La persistente macchina del mito
Cinquanta anni dopo la sua morte, Pier Paolo Pasolini continua a occupare un posto centrale, ma anche paradossale, nella cultura italiana. È il più vivo dei morti, il più unanimemente venerato dai media e il meno letto davvero. Ogni anniversario lo riporta in scena con la forza di un rito collettivo: articoli, mostre, convegni, documentari, progetti speciali. Eppure, in questa sovrabbondanza celebrativa, si avverte il rischio che la sua voce venga di nuovo sepolta, stavolta sotto le macerie della devozione. Come stanno insieme le due cose?
Come ha scritto Walter Siti, che ne ha avvicinato l’opera dappresso e come ha ricordato “Le Monde” l’anno scorso, il mito di Pier Paolo Pasolini persiste, nonostante i suoi errori di predizione, come un meccanismo nostalgico e una macchina di fuga dal tempo. È una formula adatta a descrivere ciò che oggi molti chiamano pasolinismo: un dispositivo collettivo che, più che ricordare le opere dell’autore, finge di pensarlo, esibendolo piuttosto come una reliquia.
Già nel 2015, Rocco Ronchi aveva colto il punto: «Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare, ma del pasolinismo, vale a dire di un’ideologia diffusasi a macchia d’olio nell’Italia dei quarant’anni successivi alla sua morte». Ronchi mostrava come questa vulgata sfruttasse un consenso quasi unanime, capace di attraversare le appartenenze politiche e religiose, unificando cattolici e laici, conservatori e progressisti. Tutti si riconoscono in “Pasolini” — ma non nel poeta, né nel regista, né nel pensatore empirista eretico; piuttosto, in una figura mitica, spogliata dell’elemento drammatico delle proprie sanguinanti contraddizioni che, rese così orpello di scena, divengono innocue. Il pasolinismo è diventato la lingua comune di un’Italia che non osa più dissentire davvero, la celebrazione dell’icona di un dissenso senza rischio.
Ronchi si spingeva oltre la semplice accusa di appropriazione, osservando che l’unanimismo pasoliniano è sintomo di un conformismo rovesciato: tutti, a destra come a sinistra, si proclamano “corsari”, ma nessuno lo è. Aggiungeva inoltre che le diagnosi pasoliniane sulla mutazione antropologica, sull’omologazione e sul genocidio culturale non erano affatto originali: Marcuse, Illich, Foucault le avrebbero già formulate con più rigore e profondità. L’originalità marginale di Pasolini non sarebbe allora teorica, bensì etica: consisterebbe nell’aver incarnato fino allo scandalo la tensione tra vita e pensiero. Anche se, quando quella tensione si mitizza, si trasforma in una dottrina del lamento.
Le scorie dell’eredità
Sempre un decennio fa, a quella mitizzazione dava un nome e un tono ancor più spietato Francesco Longo, in Sette buoni motivi per dimenticare Pasolini. Non invitando a cancellarlo, ma a filtrarlo: a distinguere il lascito vitale dalle scorie paralizzanti. L’elenco dei “vizi ereditari” del pasolinismo era impietoso:
– l’esotismo dell’intellettuale in giacca e cravatta che si aggira tra i poveri nelle borgate e sui campetti di calcio senza mai fondersi davvero con loro;– l’eroismo del martire che sostituisce l’opera con la vita e la vita con il corpo;– la dietrologia dell’intellettuale che sa tutto ma non può provare nulla, e che ha alimentato quindi la cultura del sospetto;– l’eclettismo dell’artista totale, trasmesso romanticamente come modello di genialità dispersiva.
Per Longo, questi tratti avrebbero generato un costume culturale più che un pensiero: la posa dell’intellettuale “impuro” come valore in sé. Dietro l’ironia, si intravede la stessa preoccupazione di Ronchi: quello di Pasolini sarebbe diventato un linguaggio morto, un codice di riconoscimento per anime progressiste spaesate, un simbolo per i vedovi di futuro.Una trasformazione che ha fatto sì che la terminologia pasoliniana, divenuta uso comune, funzioni ormai «come un medicinale scaduto in fondo a una farmacia», avrebbe detto Derrida, traslando la critica dal piano ideologico a quello farmacologico: il linguaggio pasoliniano, che un tempo curava, oggi rischia di avvelenare per assuefazione. Come se la sua stessa popolarità avesse generato una «passiva familiarità» capace di anestetizzare il pensiero.
Pasolini senza eredi, ma ancora ereditabile
A mio avviso, il miglior modo per ricordare Pasolini è leggerlo e guardare i suoi film, badando a conservare alla sua opera quella sostanza antagonista che aveva quando fu immaginata e creata, di modo che resti pietra d’inciampo, infinita eresia ‒ come scrivevo qualche anno fa1. È una formula di rigore: ricordare Pasolini non significa santificarlo, ma restituirlo alla sua irredimibilità. La perdita della speranza, cifra dell’ultimo Pasolini, andrebbe raccolta come testata d’angolo, non come pietra da scartare: la mancanza mancata di Pasolini è un’assenza di speranza che non riesce a essere disperazione, richiamando la postura dell’Angelo benjaminiano che avanza con lo sguardo rivolto alle rovine.
Questo sguardo retroverso – che non è nostalgia ma tensione verso il passato come compito – spiega anche la sua autentica attualità. Pasolini non è stato il poeta della nostalgia, ma del lutto: e il lutto, se assunto fino in fondo, può generare un nuovo inizio. Il vero conflitto al centro della sua attenzione critica non è tra modernità e tradizione, ma tra sviluppo e progresso2. Detestava il primo quando diventava un tradimento del secondo. Lo sviluppo economico ‒ beninteso: benedetto ‒ senza crescita culturale e morale era, per lui, la forma estrema del potere; ma l’idea di progresso restava nel suo orizzonte, sia pure frantumato. Per questo poteva dire, parafrasando Marx, che «solo la rivoluzione può salvare la tradizione». Pasolini non era un antimoderno, ma un moderno contraddittorio, spinto da una fede laica nel potere rigenerativo della parola.
La sinistra italiana, che avrebbe dovuto riconoscersi in quella tensione e impugnarla, ha salvo eccezioni preferito rimuoverla. Stefano Fassina, in un articolo pubblicato da Rocca, ha colto con nettezza questo disagio: «Chi più dovrebbe riconoscerne e utilizzarne la carica critica, in realtà è in grande imbarazzo. Ha rimosso Pasolini. Ne teme lo sguardo severo». Fassina parla di una sinistra che si è adattata alla fine della Storia, smarrendo l’idea di alternativa e riducendo la politica a gestione del possibile. A suo avviso, tornare a Pasolini significherebbe riaprire la questione del senso: della persona ridotta a consumatore, dell’“ultimo sapiens sapiens” che ha rinunciato alla trascendenza del desiderio. La crisi del neoliberismo, la guerra, le crescenti disuguaglianze restituiscono alla Storia la sua violenza, ma non ancora la sua direzione. In questo scenario, la voce di Pasolini riemergerebbe come l’eco di una disperazione che era, paradossalmente, il suo modo di credere in un futuro migliore.
Contro la canonizzazione
Pasolini è stato uno degli ultimi tedofori del desiderio, coloro che tentano di trasmettere un fuoco, pur sapendo che il tempo dell’ereditare è in crisi. Forse anche perché, spostando la questione dal politico al genealogico, per trasmettere un’eredità serve un tempo lineare, un prima e un dopo; e mal si presta questo nostro tempo – e già quello di Pasolini – frantumato, simultaneo, privo di direzione. In questa temporalità disarticolata, ereditare diventa un compito difficilissimo, per quanto necessario. Pasolini ha tentato di mantenere viva la fiamma del desiderio e di trasmetterla, mettendo a frutto la propria vocazione pedagogica; provando a trasmettere, con il suo esempio di padre claudicante, imperfetto, un desiderio che non si confondesse col godimento, che anzi resiste alla sua banalizzazione consumistica. La sua tragedia è quella di un poeta che credeva ancora nella possibilità si confrontarsi con gli altri gettando tutto sé stesso nella lotta, corpo e anima, al di là delle evidenze che pure già gli testimoniavano quanto la trasmissione stessa del desiderio fosse ormai impedita.
Eppure, la sua ultima composizione poetica s’intitola Saluto e augurio: titolo contraddittorio, una volta di più, per chi aveva espunto la parola speranza dal proprio vocabolario. E chi salutava, Pasolini? Un giovane fascista. Un fascista: quanto di più lontano dal suo orizzonte assiologico, l’Altro per eccellenza, col quale però riteneva giusto stabilire un contatto al di là dell’impossibile («Io non mi faccio illusioni su di te: io so, io so bene, che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò»). Un fascista di ventuno, ventidue anni: un ragazzo, al quale rimette il compito che lui, stanco e disilluso, non può più assumersi: «Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre la vita, la gioventù»3. Gioventù è l’ultima parola dell’ultima sua composizione poetica.
Anche se letto, visto, fruito poco e male, le celebrazioni del cinquantenario confermano che Pasolini è diventato fin qui un repertorio di parole-chiave, oltre che per alcuni incarnazione di una moralità estetica. Il pasolinismo, nel quale sembra incastrato, è la forma secolarizzata di quella stessa religione della purezza che Pasolini detestava. È arrivato il momento di liberarlo da quel linguaggio che sta occultando la sua verità: la verità di un autore che ha attraversato la sconfitta senza redimerla.
Rileggerlo oggi significa allora restituirgli la sua impurità, la capacità di generare il conflitto e di provare a viverlo senza negarlo, rendendo feconda la disperazione. La sua lezione non è quella di un profeta, ma di un poeta che ha saputo continuare a lottare forgiando linguaggi sempre nuovi attraverso i quali esprimere verità parziali, momento per momento. Non un santino, non un profeta, non un martire civile: ma un pensatore della perdita, un poeta del desiderio interrotto, un testimone della quasi impossibilità di conciliare Legge e vita, parola e corpo, modernità e passato.
Nel tempo della comunicazione istantanea e dell’intelligenza artificiale, Pasolini non serve come simbolo, ma come misura della dismisura. Riaccostane l’opera significa ritrovare, sotto la cenere del pasolinismo, il rischio vivo della sua parola – quella che ancora oggi, come il Re Magio del suo Porno-Teo-Kolossal, continua a mormorare: «Eppure, senza quella cometa, Terra, non ti avrei conosciuto».
Ma perché tanta intellettualità è concorde nel considerarlo un capitolo ormai chiuso della storia culturale italiana, un’ossessione, una pietra d’inciampo, uno specchio deformante dal quale occorre congedarsi in modi probabilmente ancora dolorosi, ma senz’altro liberatori? Certo, vale quanto si è detto a proposito del mito, del Poeta assassinato che ci vendica della spoetizzazione del mondo (Walter Siti). Ma chi vorrebbe ci congedassimo da lui, non lo fa tanto per difendere Pasolini dal suo mito. Credo piuttosto che il suo anacronismo stoni e strida con l’attualità sociale e anche con la prassi politica delle “forze progressiste” perché improntato a dei “valori” desueti, ripiegati per bene nel fondo dei cassetti di una coscienza che collettivamente preferisce ormai farsi paladina delle forme piuttosto che dei contenuti. Difendendo soprattutto la democrazia, per esempio, ultimo baluardo al quale la coscienza progressista si aggrappa, non senza ragioni, essendo invece sempre più restia a impegnarsi per universalizzare l’esigenza di uguaglianza, fraternità, solidarietà, pace. Sentimenti e valori che informano invece l’opera di Pasolini, attenta però a registrarne insieme i passaggi a vuoto e le amarissime sconfitte.
Post-scriptumIn questi giorni, un underdog assoluto, il trentaquattrenne democratico socialista Zohran Kwame Mamdani, è stato eletto Sindaco di New York. Un colpo di scena, o un colpo di coda della storia? Pasolini visitò due volte New York, nel 1966 e nel ’69, restandone affascinato. A Oriana Fallaci che gli dedicò un ampio servizio su “L’Europeo” in occasione del primo viaggio, confidò: «È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esserci venuto prima, venti o trent’anni fa, per restarci».
Pasolini dette poi conto in prima persona della vita frenetica di quei suoi giorni americani con un articolo su «Paese sera», in cui scrive: «In America, sia pure nel mio brevissimo soggiorno, ho vissuto molte ore nel clima clandestino, di lotta, di urgenza rivoluzionaria, di speranza, che appartengono all’Europa del ’44, del ’45. In Europa tutto è finito: in America si ha l’impressione che tutto stia per cominciare. Non voglio dire che ci sia, in America, la guerra civile, e forse neanche niente di simile, né voglio profetarla: tuttavia si vive, là, come in una vigilia di grandi cose».Certo, quando si legge Pasolini si può provare un brivido. È che quando scriveva, così come quando poetava in fonemi o cinèmi, Pasolini immaginava e ci lasciava immaginare dei modelli di partecipazione civile e popolare fatti di sangue e di carne, forme di una democrazia in divenire non solo modello, architettura istituzionale, ma organismo agente, animato dalla potenza del desiderio.
Note
1 Luciano De Fiore, Il lupo avrà il sorriso?, Castelvecchi, Roma, 2022.
2 Per una trattazione di questo tema centrale, rimando al mio Risposte pratiche, risposte sante, Castelvecchi, Roma, 2018.
3 Pier Paolo Pasolini, Saluto e augurio, In: Id., La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975.
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