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Dunque il più grosso incidente istituzionale capitato fin qui fra un governo e un inquilino del Quirinale è stato montato sulla base di una mail anonima, assunta come “fonte autorevolissima” in un articolo scritto sotto pseudonimo. Copyright “La Verità” di Maurizio Belpietro, testata che tuttavia l’intero arco mediatico nazionale di destra e di sinistra, fatte salve pochissime e meritorie eccezioni, assolve sostenendo che “ha fatto il suo mestiere”. Ma davvero? Davvero fare il proprio mestiere, nel giornalismo, significa fidarsi di una fonte anonima e riprodurla pari pari senza metterci la faccia, cioè la firma, ma coprendosi con un nome finto? Lo so, ormai si fa così con tutto, e prima di tutto con le intercettazioni con i danni che ben conosciamo. Ma che ormai si faccia così non significa che sia ben fatto.
Che la verità coincida immediatamente con un’informazione, e che un’informazione supposta coincidente con la verità sia immediatamente notiziabile, sono due convinzioni sbagliate e parenti strette di quella nebbia cognitiva in cui viviamo e che va sotto il nome di post-verità. Fra una fonte, fosse pure la più attendibile (e perfino la più certificabile con un audio), e la costruzione di una notizia c’è di mezzo uno spazio, che sarebbe per l’appunto lo spazio del lavoro giornalistico. Il quale non consiste solo nella verifica del contenuto, ma anche nella ricostruzione del contesto, nella ricerca di conferme e di eventuali smentite, nella valutazione dell’impatto.

Quest’ultima è l’unica a non essere mancata nel caso in questione, perché è evidente che l’impatto esplosivo del cosiddetto scoop è stato valutato e proprio per questo voluto. Dalla testata, che ci ha visto l’occasione imperdibile per rilanciare la tesi, questa sì firmata dal direttore, di un intero ventennio dominato dalle oscure trame quirinalizie volte a insediare governi non legittimati dal voto. Dal partito – e con la pressoché certa autorizzazione – della Presidente del Consiglio, che ci ha visto l’occasione imperdibile per aprire l’ennesimo fronte contro l’ultimo potere di garanzia e di controllo da picconare dopo l’informazione indipendente e la magistratura, ovvero il Quirinale.

Ora, che abbattere i poteri di controllo dell’esecutivo e di garanzia della Costituzione sia “il” progetto della destra post-fascista, coerente con la sua concezione plebiscitaria della democrazia e con il suo disprezzo dello Stato di diritto, non vale nemmeno la pena ribadirlo. Però Meloni meglio farebbe ad assumersene la responsabilità e a risparmiarci l’ipocrisia della visita riparatrice del giorno dopo e l’annuncio di prammatica che “il caso è chiuso”. Il caso non è chiuso affatto, perché si sa come funziona la strategia del manganello simbolico delle destre di oggi: spargere veleno e qualcosa resterà. Una volta seminato il dubbio che il Quirinale è di parte e non super partes, i frutti riaffioreranno nell’opinione pubblica qualunque cosa il Quirinale dica o faccia. Tanto varrebbe per il Quirinale esercitare le proprie prerogative più coraggiosamente di quanto non abbia fatto fin qui, ad esempio, evitando di avallare, sia pure obtorto collo, leggi smaccatamente anticostituzionali tipo il Decreto sicurezza.

Veniamo alla supposta trama politica intessuta nell’alto colle e spiattellata incautamente dal consigliere Garofani, che d’ora in poi farebbe bene a realizzare che a certi gradi di responsabilità istituzionale il silenzio è d’oro e alle cene di romanisti è meglio parlare di calcio. Si tratterebbe di una preoccupazione tutt’altro che infondata per le mire presidenzialiste e anticostituzionali di Meloni, condita dalla solita ricetta degli ex democristiani ora pdini: rinsaldare l’area centrista del PD e trovare un candidato premier centrista tipo Ruffini per battere il centrodestra alle prossime elezioni ed evitare la scalata di Meloni alla Presidenza della Repubblica. Originale, no? E soprattutto insospettabile nell’area politica di provenienza di Mattarella e dei suoi stretti collaboratori. Solo che non si capisce perché se ne adonti tanto e soltanto Meloni, visto che la ricetta prevede di battere lei giustiziando Elly Schlein: due piccioni (femmine) con una sola fava, niente male per quel gruppo di anziani gentiluomini che abitano il Quirinale, nonché per quelli come Romano Prodi che ad abitarlo non ci sono riusciti.

La tempistica, infine. Lo scoop de La Verità arriva il giorno dopo una riunione del Consiglio superiore di difesa (a cui Garofani è il consigliere quirinalizio preposto) convocato al Quirinale per ribadire il sostegno all’Ucraina e monitorare le esigenze di difesa italiane sulla base di una relazione del ministro Crosetto. La quale relazione pone l’Italia al centro di una guerra ibrida concentrica, proveniente dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran, dalla Corea del Nord e volta a sabotare infrastrutture, industrie e servizi. Il che ha dato la stura a più d’una penna pronta a sostenere che anche stavolta, come si dice nel gergo ironico dei social, “ha stato Putin” a orchestrare il caso per colpire un Quirinale troppo atlantista e troppo filo-Ucraina. Si attendono prove, che ovviamente non verranno: quando c’è di mezzo l’autocrate russo l’illazione basta e avanza.

Una cosa invece è certa e comprovata: grazie al polverone scatenato dallo scoop, la riunione del Consiglio di difesa è rimasta avvolta dal più discreto e coperto silenzio. Però delle due l’una. O lo scenario dipinto da Crosetto è fuffa di sostegno alla strategia del riarmo, oppure, se davvero siamo sotto il tiro incrociato di mezzo mondo, bisogna che se ne discuta apertamente in Parlamento e nel paese, non solo al chiuso del Quirinale. Magari fosse il garante della Costituzione a ricordarlo, e se del caso a imporlo.

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