Interventi

1. Molto meritoriamente, i referendum promossi dalla CGIL hanno riaperto il discorso pubblico intorno al mercato del lavoro e al suo regime di regolazione. Per fortuna, grazie all’iniziativa referendaria, disponiamo ancora di una scena sulla quale far vive-re la necessità di assetti istituzionali che non tradiscano i problemi da risolvere. In concreto, succederà quello che succederà: con ogni probabilità, il governo cercherà di evitare la consultazione per mezzo di un intervento correttivo del Jobs Act; se riuscirà a vararlo in tempo utile, bisognerà vedere l’entità e il tenore delle modifiche, questione delicata, perché il quesito sui voucher investe proprio la ratio dello strumento. Ma queste incertezze, adesso, sono meno importanti del fatto che in un modo o nell’altro, qualunque scenario prenderà forma nei mesi che ci aspettano, la materia è destinata a restare di attualità politica stringente. Intanto, la data è stata fissata e campagna per il ‘sì’ è partita.
Molto meglio, naturalmente, sarebbe stato se la Corte avesse ammesso anche il quesito che riguarda l’art.18. Ma il vulnus, per quanto grave, non tocca l’essenziale. A dispetto della decisione presa dai giudici, il senso e il peso della prospettiva refe-rendaria restano quelli appena detti: la regolazione del mercato del lavoro come questione di nuovo al centro dello confronto politico in corso nel Paese, ancora aperta alla possibilità di far valere idee diverse da quelle espresse dall’establishment governativo degli ultimi tre anni. Più in particolare, la portata dell’iniziativa sindacale trova conforto nei tre argomenti che seguono.

  • Intanto, lo stesso art. 18 non può dirsi materia ormai passata in giudicato. Se la CGIL ricorrerà alla Corte europea, come speriamo che faccia, la disciplina dei licenziamenti sarà comunque compresa, almeno fino alla sentenza, nel quadro del contendere.
  • In secondo luogo, a proposito dei voucher e del referendum che li riguarda, si può parlare di una parte che sta per il tutto. Perché certo, la precarietà dei rapporti di la-voro è questione pervasiva, che va molto al di là dell’istituto oggetto del quesito, ma quest’ultimo la implica con un’incisività che difficilmente potrebbe essere maggiore. Diciamo di più: proprio perché la precarietà è questione di rilievo affatto generale, l’argomento dei voucher sta assumendo una valenza ideale solo di poco, ci sembra, inferiore a quella dello stesso art. 18.
  • Da ultimo, va detto che la posizione dei promotori sarà tanto più convincente quanto maggiori saranno lo spessore e la credibilità dell’idea che ‘un altro mercato del lavoro è possibile’. Di nuovo, è chiaro che una prospettiva genere – un altro mercato del lavoro, positivamente diverso dalla sua attuale configurazione – trascende di gran lunga le materie oggetto dei quesiti. Tuttavia, anche ai fini del voto o del confronto parlamentare, non sarebbe male trasmettere il messaggio di averla in mente ed essere in grado di delinearla. Soltanto così la vicenda referendaria può davvero assumere il senso di una tappa lungo un cammino destinato a proseguire, come è il caso che avvenga, visto che moltissime cose, anche dopo la sperabile vittoria del ‘sì’, o qualsiasi prevedibile modifica legislativa, resteranno storte, da portare a una di-versa configurazione. Si tratta insomma della possibilità che le ragioni dei promotori siano sostenute come parte della rivendicazione di un cambiamento tanto ampio quanto in effetti deve essere, non senza vantaggi per il loro stesso appeal.

2. L’importante, nella situazione appena accennata, non sta soltanto nel valore intrinseco, di per sé indubitabile, di tutto ciò che riguarda il mercato lavoro e il suo regime di regolazione. Sta anche nel fatto che il tema della partecipazione al lavoro costituisce un ottimo test della capacità di delineare una posizione politica ‘sufficiente’, all’altezza dei dati materiali e morali che abbiamo sotto gli occhi. In questo senso, si intravvede la possibilità di un tragitto che dall’interno del particolare porta al genera-le. Proprio in ragione del loro peso specifico, e proprio in quanto siano trattate nel rispetto del merito che le costituisce, le questioni legate al mercato del lavoro e al suo regime di regolazione offrono l’opportunità di mettere a fuoco qualcosa di ‘veramente importante’, che ha a che vedere con le attuali condizioni di base dei pro-cessi produttivi e riproduttivi – per come le vediamo all’opera e per come possiamo pensare di ricavarne esiti migliori, più umani, civili, ragionevoli. Con tutta semplicità: quale ‘tipo’ di società e di economia riteniamo plausibile (possibile e desiderabile) all’altezza delle attuali contingenze storiche? L’idea è che il tema della partecipazione al lavoro fornisce alla domanda un terreno di riflessione particolarmente fertile – forse proprio un terreno che ha senso definire ‘d’elezione’.
Naturalmente, tutto ciò era vero anche ai tempi del Jobs Act. Ma l’occasione, allora, è stata persa. Per coglierla, il fronte che si opponeva al provvedimento avrebbe dovuto innanzi tutto alzare la posta del confronto – rivendicare in proprio la necessità di superare il regime di regolazione ereditato dal passato e riempirla di contenuti più corposi di quelli previsti dall’iniziativa del governo (a partire dalla denuncia di un chiaro sbilanciamento sulla disciplina dei licenziamenti). In breve, battersi in nome di un cambiamento diverso, più comprensivo, piuttosto che dello status quo. Non che la cosa fosse facile; però sarebbe stata quella giusta. Le questioni legate alla partecipazione al lavoro ricordano da tempo la metafora evangelica: si tratta proprio di “versare vino nuovo in otri nuovi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono il vino e gli otri”. Senza dubbio, la cultura del Jobs Act ha pochissimo a che fare con il senso del cambiamento, così alto e bello, che esce dall’immagine; ma altrettanto poco, quasi senza eccezioni, gli oppositori del provvedimento si possono vantare di averlo coltivato. Comunque, giova ripetere, oggi hanno il merito di una provvida riapertura del discorso pubblico. Chiunque voglia può mettere a frutto l’iniziativa referendaria come un’altra opportunità di dire quanti e quali otri sono necessari affinché il vino nuovo non si perda in mille rivoli.
3. E approfittarne, anche questo giova ripetere, per fare qualche passo avanti sul pia-no della ‘soggettività’ della politica. Se è vero che il tema della partecipazione al lavoro è un terreno d’elezione della riflessione intorno alla società e all’economia con-temporanee, è anche vero che siamo in presenza di un’occasione di tipo ‘formativo’. Per quanti hanno a cuore la ‘magnitudine’ (la portata, il respiro) degli obiettivi di trasformazione sociale da sempre custoditi dal movimento dai lavoratori, e però avvertono che almeno da trent’anni è tempo di pensare a una diversa “ricchezza del possibile”, la battaglia referendaria può ben costituire qualcosa come una palestra – un luogo dove incontrarsi, riconoscersi, rendersi riconoscibili.
Si tratta appunto della formazione di un’identità politica – in questo senso qual-cosa di più di una ‘posizione’ – che dai rebus del presente tragga ragioni e tratti di originalità. Con quali riferimenti sul piano delle forze organizzate – quante speranze abbia senso riporre nell’ala sinistra del PD, quante nella formazione che è nata dalla scissione di quest’ultimo, quante altrove – è questione che resterà qui impregiudicata. In ultima istanza, l’essenziale sta ancora nella qualità delle idee – se abbastanza ben pensate da conferire colore, freschezza e credibilità alla suddetta identità politica. Ma è chiaro che quest’ultima, come ogni altra, richiede mani e piedi. Così, anche per quanto riguarda l’evoluzione delle forze in campo, si può dire che la battaglia referendaria fornisce qualcosa come una ‘sala prove’.
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