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Il piano di pace presentato da Trump il 7 settembre era parso fosse stato silurato dalla incursione israeliana su Doha del 9 settembre. L’emiro del Qatar e altri leaders arabi, constatato il disappunto del Presidente americano per quella azione sconsiderata, hanno invece visto l’occasione per incoraggiarlo ad abbandonare la tradizione del sostegno acritico al bellicismo di Netanyahu e ad assumere un ruolo di mediatore. Hanno quindi negoziato con i suoi emissari, Steve Witkoff e Jared Kushner, una versione migliore e più ambiziosa di quel piano.

Non è certo l’accordo di pace più straordinario degli ultimi tre millenni, come affermato dal Presidente. Ma ha il pregio di andare oltre la tregua temporanea, rifiutata da Hamas, e il rilascio parziale degli ostaggi. Delinea infatti una pace duratura sotto tutela internazionale, in cambio della resa di Hamas, movimento cui si chiede in pratica di scomparire (come il Baath iracheno nel 2003, e sappiamo come è andata a finire). Impone a Netanyahu di sganciarsi dall’estremismo espansionista dei suoi alleati Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, rinunciando alla guerra a oltranza e alla pulizia etnica.

Non è però stata una mediazione imparziale: al premier israeliano è stato consentito di apportare alcune modifiche, mentre Hamas è stato messo davanti a un ultimatum, una richiesta di capitolazione, senza alcuna possibilità di proporre emendamenti (la capitolazione propriamente detta non è una resa senza condizioni: comporta alcune clausole, o “capitoli”, ma è comunque una resa).

L’ultimatum esige che entro 72 ore Hamas abbia consegnato tutti gli ostaggi vivi e accettato di consegnare le armi e di rinunciare ad avere un ruolo politico nel territorio. Gaza sarà amministrata da un governo di tecnocrati, palestinesi ed expatriates, sotto la supervisione di un CdA (“Board”), presieduto dallo stesso Trump e guidato da Tony Blair, uno degli architetti della Riviera di Gaza. Arrendendosi, i guerriglieri avranno salva la vita: salvacondotto per chi va in esilio, amnistia per chi resta e rinuncia alla lotta. Il territorio sarà smilitarizzato; ci sarà una Gaza Police Force, costituita da personale locale, ma addestrata e controllata da una International Stabilization Force (cui contribuiranno USA, stati arabi e altri), in collaborazione con Egitto e Israele (!).

Hamas è posta davanti a un difficile dilemma: può rifiutarsi di riconoscere la sconfitta e di privarsi anche degli ultimi ostaggi, quindi di qualsiasi mezzo di pressione per contrastare possibili violazioni israeliane delle intese, ma a che prezzo? Se accetta i venti punti, comprese le modifiche che Netanyahu ha strappato nell’ultimo round alla Casa Bianca, raccoglierà per i palestinesi i frutti del negoziato condotto dagli emiri e dall’Egitto con gli americani: fine della guerra, rinuncia di Israele a pulizia etnica, annessione e completa distruzione della Striscia, impegno degli USA e dei paesi arabi a ricostruirla, liberazione di quasi duemila detenuti, compresi 250 ergastolani. Se rifiuta di piegarsi, pur di salvare il proprio onore e vendere cara la pelle, fa scattare il pieno sostegno statunitense – lo ha promesso Trump – al proposito, annunciato da Netanyahu all’Assemblea Generale ONU, di “finire il lavoro”.

Perché Hamas possa rassegnarsi ad accettare questa capitolazione, occorre almeno che vengano chiarite alcune ambiguità: anzitutto l’obbligo di Israele di cessare immediatamente tutte le operazioni militari e di procedere in tempi ragionevoli al ritiro dalla Striscia, che è definito “graduale” ma lasciato nel vago. Washington dovrebbe smentire l’affermazione di Netanyahu circa la responsabilità per la sicurezza che secondo lui Israele continuerà a esercitare; ciò comporterebbe infatti la presenza di forze di polizia e militari di Israele, in concorrenza con la Gaza Police Force e la International Stabilization Force. Solo a queste deve essere riservato il compito di completare e controllare il disarmo dei guerriglieri. Un compito difficile, poiché anche qualora tutti i miliziani di Hamas obbedissero all’ordine di cedere le armi, la Jihad islamica potrebbe non aderire, fornendo un pretesto all’IDF per usare la forza e ritardare il ritiro dalla Striscia. Netanyahu ha poi ottenuto che il ritiro non sia completo: manterrà il controllo su una fascia di sicurezza , la cui ampiezza non è specificata.

Più che una semplice ambiguità, una vera e propria contraddizione si rileva a proposito dei criteri per la ricostruzione. Il secondo punto sembra archiviare l’indecente progetto di una “Gaza Riviera”, visto che recita: “Gaza will be redeveloped for the benefit of the people of Gaza”. Ma poi il punto 10 prevede la creazione di un “Trump economic development plan to rebuild and energize Gaza”, sul modello di alcune “moderne città-miracolo del Medio Oriente” (allusione a Dubai e Abu Dhabi); e cita piani di gruppi internazionali intesi a creare le condizioni per attrarre ingenti investimenti (allusione al Boston Consulting Group e al Tony Blair Institute for Global Change?). Resta dunque in piedi il grande progetto immobiliare di una Miami mediterranea, caro al “Primo Genero” Jared Kushner e a Tony Blair, il Governatore in pectore della colonia.

Su un altro punto Netanyahu ha avuto la meglio, eppure non si accontenta. La Autorità Nazionale Palestinese (ANP) viene esclusa dalla amministrazione del territorio almeno per un lungo periodo di transizione: fino a quando avrà completato il suo processo di riforma. Solo allora sarà possibile un cammino verso la autodeterminazione della Palestina. Lo Stato palestinese viene evocato come una aspirazione di quella popolazione, non come una concreta prospettiva; e non viene mai menzionata la Cisgiordania, né la rinuncia ad annetterla (come chiesto alcuni giorni fa da Trump, in passato possibilista), né il legame fra i due territori. Netanyahu ha comunque negato categoricamente che l’ANP possa avere in futuro un ruolo nella governance di Gaza e che possa mai vedere la luce uno Stato palestinese.

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