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La proposta annunciata il 7 settembre da Trump per mettere fine alla guerra di Gaza è stata prontamente silurata dal tentativo israeliano di assassinare i leader palestinesi che la stavano esaminando, effettuato sfrontatamente con una incursione aerea nella capitale dello stato mediatore. L’attacco, che oltre a sabotare quella iniziativa ha nociuto alla credibilità degli Stati Uniti e ai loro rapporti con un piccolo ma importante alleato, non era evidentemente autorizzato da Washington: è stato infatti definito da Israele una “operazione indipendente”. Trump ha espresso il proprio disappunto per lo schiaffo dato al Qatar (non per la tentata uccisione degli interlocutori), ma lasciando intendere che Israele può contrariare Washington senza pagare dazio.

Il piano americano offriva a Hamas, in cambio di tutti gli ostaggi vivi (una ventina scarsa) e le salme degli altri, la cancellazione dell’operazione “Carri di Gedeone”, il cessate il fuoco, e la liberazione di migliaia di detenuti: uno scambio vantaggioso. Hamas lo stava prendendo in seria considerazione, aggiungendo però due condizioni: il ritiro delle forze israeliane dal territorio e “una chiara dichiarazione sulla fine della guerra”. Era facile aspettarsi che Netanyahu ne traesse pretesto per attribuire alla parte palestinese la responsabilità del fallimento dell’iniziativa.

In realtà è il Governo israeliano che non intende fermare l’operazione su Gaza City, a costo di sacrificare la vita dei pochi ostaggi sopravvissuti. Aveva fatto credere agli americani di avere sostanzialmente accettato la proposta, ma non era in buona fede. Il ministro degli Esteri Saar ha infatti dichiarato che Israele vuole mettere fine alla guerra “sulla base della proposta del presidente Trump e in conformità ai principi stabiliti dal Gabinetto di sicurezza“: non proprio una accettazione incondizionata.

Cosa impedisce a Hamas, la parte più debole, di accettare incondizionatamente la proposta Trump? La prospettiva che alla scadenza della tregua, o anche prima, Israele riprenda l’offensiva, a questo punto non più frenata dalla preoccupazione per gli ostaggi. Per questa ragione nelle precedenti trattative aveva sempre acconsentito a rilasciarne solo una parte. Per rinunciare a questa moneta di scambio, Hamas chiede ora la suddetta “dichiarazione sulla fine della guerra“, per quanto può valere. In più, Trump offriva di presiedere al negoziato, il che sembrerebbe sottintendere che prendeva le distanze dal progetto di pulizia etnica e valorizzazione turistica della Striscia, che aveva sostenuto fino a pochi giorni fa. Ma anche questo nuovo elemento aveva un valore relativo, considerata la volubilità del presidente e la sua inclinazione a lasciarsi manipolare da Netanyahu.

In sostanza, si offriva anche questa volta a Hamas, in cambio di tutti gli ostaggi, solo la prospettiva, non la garanzia, che al termine della tregua Israele non riprenderà le ostilità. Ma Hamas non è nelle condizioni di pretendere di più. Di fronte alla escalation israeliana e alla concreta prospettiva della pulizia etnica, deve rinunciare al potere, e salvare il salvabile. Ha infatti già accettato di cedere la amministrazione della Striscia a un “comitato“ di palestinesi indipendente. Naturalmente si riserva di continuare la guerriglia se non ci sarà intesa sul cessate il fuoco.

È la parte palestinese ad avere urgenza che si raggiunga tale intesa, prima che avvengano sul terreno altri fatti compiuti, irreversibili. Se ci si arriverà, il successivo negoziato dovrà trattare in primo luogo della smilitarizzazione della Striscia, dell’esilio dei miliziani, e delle contropartite israeliane: rinuncia definitiva alle evacuazioni e demolizioni, modalità del ritiro dell’IDF. E naturalmente si dovrà parlare di controllo internazionale del rispetto degli impegni, di composizione della nuova amministrazione, di ricostruzione, di facilitazioni per le organizzazioni umanitarie.

L’unico contributo che i governi europei possono dare alla realizzazione di questo programma sarebbe un incoraggiamento ai qatarini a non abbandonare il ruolo di mediatori, e una discreta azione di convincimento su Hamas, tramite lo stesso Qatar e altri attori arabi, perché accetti senza riserve la proposta Trump, se ancora sul tavolo.

In caso di fallimento, si potrà dimostrare che è Israele a cercare pretesti per continuare le ostilità, puntando alla pulizia etnica. E allora gli europei dovrebbero trarne le conseguenze decretando sanzioni contro Israele per i gravissimi crimini contro l’umanità che continua a commettere. Senza limitarsi a vietare le vendite di armi. La Spagna ne ha dato un primo assaggio. Se gli altri governi, timorosi di rappresaglie americane, continueranno a opporsi alle sanzioni, si renderanno corresponsabili della tragedia di Gaza e dell’annessione di gran parte della Cisgiordania.

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