Qui il PDF del Centro Studi e Ricerche IDOS
Uno dei racconti che rimangono più impressi, da quando si studia filosofia alle scuole superiori, è il famoso “mito della caverna”, che Platone narra nella Repubblica. È noto: un gruppo di persone si trova da sempre chiuso in una grotta buia, appunto, ed è lì incatenato in modo tale da avere lo sguardo sempre fisso solo su una parete. Su di essa vede muoversi le ombre di vari oggetti della realtà esterna, che vengono proiettate da sagome create e agitate, alle loro spalle, da parte di carcerieri nascosti, grazie alla luce di un fuoco.
E così, non avendo mai visto, in vita loro, nient’altro che queste ombre, le scambiano per la realtà.
Poi uno di loro riesce a liberarsi, esce fuori dalla grotta e, dopo un iniziale accecamento alla luce del sole, a cui non era abituato, si accorge che la realtà è invece quella solida e variopinta che vede, sente e tocca – soprattutto tocca! – lì fuori. Ma quando rientra nella caverna per annunciarlo ai suoi compagni, per aiutarli a liberarsi e a fare anch’essi esperienza diretta della realtà autentica, questi non gli credono. Lo ritengono pazzo, lo denigrano, e preferiscono restare imprigionati, con la catena corta, nel buio della grotta, continuando ottusamente a credere che la realtà sia quelle ombre proiettate sulla parete.
Oggi non c’è forse paradigma migliore di questo mito per descrivere quello che sta succedendo a noi, da molti anni, riguardo all’immigrazione (e non solo riguardo ad essa, in verità). Sembra di sentire Hannah Arendt, quando dice che “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più”.
E in effetti, quanto all’immigrazione, noi incontriamo e vediamo solo ombre: caricature “grottesche” (è proprio il caso di dire!) create ad arte da furbi manipolatori di luci che, alle nostre spalle, ritagliano e agitano figure di migranti quanto più distorte e dissimili a noi. Ne fanno così dei bersagli della rabbia collettiva per mali atavici dell’Italia, mai risolti.
E così crediamo a una immigrazione immaginaria, proiettata sugli schermi piatti di ultima generazione dei nostri cellulari o televisori o pc. Mentre l’immigrazione vera, reale, la esperiamo sempre meno: immigrati in carne e ossa, non li incontriamo quasi mai davvero; anzi li teniamo a distanza, fuori dalle nostre caverne individuali e collettive.
Queste rappresentazioni condividono, con le ombre della caverna, la stessa oscurità e la stessa inconsistenza al tempo stesso. Quante immagini nere, negative, e senza la minima corrispondenza con la realtà, abbiamo visto affastellarsi in questi ultimi 40 anni?
Lo specus è uno speculum, dunque: la grotta è uno specchio, che ci rimanda l’immagine di noi stessi. Sulle pareti in cui la caverna ci rinchiude e ci ripiega, non vediamo altro che la proiezione delle nostre paure, delle nostre fantasie, dei nostri deliri di onnipotenza. In altri termini, nella caverna vediamo sempre noi e soltanto noi.
E allora bisogna sfondare la parete, per arrivare agli altri. Perché della realtà ci manca la terza dimensione, la profondità. Degli altri veri ci manca lo spessore della carne, l’esperienza tattile e fisica della loro concreta dimensione corporea che ci restituisce la loro presenza, anzi, la loro co-presenza. E soprattutto la loro co-essenza: quel sentimento empatico, cioè, di essere fatti della stessa pasta umana.
E invece, noi abbiamo resuscitato l’homo caverniculus. Il quale, invece di uscire dalla grotta, come l’altro Risorto di 2000 anni fa, vive e vegeta rimanendoci saldamente dentro e risucchiandoci tutti in essa.
E non solo l’abbiamo richiamato in vita, l’homo caverniculus, ma gli abbiamo consegnato la leadership delle maggiori super-potenze mondiali, affidandogli di fatto i destini planetari. Così lo abbiamo visto braccare i migranti come prede, stanarli nei boschi dei Balcani come nelle chiese e nelle scuole statunitensi, dividerne senza pietà le famiglie, esporli ammanettati e in fila indiana come trofei di guerra verso gli aerei da rimpatrio o verso i centri di espulsione, fino a rinchiuderli in gabbie da isolamento circondate da fossati coi coccodrilli.
Diceva Nietzsche che “il popolo, trasformato in gregge, vuole l’animale capo”: nessuna sorpresa, dunque, che i potenti di oggi rispecchino la regressione collettiva a uno stadio antropologico e culturale che davamo per estinto, ma che invece non è mai morto davvero. Una volta ricondotti dentro la grotta, è istintivo reclamare un burattinaio delle luci ed eleggere a guida un simile che incarni lo stato evolutivo dominante.
E allora, in questa notte pasquale laica, ottenebrata (più che illuminata) dalla figura tetra di questo nuovo risorto, proviamo anche noi a declamare un nostro Exsultet, che ahimè suona molto più prosaico e triste dell’originale:
E a tutto ciò si aggiungono almeno due forme di “sadismo” legislativo (ché non vedo come altro potremmo chiamare l’inflizione di dolore inutile per il solo piacere di infliggerlo):
Mentre quanto sarebbe più civile, più evoluto e soprattutto più degno dell’italianità autentica, che abbiamo maturato in secoli di cultura umanistica:1) abolire una buona volta il cosiddetto “contratto di soggiorno”, una gratuita perversione inventata dalla Bossi-Fini 23 anni fa e incredibilmente mai revocata, che – come si sa – condiziona in maniera ferrea sia il rilascio sia il rinnovo del permesso per lavoro a un contratto già in essere. Abrogare questa norma significherebbe sottrarre ai datori di lavoro l’abnorme potere di decidere, attraverso la volontà di formalizzare o meno il rapporto di lavoro, non solo del godimento legale della prestazione del lavoratore non comunitario, ma, con ciò, della sua possibilità di restare regolarmente in Italia. Un potere che diversi datori di lavoro hanno usato come arma di ricatto sottobanco, al momento della stipula, per imporre: mansioni aggiuntive fuori contratto, ore di lavoro extra non pagate o sottopagate in nero, ristorni indebiti di quote di stipendio (magari attraverso affitti forzati in topaie sovraffollate) e deroghe agli obblighi contrattuali su sicurezza, ferie, turni di riposo e così via;2) ripristinare il pds di ingresso per ricerca lavoro, quanto meno per rendere possibile la cosa più normale del mondo: un incontro diretto tra l’aspirante lavoratore e i potenziali datori di lavoro. E se poi studiassimo forme di connessione di questo permesso con i corridoi lavorativi e la formazione pre-partenza, non solo lo renderemmo sostenibile, ma estenderemmo l’investimento formativo all’estero (che ancora oggi presenta numeri bassi) anche a quanti desiderino spendere in proprio la formazione ricevuta. Sarebbe una misura, questa, che smantellerebbe in un sol colpo l’impianto dannoso della Bossi-Fini; 3) creare canali di collegamento strutturale tra i titolari di protezione che escono dal sistema di accoglienza e il mondo del lavoro. Come? Innanzitutto riattivando, nei Cas, e potenziando, nel Sai, i corsi di formazione professionale e linguistica, di orientamento civico e giuridico, di assistenza legale e psicologica; e investendo in maniera sistematica sulla ricostruzione e il completamento dei curricula, anche attraverso l’intervento diretto degli attori del mercato produttivo locale, invece di comprimere o addirittura azzerare questa filiera di preparazione all’integrazione, come hanno fatto i recenti governi, spaccando in due il sistema di accoglienza;4) fare della ormai ben sperimentata buona prassi dei corridoi umanitari una politica ordinaria, istituzionalizzando canali di ingresso in Italia, legali e sicuri, di profughi provenienti da aree di crisi o di transito, per consentire loro di accedere alla protezione (la quale, tra l’altro, prima di essere uno status dovrebbe essere un programma). In questo modo sbloccheremmo finalmente il passaggio – finora rimasto colpevolmente congelato – dalle buone prassi alle policy: il che, oltre ad essere una necessità per molti aspetti connessi all’integrazione dei migranti, in questo caso sarebbe anche l’unico modo efficace per combattere i trafficanti di esseri umani, perché annienterebbe il terreno di coltura sul quale proliferano;5) in conseguenza a ciò, revocare il Memorandum con la Libia e gli altri Paesi terzi ai quali, alla faccia del sovranismo tanto sbandierato, abbiamo appaltato la gestione delle nostre frontiere, rendendoci – come già detto – economicamente ricattabili (e di fatto ricattati) da autarchi e capi clan che detengono il potere di questi Stati a democrazia ridotta, per la sola ragione di impedire a monte che i richiedenti asilo arrivino ai nostri confini e poter così eludere furbescamente l’obbligo internazionale di non respingimento.Con i risultati che ben conosciamo: il primo è di stare l’Italia sponsorizzando, da ben 8 anni, ogni più bestiale violenza e brutale uccisione di migranti, in mare e in terra, nei centri di detenzione e nei barconi inseguiti nel Mediterraneo centrale (pensate: 1 miliardo e 366 milioni di euro elargiti alla Libia fino ad oggi, con i quali – ci dice Seawatch Italia – avremmo potuto finanziare, per lo stesso periodo, 109 mezzi di salvataggio come navi, elicotteri e aerei; oppure accogliere 68.300 famiglie con i corridoi umanitari; oppure riaprire, con appena metà della somma, la missione nazionale di soccorso Mare Nostrum del 2014, chiusa dopo appena un anno perché “costava troppo”); e il secondo risultato di tutto questo è di stare autorizzando mercenari vestiti da guardie costiere a sparare proiettili italiani, con fucili italiani, da motovedette italiane, anche contro navi di salvataggio di ong italiane. In un tragicomico “fuoco amico” dai risvolti letali sulla pelle dei migranti;6) infine, abrogare quegli inferni a porte chiuse sopra ricordati, che sono i Cpr, dove – possiamo esplicitarlo – i suicidi tentati e riusciti sono all’ordine del giorno, come i cibi guasti, i topi, l’immondizia, le percosse, gli atti di autolesionismo, le violenze fisiche e psicologiche, l’abuso di psicofarmaci, le fratture autoprocurate e le labbra autocucite pur di farsi ricoverare e uscire da una reclusione coatta di un anno e mezzo; e sostituirli con centri aperti, protetti e soprattutto civili, che servano piuttosto per il reinserimento e la reintegrazione degli irregolari nel tessuto sociale e lavorativo del Paese.
Insomma, verrebbe da dire: alziamo lo sguardo! Leviamo il capo! (che oggi suona, peraltro, come un felice doppiosenso).
Usciamo dalle grotte! Ognuno dalla propria (che ormai ci portiamo dietro anche quando siamo fuori casa) e lasciamoci dentro estinguere, per sempre, l’homo caverniculus. Se non altro, perché è uno zombie dal destino già segnato dall’evoluzione.
E pensate che bello sarebbe se, distogliendo una buona volta lo sguardo dai nostri schermi piatti, dalle nostre proiezioni su fredde pareti di pietra, tornassimo finalmente alla luce e al calore della cultura, della civiltà e dell’empatia.
E che bello sarebbe se, una volta fuori dalla caverna, potessimo riaprire finalmente i nostri sensi, rimasti per così tanto tempo turati e fuorviati da sensazioni indotte; sensazioni le quali hanno incrinato l’unico senso che conta, che è il senso dell’umano che ci circonda.
Fuori dalla grotta, potremmo tornare finalmente a vedere, a sentire e a fare un’esperienza ravvicinata della realtà e degli altri, creando nuovamente spazi di incontro vero, diretto, perfino con gli immigrati. Potremmo, insomma, toccare la “nuda vita” (come dice Agamben) che ci accomuna e ci rende tutti “fratelli di carne”.
Esperiremmo, così, la somiglianza. E praticheremmo, così, l’homo sapiens sapiens, che è esattamente la levatura che ci spetta e alla quale siamo tenuti tutti a rimanere.
Questo homo due volte sapiens ci aspetta fuori dalle spelonche in cui ci vogliono rinchiusi: ci attende sulle strade, nelle piazze, alla luce del sole. E ha il volto straniero, certo; ma umano, squisitamente umano, dell’altro.
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