“Il gelso di Paola e gli ulivi di Alì” è il titolo dell’incontro, organizzato il 12 luglio scorso a Nettuno da ARCI Itaca, per la presentazione del libro di Paola Caridi “Il gelso di Gerusalemme” (incontro in cui è stato pronunciato questo intervento, n.d.r.); un incontro dedicato al ricordo di Alì Rashid, esponente politico palestinese recentemente scomparso, anche per il rapporto che lui descrive tra suo nonno e gli ulivi secolari della terra da lui coltivata: “a ciascuno aveva dato un soprannome” ci diceva Alì. Quale incipit più appropriato per un libro che parla di alberi e soprattutto capovolge il punto di vista mettendo gli alberi al centro del racconto e, attraverso di loro, l’agire degli umani.

Paola Caridi, ancora una volta, ci sorprende e fa di più, raccontando nel libro, tra le altre, la storia di Lifta, il villaggio della famiglia di Alì. Una storia unica, paragonabile a quella di Pompei per come il tempo sembra essersi fermato, ma a Lifta, a differenza di Pompei, sono state le piante a sostituire la presenza umana. Tutto ciò rende ancora più vive le parole di Alì, quando descrive un luogo dove non ha avuto neanche la sorte di nascere e lo sradicamento che lo ha portato nel mondo con quella sua tristezza mista alla gentilezza che, insieme, sono state il tratto inconfondibile della sua personalità.

Alì ha frequentato l’Università in Italia, a Parma, supportato dalla famiglia e dalla sua comunità di profughi palestinesi in Giordania; laureatosi in Scienze politiche, è stato il Primo Segretario della Delegazione Palestinese in Italia, (non avendo riconosciuto l’Italia, né allora, né ora, lo Stato Palestinese non possiamo parlare di Ambasciata), è stato Deputato del Parlamento Italiano dal 2006 al 2008. Non ha mai cessato di rappresentare la migliore tradizione culturale e politica della causa palestinese e della soluzione non violenta di quel conflitto. La sua morte durante lo sterminio dei palestinesi a Gaza aumenta il vincolo tra noi e la causa cui ha dedicato l’intera vita.

Nel libro di Paola si parte da Gerusalemme e da un moncone di gelso la cui martoriata sopravvivenza racconta una storia che è quella del vecchio Padre Jean Manuel e della sua infanzia quando i gelsi erano sette nel quartiere Musrara spaccato in due, successivamente, dalla linea verde; fino alla sopravvivenza dell’ultimo gelso messa in discussione durante il periodo del Covid da una pavimentazione di pietra bianca che mal si conciliava con i frutti rossi che vi cadevano sopra. Forse sarebbe bastato garantirgli un cerchio d’erba intorno ma chi lo ha brutalmente decapitato non doveva pensarla così, rimandando alle future generazioni la soluzione del problema.

Il libro ci racconta Gaza quando non era una striscia e respirava in un rapporto oggi inimmaginabile tra città, campagna e mare. I sicomori, oggi scomparsi, la facevano da padroni, in fila, a segnare percorsi lunghissimi o in boschi in cui, fino ad un certo punto di questa storia, i bambini di Gaza potevano accedere. Gli alberi sono testimoni di un passato in cui i confini non erano frammentati dalle divisioni successive dovute alla creazione di Stati nazionali disegnati dalle potenze coloniali. Alberi sacri, alberi piazza; i sicomori, insieme ad altri come querce e lecci, hanno costituito il centro della vita dei villaggi, hanno assicurato ombra e vivibilità a luoghi assolati, ristoro per viandanti assetati e storie che si perdono nella notte dei tempi e nei testi sacri di tutte le religioni.

E ancora, Amal la bambina sopravvissuta al bombardamento che ha sterminato 29 membri della grande famiglia Samouni nel 2009 nella periferia agricola di Gaza, durante la ritorsione israeliana denominata operazione “piombo fuso”. Amal, con un bastone sulla sabbia, disegna la circonferenza del grande sicomoro sotto la cui chioma la comunità familiare si era riunita per generazioni. Tra le vittime del bombardamento, insieme agli umani, vi sono stati gli alberi, prevalentemente gli ulivi. Storia raccontata magistralmente da Stefano Savona con l’animazione di Simone Massi nel documentario “La strada dei Samouni”, vincitore a Cannes nel 2018.

E Giaffa con le sue arance Shamouti, frutto della sapienza agronomica palestinese, di cui una delle caratteristiche è la resistenza al trasporto e il potere di contrasto allo scorbuto; ricchezza di una città in cui, ancora una volta, l’entroterra agricolo e il mare erano un tutt’uno, con il suo porto da cui le arance andavano per il mondo. Nel libro si descrive la penetrazione sionista nella coltivazione delle arance ben prima della nascita di Israele e che dopo la costituzione dello Stato cancellerà la storia precedente con una identificazione totale di Israele con i frutti e perfino con il loro colore.

Non è un caso, come ci fa capire Paola Caridi, che, per i palestinesi, Giaffa, sia diventata più di altri il simbolo della Nakba (catastrofe) mentre per gli israeliani quello di un nuovo inizio.

Gli alberi, loro malgrado, sono in balia degli umani e possono essere usati a vari scopi. 

È il caso di quello che è stato definito l’“esercito” di alberi di Ben Gurion (250 milioni di pini) come strumento di occupazione  dello spazio e occultamento dei villaggi palestinesi dopo la Nakba, anche al fine di impedirne il ritorno e per incrementare il trasferimento di popolazione ebraica europea in un paesaggio più familiare.

Per impedire ogni contiguità territoriale e perfino visiva tra Gerusalemme e Betlemme, prima si è impiantata una foresta di pini per poi sradicarla in favore di una enorme colonia illegale composta di 6.500 abitazioni. Progetto che, senza soluzione di continuità ha visto alternarsi governi laburisti e conservatori fino alla sua realizzazione.

Betlemme, poi, che con la costruzione del muro, ha subito un vero e proprio stupro con la separazione tra città e campagna che in quel caso vuol dire ulivi, di cui una buona parte è stata distrutta con tutto ciò che questo sta comportando per la qualità della vita dei residenti.

Al gelso, in questo racconto tocca una sorte infausta: da albero di affezione a vera e propria maledizione.

Si tratta della dissennata storia del Monte Libano dove furono impiantati all’inizio del ‘900 ben 28 milioni di gelsi per sostenere l’economia della seta voluta dal rapace colonialismo francese che, insieme allo stravolgimento del paesaggio e dell’ecosistema, portò nella prima guerra mondiale il Libano alla fame con vittime stimate tra 350.000 e mezzo milione, con Beirut che arrivò ad avere meno di 100.000 abitanti a causa del fatto che la monocoltura aveva completamente distrutto l’agricoltura. La guerra vera e propria, lì, non era mai arrivata!

Interessantissima, infine, è la parte dedicata ad alcune città nel loro rapporto con gli alberi e la vegetazione, spazi pubblici e politica. Soltanto alcuni accenni. Verde e spazi pubblici spesso coincidono e questo porta molti regimi autoritari a temere entrambi. In particolare, il movimento in Turchia è quello che più ha legato ecologia e difesa degli alberi all’opposizione politica. In questo excursus, la tendenza più inquietante è probabilmente quella in atto al Cairo dove il verde, gli alberi in particolare, diventano un impedimento al controllo: dalle telecamere ai droni  perché, è vero, gli alberi nascondono e proteggono. 

Ci si può chiedere, a questo proposito, se di questa tendenza non vi sia traccia anche da noi.

Infine gli orti botanici come giardini zoologici delle piante e la storia di Palermo dove l’orto botanico, da catalogo delle “piante degli altri”, ha travalicato i cancelli e si è diffuso via, via, nella vita, nella cultura e nell’estetica di quelle parti di città sottratte al cemento.

In conclusione, si torna a Gerusalemme per abbracciare un albero a seguito di un impegno preso con un amico che non può più viaggiare (Vittorio Citterich) e per un gesto di omaggio e gratitudine a due frati la cui opera spirituale si è intrecciata con l’archeologia e con la storia della Terra Santa, Padre Michele Piccirillo e fra Girolamo Mihaic, e anche per perdersi ancora una volta nel mercato, dove, ancora, le donne palestinesi, con fatica e superando controlli sempre più soffocanti, portano le erbe e, perfino a volte, la cicoria, che a Paola ricorda il piccolo pezzo di terra che i suoi genitori coltivavano a Roma nord.

Radicamento e radici. In questa storia questo verbo e questo sostantivo sono comuni sia agli alberi che agli umani con racconti struggenti come quello della nonna di Alaa che andò a morire a Jaffa sulla panchina di fronte al mare e che mangiava con ingordigia le arance anche se non le piacevano per quelli che non potevano più farlo ( da “Il libro della scomparsa” di Ibtisam Azem, citato da Paola); i pellegrinaggi a Lifta dei discendenti; l’usanza di farsi inviare in ogni parte del mondo un sacchetto di terra dei villaggi di origine per poterla mettere sotto il capo nel momento della morte. Uno sradicamento impossibile; eppure, è quello che si sta tentando di compiere ai nostri giorni.

Non è esagerato dire che, dopo aver letto questo libro, si cambia il proprio modo di guardare gli alberi.

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