Il pregio più immediato del volume con cui Salvatore Biasco dà alle stampe le sue recenti riflessioni sulle vicende economiche (Regole, Stato, uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press, 2016, pp. 241, 16 euro) è la rivitalizzazione dell’antitesi tra un “noi” socialdemocratico e un “loro” neoliberista. La sua interpretazione dell’appannamento che ha colpito tale dicotomia è nei termini di una sudditanza del primo al secondo, ad un “loro” la cui egemonia ha conquistato la teoria economica prima ancora che la politica. Di qui l’appello a che la sinistra si risolva ad adottare in questa fase, all’esito catastrofico del ciclo neoliberista e del capitalismo finanziario globalizzato che ne è il prodotto, quella “controcultura” necessaria a definire “convincimenti, quadri analitici e rappresentazioni della società” difformi da quelli comandati dal pensiero unico economico. L’assedio condotto negli anni dall’ortodossia teorica oggi imperante ha ottenuto il ritiro della sovranità politica dalla scena economica; si è trattato di un ritrarsi intimidito, come di chi si sia finalmente persuaso, per il nerbo dell’esattezza matematica, di essere stato fino ad allora niente più che un abusivo in casa d’altri. Così l’economia di (solo) mercato, da scelta politica quale è ha finito con l’assumere le sembianze di una ineluttabile ovvietà di natura. Per questa via la preferenza per la forma concorrenziale di mercato ha invaso la sfera dei comportamenti individuali imponendo il precetto per il quale la competizione è regola alle relazioni umane stesse. Biasco chiama alla corresponsabilità per questo esito la socialdemocrazia europea per non aver creduto di poter costruire ed opporre un impianto teorico rivale, ed essersi acconciata invece a “reinterpretare a sinistra” quella ortodossia, e cioè a subirla. Nel ripercorrere gli effetti più recenti della egemonia teorica neo liberista, il volume non tace i pregi che pure il mercato ha come mezzo per conseguire finalità sociali. Contesta piuttosto che la legittimazione di tali finalità debba derivare dalla logica di mercato. Pure, non può non riconoscere che la globalizzazione, che di quell’ortodossia è il portato più macroscopico, abbia determinato l’uscita dalla povertà di milioni di individui, risultato che va salutato con favore da chiunque dica di battersi per l’emancipazione dai bisogni. Egualmente, però, alla globalizzazione è stato corrisposto un prezzo altissimo in termini di compressione dei diritti, disuguaglianze, instabilità economica. Guardando in casa, l’autore non si sottrae al dibattito sulla prospettiva di abbandonare la moneta comune europea. Non c’è dubbio che la permanenza in un euro così condotto, farebbe infatti dell’Italia definitivamente “campo di razzia” per le imprese estere, e che saremmo costretti a tenere il passo altrui internalizzando la svalutazione attraverso ulteriori compressioni dei salari e tagli alla spesa pubblica. Tuttavia, le alternative appaiono di gran lunga peggiori. La tesi è che la prospettiva di abbandono dell’euro non sia analiticamente fondata. Non proviene quindi da un apriori politico: semplicemente, il favore per la permanenza nell’euro discende dall’esclusione di ogni altra alternativa. Il cuore del ragionamento è che ogni immaginabile vantaggio che si ricavi dall’abbandono dell’euro potrebbe prodursi soltanto assumendo la clausola ceteris paribus, come del resto è prassi dell’apparato analitico neo liberista. Ma tale assunzione non è plausibile, specie in un mondo così intensamente interconnesso: non è sensato infatti manovrare una variabile e attendersi che tutte le altre rimangano inerti. Così, non è pensabile che l’incremento di esportazioni ottenuto per effetto della svalutazione di una moneta restituita alla sovranità statale costituisca un vantaggio netto, poiché non si tratterebbe di una svalutazione come l’abbiamo conosciuta ma di una svalutazione in presenza di default, e non si vede perché creditori insoddisfatti dovrebbero rinunciare al contenzioso e favorire un debitore che ha dichiarato di voler essere insolvente. Allo stesso modo, la prospettiva di abbandono della moneta retroagirebbe sulle decisioni di tutti gli agenti economici, e chi può ripararsene in anticipo lo farebbe, spostando altrove patrimoni e attività produttive con esiti il cui segno è facilmente calcolabile. Per evitare tali conseguenze occorrerebbe semmai una generale e benevolente disponibilità del resto d’Europa a concordare l’uscita di un singolo Paese, e si tratterebbe comunque di una navigazione incerta, costosa e senza precedenti che richiederebbe grande perizia e cooperazione. Ma allora -domanda conseguentemente l’Autore- perché non mettere tale perizia e cooperazione ad orientare verso finalità desiderabili la moneta che già c’è? D’altro canto, lo spazio di manovra di una volontà europea convergente è grande, e ad esso si appella per offrire in chiave progettuale la riproposizione dei temi delle regole, dello Stato e dell’uguaglianza, che al volume danno il titolo. La premessa necessaria è che l’Europa sia riconosciuta come dimensione propria dalle sinistre che la abitano, sul presupposto che “la critica all’Europa è oggi tutt’uno con la crescita del neo liberismo”, e che un’Europa delle piccole patrie non sia coerente con i loro valori. Tale solidarietà potrà fugare il dubbio -oggi invero diffuso- che il potere pubblico non sia più libero nei fini. Ma tale potere dovrà ridefinirsi in una dimensione sovranazionale che metta anzitutto in sicurezza la crisi valutaria e proceda poi ad una qualche forma di mutualizzazione del debito sovrano, che non ne ignori le responsabilità ma che nemmeno consenta loro di trasformarsi in una condanna senza fine. Le numerose e dettagliate proposte che il testo avanza in tema di regole -dalla lotta all’arbitrio nella ricerca del profitto all’estensione della responsabilità sociale degli operatori di mercato- discendono tutte dal necessario consenso a che siano le regole a costituire, e dunque potenzialmente limitare, le dinamiche di mercato, e non queste a legittimare le regole. Il punto in questione è tanto più vero da quando dinamiche di mercato sregolate hanno trasformato la finanza in un gioco d’azzardo. Quanto al tema dell’uguaglianza, cuore dell’universo simbolico della sinistra, la sua urgenza è oggi aggravata dall’interrogativo su “chi paga” l’uscita dalla crisi. Ci si può domandare se l’inversione tematica proposta sia effettivamente conseguibile o se invece l’autore abbia ecceduto in ottimismo. La sensazione che emerge dalla lettura è quella della ineluttabilità del percorso indicato per impraticabilità delle alternative. Essa discende da una onesta analisi, ed è sul piano dell’analisi che la sfida va raccolta. In particolare sul piano degli strumenti analitici da adottare, posto che proprio sulla strumentazione analitica ha riposato il fascino delle teorie neo liberiste che hanno egemonizzato le aule universitarie prima e i Parlamenti nazionali dopo. La proposta di una concezione del mondo in cui le regole e la sovranità del soggetto pubblico siano a servizio della correzione dei divari delle dotazioni ricevute dai singoli deve essere allora preceduta dall’adozione di strumenti teorici non soltanto diversi, ma radicalmente alternativi a quelli impiegati dalla rappresentazione oggi egemone dell’economia. Alcuni di essi sono già disponibili, come l’Autore annota in una delle Letture che fanno da complemento al testo, ed evocano di volta in volta l’assunzione delle regolarità comportamentali e cognitive in luogo della scelta razionale, della nozione di sentiero al posto di quella di equilibrio, di una interpretazione dei fatti in termini evolutivi anziché in termini di massimizzazione. È in compagnia di tali strumenti, e del coraggio necessario a servirsene, che la sinistra potrà dirsi non più “rispettosa dell’ordine costituito”, ma artefice di un ordine differente e ancora da costituirsi, che sia parimenti legittimato a guidare le sorti della società.
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