Interventi

Qui la prima uscita “Vino nuovo in otri nuovi”
Qui la seconda, dal titolo “Allegria di congedi”
1. Continuiamo a disporre i fenomeni all’interno della nostra griglia interpretativa. Le situazioni che stanno dietro il saldo ΔL sono leggibili da due punti di vista: della partecipazione al lavoro e della partecipazione al prodotto sociale, del coinvolgimento nelle attività produttive e dei flussi di reddito. Soltanto se si ritiene che il lavoro non sia altro che un modo per procurarsi un reddito, e che la fonte del reddito sia un che di indifferente, i due punti di vista vengono a coincidere. Per motivi rilevanti, ma senza stabilire un ordine di importanza, conviene comunque partire dal secondo.
2. Un uomo – scrive Smith nella Ricchezza delle Nazioni – dovrebbe sempre poter vivere del proprio lavoro, compresa, ci tiene a precisare, la possibilità di metter su famiglia [1]. Tale, con più chiarezza che in ogni altra stagione del capitalismo, è stato l’ideale della ‘piena occupazione piena’, nonché il suo portato storico, nella misura in cui la Golden Age ne ha fatto una realtà osservabile. Non è necessario sposare la teoria del salario di sussistenza, comunque non priva di ragioni, per affermare che il linear career model incorporava con tutta evidenza la promessa di retribuzioni commisurate a un tenore di vita decent, e anche destinato a crescere: comunque ‘sufficiente’, secondo il senso elementare del claim di Smith, che pure già aveva in mente l’elemento che Marx definirà “storico e morale” [2].
Inoltre, visto che poter vivere del proprio lavoro significa poter contare su quello che si riesce a ottenere grazie alle proprie “capacità interne”, come le chiama Martha Nussbaum, ovvero sulle risorse rinvenibili nella propria stessa soggettività, il claim di Smith lascia anche intravvedere una fondamentale istanza di autonomia – di self-reliance, di ‘padronanza’ sul corso della propria vita, a sua volta visibilmente compresa nelle promesse del modello [3].
3. E’ questo il luogo per aggiungere qualche parola di commento alla citazione di Solow contenuta nella puntata precedente. Per l’essenziale, si tratta del fatto che il salario non può essere assimilato al prezzo di qualsiasi altro bene deperibile perché la sua determinazione incorpora un’istanza di equità – di fainess, come diceva Marshall – indipendente dalle condizioni di domanda e offerta (cioè dai rapporti di forza) vigenti sul mercato. La incorpora, è importante precisare, nel senso che non si tratta soltanto di un criterio normativo che noi – gli ‘osservatori’ – possiamo far valere nei confronti sistema, bensì, molto prima, di una normatività presente e operante all’interno del sistema, cioè nelle menti di coloro che vi agiscono, in specie dei lavoratori, i quali ne ricavano criteri e scelte di comportamento. Se si vuole, un normatività che è un fatto – ideale, certo, ma non per questo privo della capacità di produrre effetti ben reali. Come in tanti altri casi, e come Solow non manca di osservare [4], la cosa dovrà apparire ovvia a chiunque non sia un economista. Tuttavia, si appartenga o meno alla categoria degli economisti, vale la pena fare mente locale sulle sue implicazioni.

  • In primo luogo, a proposito della disoccupazione involontaria, va detto che la nozione è applicabile tutte le volte che il numero dei posti di lavoro offerti a un salario equo è inferiore a quello dei lavoratori desiderosi di occuparli e qualificati per farlo. Doverosamente, preciso che questa definizione è sensibilmente diversa da che quella proposta da Solow, il quale fa piuttosto riferimento al livello del salario di fatto vigente sul mercato, aggiungendo però che esso può essere stabilmente superiore a quello previsto dalla teoria convenzionale, fissato all’incrocio delle curve di domanda e offerta, e che lo scarto ha comunque a che fare con “una norma sociale interiorizzata”.
  • Schiettamente soloviana, comunque, è l’idea che il problema sussista sia se i disoccupati restano tali sia se accettano di lavorare per un salario più basso di quello fair (comunque definito) o si adattano a lavori peggiori di quelli per i quali sono qualificati (ricavandone però ragioni di frustrazione che non mancano di conseguenze sulla produttività, come risulta da una versione della efficiency wage theory). Il testo citato nella puntata precedente lo dice in modo del tutto esplicito, per quanto un po’ sbrigativo: “Tale definizione [della disoccupazione involontaria] comprende la sottoccupazione come la disoccupazione totale, e include sia il meccanico specializzato che non accetta il lavoro di spazzino che quello che lo accetta”.
  • Lo scostamento dalla visione convenzionale è più rilevante di quanto può sembrare: significa appunto che l’eguaglianza di domanda e offerta può essere chiesta, e giudicata un risultato buono, sotto il vincolo che rispetti una condizione, direbbe Keynes, “in separata sede”. Tale appunto il senso della comparsa di una norma sociale interiorizzata: l’eguaglianza delle due grandezze non si giustifica per il semplice fatto di esser tale; di mezzo c’è anche la soddisfazione di un requisito definito ex ante rispetto al gioco delle forze che la determinano o mancano di farlo.
  • A mettere insieme le cose – (a) il salario è un prezzo al quale sono pertinenti considerazioni di equità, (b) queste ultime riguardano la possibilità di vivere del proprio lavoro, sotto un vincolo di decenza che contiene un elemento “storico e morale”, e (c) comprendono anche la richiesta che tale possibilità sia offerta a coloro che hanno motivo di desiderarla (in particolare a tutti coloro che non possiedono altro che la propria forza lavoro) – si ottiene un punto di vista critico piuttosto robusto (e anche, come si vedrà, destinato a riservare qualche sorpresa). Comunque, un criterio di valutazione del quale il mercato del lavoro è attualmente lontanissimo dal rispettare il senso.

4. Con il tramonto del linear career model, infatti, quello che si è perso proprio il tratto di ‘normalità’ che per tanti anni, anche se oggi quasi non ce ne ricordiamo più, ha contrassegnato la possibilità in questione.
Più o meno, la si può ravvisare nelle situazioni in cui il modello continua a essere operante – la fattispecie A della puntata precedente – , appunto come portato della retribuzione di un lavoro a tempo pieno e indeterminato. Al netto dei rischi di crisi delle aziende di appartenenza, si tratta ancora di impieghi grazie ai quali un uomo o una donna possono campare e fare progetti di vita familiare. Per la verità, anche al di là dei casi di crisi conclamata, non si tratta comunque di situazioni esenti da problemi, visto che la consistenza delle aree di disoccupazione e sottoccupazione è abbastanza elevata da incidere sul potere di contrattazione degli insider. Anche dove i rapporti di lavoro sono meno aleatori, non mancano livelli retributivi che soddisfano il claim di Smith in modo ‘povero’, o forse non lo soddisfano affatto, a prendere sul serio il profilo del tenore di vita che Marx definiva “storico e morale”.
Ma certamente è soprattutto nei casi già contrassegnati con C1 e C2 – appunto quelli di scoraggiamento, disoccupazione mascherata e non, occupazione a singhiozzo, sottoccupazione, ecc. – che un gran numero di uomini e donne, in prevalenza giovani, sperimenta quanto poco l’accesso al mercato del lavoro (l’abbinamento della capacità e della volontà di lavorare) equivalga alla possibilità di vivere e metter su famiglia. A maggior ragione perché i rapporti di domanda e offerta, questa volta, incidono sui livelli retributivi, dirò così, senza ritegno, comunque con molta più forza di quella esercitata nelle situazioni di tipo A, in parte ancora configurate come ‘mercati del lavoro interni’. Come risultato, quando pure una qualche forma di impiego sia osservabile, davvero si tratta di ‘lavoratori poveri’, lontani o anche lontanissimi dal beneficiare dal criterio di ‘sufficienza’, storicamente determinato, che Smith enuncia in modo tanto limpido. Del resto, qualcosa del genere può dirsi dei casi compresi nella parte bassa di B (gli orari di lavoro ‘ottocenteschi’ in settori come la logistica e il delivery), dove il saggio del salario è proprio il fattore che spiega la quantità di lavoro prestata da ognuno degli addetti.
5. Al capo opposto, coloro che viaggiano sulla corsia veloce del mercato. Come accennato, il prezzo per restarvi è costituito da elevati livelli di stress (e dal sacrificio di molti aspetti della vita diversi dal lavoro), ma i livelli di reddito sono tipicamente dei multipli di quelli vigenti nelle situazioni di cui sopra, inclusi i casi A. Questo dato di dualismo del panorama occupazionale concorre potentemente alla formazione dei livelli di diseguaglianza che tanto marcatamente contraddistinguono l’attuale fase di sviluppo del capitalismo. Tuttavia, ai fini della loro spiegazione, non si tratta del dato più importante, che piuttosto è costituito dalla mutata distribuzione del reddito tra i fattori della produzione, lavoro e capitale, legata alla formazione di ΔL per il tramite del progresso tecnologico. Di sicuro, se una parte della popolazione attiva lavora meno ore di quelle previste dal linear career model (eventualmente zero), ricavandone redditi modesti o modestissimi (eventualmente nulli), la ragione non sta soltanto nel fatto un’altra parte ne lavora un numero maggiore: di mezzo, per citare Keynes, c’è anche il rapporto tra (a) “our discovery of means of economising the use of labour” e (b) “the pace at which we can find new uses for labour”.
Già il fatto che si tratti di un rapporto sta a dire che il progresso tecnologico, del resto riconoscibile sia in (a) che in (b), è lontano dal costituire una spiegazione esauriente di quello che succede; tuttavia, nella misura in cui riduce la quantità di manodopera per unità di output, sposta le possibilità di appropriarsi del prodotto sociale (del reddito) a tutto vantaggio di coloro che possiedono o comunque controllano i mezzi di produzione che l’hanno “economizzata”. Citiamo di nuovo Solow:
The distribution of income and output between wages and profits depends on the ease with which capital can be substituted for labour […]. If this kind of substitution can be relatively easy (in technical terms, if the economy-wide elasticity of substitution exceeds one) profits will come over time to absorb an ever-increasing share of aggregate income [5].
In breve, le aumentate differenze all’interno del mondo del lavoro prendono corpo in presenza di un fattore che (insieme ad altri [6]) congiura a far sì che l’intero mondo del lavoro perda peso: così, mi sembra, conviene leggere l’attuale livello di dispersione dei redditi, tanto elevato, si può dire, da violare il buon senso ancora prima di offendere quello etico.
6. In effetti, il quadro è così iniquo, pieno di ombre e di vuoti, che non risulta senz’altro insostenibile soltanto grazie a flussi di reddito ‘secondari’, diversi da quelli direttamente imputabili ai fattori della produzione. In particolare, nel caso del nostro Paese, direi che il dato saliente è costituito dai trasferimenti di risorse monetarie (o comunque countable) all’interno delle famiglie, in gran parte ‘assistiti’ dalla diffusione della proprietà immobiliare e dall’eredità dei passati regimi pensionistici. Considerata la povertà delle nostre politiche di sostegno dei redditi, la tenuta della società italiana riposa sulla solidarietà intergenerazionale per un aspetto che non mi sembra esagerato dire essenziale. Ma il rimedio, aggiungo subito, riproduce il male, perché anche i flussi in questione sono distribuiti malissimo, in modo affatto accidentale, avendo ben poco a che vedere tanto con i bisogni quanto con le capacità dei destinatari. E ancor meno rispettano l’istanza di autonomia che abbiamo letto in Smith. Ho palato di tenuta, ma intendevo proprio un livello minimo, a mala pena sostenibile, qualcosa come una situazione border line, perennemente esposta a rischi di collasso.
7. Il riferimento alla realtà italiana comporterebbe molte precisazioni del quadro abbozzato in questa e nella scorsa puntata. Naturalmente penso soprattutto al fatto che il saldo ΔL, riferito al nostro Paese, nasconde situazioni altamente diversificate anche in termini geografici: a parte forse un aspetto del caso C.3 (il ritardo con cui l’età pensionabile è stata adeguata all’aumento della vita media esente da malattie), tutti gli altri presentano indici di concentrazione territoriale che impongono di distinguere nettamente la situazione del Sud da quella del Nord, come pure, sebbene in misura minore, quella delle aree metropolitane da quella dei centri di minore ampiezza. E’ chiaro che oltre un certo limite, abbastanza ravvicinato, da considerazioni del genere non è lecito prescindere. Il loro peso, però, non sembra tale da togliere al discorso ogni carattere di unitarietà, quasi che tutto il problema stia nelle condizioni in cui versa il nostro Mezzogiorno. Per citare un solo dato, il fatto che la disoccupazione giovanile settentrionale sia meno della metà di quella meridionale non toglie che sia pur sempre intorno al 20%, più o meno in linea con la media europea: un livello che comunque non soddisfa alcun plausibile criterio di decenza. Lo stesso vale per i flussi di reddito intra-familiari, nei quali, certamente, vi è molto di ‘meridionale’, ma non fino al punto che le famiglie del Nord non ne sappiano qualcosa.
D’altra parte, che il rapporto tra la partecipazione al mercato del lavoro e la partecipazione al prodotto sociale non sia precisamente solido – che al riguardo si sia in presenza di un problema ‘generale’ – trova conferma in una vicenda tanto lontana dai casi italiani quanto quella statunitense di inizio secolo. Questa volta citiamo Colin Crouch:
Europeans were told by orthodox experts that the answer to their economic problems lays in producing more and more labour insecurity and cutting back on their welfare states. They eventually more or less obeyed, but found few positive results. No one told them that these insecure workers would need to be enabled to take on unsecured debt in order to boost consumer spending [7].
Mutatis mutandis, la quantità di prestiti subprime concessi dalle banche americane negli scorsi anni Dieci – più in generale, il lassismo da esse adottato nella concessione dei crediti al consumo, in parte osservabile anche al di qua dell’Atlantico – ha svolto un ruolo compensativo analogo a quello dei sostegni monetari che da noi sono forniti su base familiare. Salvo aggiungere che anche in questo caso, per ragioni che neppure vale la pena di dire, il rimedio merita giudizi assai severi, compresa, in forma diversa, ma pure assai precisa, la ragione che verte sul tema dell’autonomia.
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[1] In realtà, con più nettezza, Smith afferma che “un uomo deve sempre vivere del proprio lavoro, e il suo salario dev’essere almeno sufficiente a mantenerlo”.  Credo tuttavia che la riformulazione dell’argomento in termini di possibilità corrisponda senza alcuna forzatura a quello che Smith aveva in mente.
[2] Al riguardo, in varie occasioni, Sen ha richiamato l’attenzione sul passo della Ricchezza delle nazioni in cui Smith afferma che perfino l’operaio del più basso  livello, nell’Inghilterra del suo tempo, in particolare a Londra, si vergognerebbe se dovesse mostrarsi in pubblico senza una camicia di cotone o senza scarpe di cuoio. Messo così, in effetti, l’argomento presenta uno specifico motivo di interesse, legato al fatto che I temi della vergogna e del presentarsi in pubblico aprono il discorso alla nozione dei ‘funzionamenti’, che Sen, giustamente, ha soprattutto a cuore. In questa sede basta meno, e il meno che basta, però, si trova con facilità in tutta l’opera di Smith, dal celebre passo sulla mescita di birra a Dunfermline al ricorrente confronto tra il tenore di vita dei più umili lavoratori di un paese civile e quello dei più ricchi tra i selvaggi.
[3] Senza in alcun modo esaurirlo, questa implicazione chiama già in causa il punto di vista lasciato in sospeso nel paragrafo 1, che più avanti sarà adottato con la dovuta ampiezza. Vale anche la pena di precisare che non si tratta di un’implicazione che Smith avesse in mente nel passo citato alla nota 1, nel seguito del quale richiama piuttosto una ragione di tipo ‘sistemico’ (la possibilità che la classe dei lavoratori si riproduca di generazione in generazione); né è qui il caso di discutere se e quanto il quadro complessivo della sua opera contenga argomenti che possono essere collegati al tema.
[4] Il testo cui faccio riferimento è R. Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1994. La citazione contenuta nella puntata precedente è invece tratta da R. Solow, Le domande giuste, in “La Rivista Trimestrale – Nuova Serie”, n. 1-2/1987.
[5] R. Solow R, Whose Grandchildren?, in L. Pecchi e G, Piga (ed.), Revisiting Keynes, Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, 2008.
[6] Non deve restare in ombra, intatti, l’aspetto politico, deliberato, di tutta la questione. Da David Harvey (L’enigma del capitale, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 27)  sappiamo per esempio che “Alan Budd, il massimo consigliere economico della Thatcher, qualche tempo dopo ammise che ‘le politiche economiche volte a contrastare l’inflazione con la contrazione dell’economia e della spesa pubblica, attuate negli anni Ottanta, erano solo un pretesto per colpire i lavoratori’ e ‘ creare così un ‘esercito industriale di riserva’ per fiaccare il potere del lavoro”. Al tempo stesso, mi sembra importante tener presente che la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario appartiene ‘oggettivamente’ al modo di funzionare del capitalismo – e sia questione parecchio intrigante.
[7] C. Crouch, What Will Follow the Demise of Privatised Keynesianism, “The Political Quarterly”, Vol. 79, No. 4, , 2008.

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