentale.

Un compito immane, che va affrontato con un cammino lungo, diffuso e reticolare.

Un compito possibile solo a partire da una scelta netta di metodo, la convergenza fra diversi intorno ad alcuni punti condivisi di radicalità politica: il ripudio della guerra in tutte le sue forme; l’opposizione a ogni piano di riarmo che sottrae risorse alla sanità, all’istruzione, alla spesa sociale, alla conversione ecologica; un netto NO al genocidio in corso a Gaza per mano di Israele e ai conseguenti piani di annessione della Palestina; il contrasto all’autoritarismo e a leggi liberticide che realizzano la “guerra interna” contro le proteste sociali.

All’interno di questo perimetro condiviso, moltissime culture e pratiche differenti fra loro si sono ritrovate, permettendo, dopo diversi anni di immobilismo, di ridare una casa comune a tutte le persone che nei propri territori sono da sempre attive contro la guerra e per i diritti, contro il riarmo e per la Palestina.

Un primo passo

Il 21 giugno è stato un primo importante passo di riconoscimento reciproco e di riaffermazione di un percorso comune; un tesoretto di energia e determinazione che va manutenuto, espanso e moltiplicato.

Perché la guerra incombe e già il giorno successivo, con l’attacco di Israele all’Iran e l’azione militare degli USA in appoggio a Israele, si è rischiato di precipitare verso la guerra globale; perché il genocidio dei palestinesi continua impunito giorno dopo giorno; perché tre anni di guerra in Ucraina continuano a seminare morte e devastazione.

Perché la penetrazione della guerra prosegue a grandi passi: è di questi giorni l’accettazione da parte di tutti gli Stati membri della NATO (ad eccezione della Spagna) del diktat di destinare per i prossimi dieci anni il 5% del Pil alle spese militari e ai bilanci della Difesa.

Una scelta che estende esponenzialmente l’impatto già fortemente negativo previsto con il piano di riarmo europeo, pregiudicando in maniera definitiva l’idea di un’Europa sociale, già pesantemente erosa da decenni di politiche liberiste e di austerità.

Basti pensare che una scelta del genere significa per il nostro Paese un aumento della spesa militare di 40 mld/anno da qui al 2035; una cifra mostruosa che, stanti i vincoli europei del Patto di stabilità e l’alto debito pubblico italiano, potrà essere compensata, come hanno detto i vertici del Fondo Monetario Internazionale “solo con severi tagli alla spesa sociale o con importanti aumenti delle tasse”.

L’Unione europea e i governi europei si accodano alla nuova amministrazione USA e, dopo aver abdicato a ogni ruolo diplomatico e di dialogo partecipando direttamente alla guerra in Ucraina e rendendosi vergognosamente complici del genocidio portato avanti da Israele, decidono il definitivo naufragio della propria coesione sociale interna e del welfare che per diversi decenni aveva caratterizzato la cifra del “modello europeo”.

Arriva così la virata verso la guerra, in un continente che, grazie alle politiche liberiste, vede già oggi 95 milioni di persone essere a rischio povertà (oltre il 20% dell’intera popolazione); in un continente dove l’impatto dei cambiamenti climatici investe drammaticamente la quotidianità delle persone (+2,4° l’aumento di temperatura nel 2024); in un continente dove lo strapotere dei grandi fondi finanziari ha eroso pesantemente la democrazia; in un continente attraversato, e già in parte governato, da movimenti populisti, sovranisti e neofascisti.

Ecco perché la grande manifestazione del 21 giugno scorso è stata un passo importante, ma tuttavia solo un primo passo.

Dalle reti attiviste ai tessuti sociali

La campagna Stop ReArm Europe ha costruito una rete di oltre 500 realtà, un percorso ricco e inedito di convergenza.

Un passo fondamentale, ma non ancora sufficiente, perché la società non è composta solo da due poli, i poteri dominanti da una parte e i movimenti di alternativa dall’altra.

Dentro la società moltitudini di persone vivono un’atomizzazione sociale senza precedenti e una quoti­dianità investita dal doppio incubo della fine del mondo e della fine del mese. Sono persone che rischiano di essere travolte dalla narrazione emergenziale della quale faticano a darsi spiegazione e che rischia di precipitarle nel panico e nell’an­goscia, trasformandole in terreno di coltura degli imprenditori politici della paura e della guerra.

Una convergenza dei movi­menti sarà efficace solo se saprà incidere direttamente sulla vita di queste persone, riaprendo lo spazio della pre‑occupazione laddove domina il panico e seminando rabbia e speranza laddove imperversano solitudine e rancore.

Per questo l’importante passo di aver costruito una rete non può essere considerato sufficiente.

Le reti mettono in comunicazione i nodi ma lasciano anche buchi enormi dentro i quali una società sempre più “liquida” scorre e passa attraverso senza venire in alcun modo toccata e coinvolta.

La rete, quando funziona, mette in collegamento le attiviste e gli attivisti ma non ha alcuna funzione nel coinvolgimento della moltitudine di persone che attiviste non sono, né forse mai lo saranno.

Il passaggio, complicato ma necessario, sarà il passaggio dal “fare rete” al “costruire tessuti”, ovvero saper coinvolgere in ogni territorio tutte le persone, comunicando adeguatamente quanto la dimensione della guerra inciderà concretamente sulle loro vite e comunicando la speranza che tutte e tutti insieme possiamo fermarla.

Per questo la casa comune ricostruita dal popolo contro la guerra non dovrà pensare all’arredamento interno della stessa, ma ad avere sempre la porta aperta per far entrare chi si avvicinerà e per poter uscire fuori, calandosi nella vita che si muove intorno. Senza dimenticare di tenere aperte le finestre per alzare gli occhi e guardare l’orizzonte.

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