La vittoria di Mamdani a New York è diventata in Italia, per lo meno nella maggioranza dei media, e nelle dichiarazioni di qualche politico, l’argomento per una strana e provincialissima discussione: “Si può vincere in Italia imitando, Mamdani? Diventando cioè più determinati e radicali nei contenuti e nelle proposte”. O dall’altra parte, per raffreddare gli entusiasmi, e riaffermare con la solita decisione che in Italia si vince solo al centro, si fa notare come le vittorie più significative dei democratici in USA siano state quelle del New Jersey e in Virginia, e che le due nuove governatrici sono moderate, o meglio centriste come ormai si usa dire in Italia.

Credo che la vittoria di Mamdani meriti qualche riflessione più approfondita sulla capacità davvero significativa del nuovo sindaco di leggere e interpretare la dimensione sociale della sua città. E magari riflettere se nella storia della sinistra sociale e politica del nostro paese, si ritrovano utili riferimenti per tradurre in italiano la straordinaria vicenda di Mamdani.

Per leggere la modernità Mamdani ha interrogato il passato della sinistra americana. All’inizio del suo discorso della vittoria cita Eugene Victor Debs, sindacalista e socialista tra la fine dell’800 e i primi vent’anni del ‘900. Un sindacalista prima del trionfo del fordismo, che ha girato l’America per organizzare i lavoratori, a partire da quelli delle ferrovie, e da socialista si è presentato alle elezioni presidenziali, mettendo il lavoro al primo posto del suo programma. Così come ha fatto Mamdani. Il nuovo sindaco descrive il fronte del lavoro che gli ha permesso di vincere, un mondo del lavoro che è insieme pre e post fordista. “Da sempre i lavoratori di New York si sono sentiti dire dai ricchi e dai potenti che il potere non gli appartiene. Dita consunte dal sollevare scatole nel magazzino, palmi callosi dal manubrio delle biciclette per le consegne, nocche sfregiate dalle ustioni in cucina: queste non sono mani a cui è stato permesso di detenere il potere… Stasera contro ogni previsione l’abbiamo conquistato”.

Non c’è la classe operaia come siamo abituati a definirla negli anni in cui era prevalente la grande fabbrica fordista e il grande Stato che regolava il suo rapporto con la società. Le grandi città non sono più i posti dove si addensano gli ex contadini a in cerca di lavoro nelle fabbriche. La composizione sociale è fatta sempre più da lavoratori dei servizi. Ai piani alti quelli che lavorano nella finanza o ai vertici delle corporation globali –che nonostante la smaterializzazione della produzione e la possibilità di lavorare a distanza hanno bisogno di stare insieme, di scambiarsi continuamente, anche al bar, anche al ristorante, idee ed esperienze, la cui combinazione è la fonte primaria dell’innovazione – e poi il popolo che permette a loro di vivere, cucinando, portandogli il cibo a casa o in ufficio, selezionando i pacchi nei magazzini, accogliendoli nei ristoranti, facendo le pulizie nei loro uffici e nelle loro case. Un popolo che è stato cacciato dal centro della città, che fatica a trovare una casa dove vivere, come del resto i giovani studenti che hanno nella città il luogo necessario alla loro formazione. Agli studi e alla vita. Mamdani si è rivolto in via prioritaria a questi, e ha scelto di non seguire la deriva prevalente di chi amministra le grandi città, che è quella di favorire e attrarre chi vive ai piani alti, quelli che sono considerati in grado di “attrarre “ricchezza. E ha parlato e portato a votare quelli che dalla politica non hanno mai avuto niente e che alla politica non credono più. Cambiando in profondità il rapporto stesso fra la politica e il popolo. Repubblicani e democratici, progressisti e conservatori, parlano al popolo per conquistarne il consenso nelle loro competizioni per il potere. Il potere è il fine, il popolo è il mezzo. Mamdani ha rovesciato questo schema. Il popolo, il suo lavoro, la sua vita, le associazioni civili e sindacali che sono nate per migliorarne le condizioni, sono il fine, il potere politico è un mezzo per favorirne lo sviluppo, per dare forza e potere a chi dal basso si impegna per rendere vita e lavoro più degni e più liberi.

E si è rivolto a Debs, a un socialista che a cavallo dei due secoli scorsi, ha provato a fare sindacato e a dare vita a un partito radicalmente diverso dal bipolarismo imperante. Che ha perso, è vero, tutte le sue battaglie, perché il bipolarismo negli USA non era e non è facilmente scalfibile. Ma è altrettanto vero che quelli che hanno sconfitto Debs, i vincitori di allora, portano sulle loro spalle, nel loro lavoro di un secolo, la responsabilità dell’aggravarsi delle disuguaglianze, della miseria e delle discriminazioni crescenti, nella ricca e potentissima America. E non ha esitato a sfidare il più potente dei democratici, il più autorevole portavoce della città alta, Cuomo, nelle primarie del Partito Democratico, dando al bipolarismo il segno di un’alternativa vera, nei programmi, nelle idee, e prima di tutto nella base sociale di riferimento. E siccome questa volta l’alternativa era vera, il popolo è tornato a votare.

Ci siamo chiesti se nella nostra storia, c’è qualche esperienza che possa riportarci a Debs. Se nella storia del movimento operaio italiano delle origini, ci sono state esperienze che possano servire anche a noi a ragionare in maniera diversa, sul lavoro nelle città, e sul rapporto tra il popolo che lavora e la politica. Ci aiuta in questo uno straordinario piccolo libro di Pino Ferraris “Ieri e domani”, in cui l’autore ha provato a disegnare una possibile nuova strada per il sindacato e per la politica, dopo che la grande fabbrica fordista e gli operai che la abitano non sono e non possono più essere il punto riferimento centrale e pressoché esclusivo per la sinistra politica e sociale. E trova nell’ieri le ragioni per ripensare a che fare nel domani che ci aspetta. Il suo ieri privilegiato è quello delle prime Camere del lavoro, e in particolare quella di Milano fondata alla fine dell’800 da uno straordinario socialista dimenticato, Osvaldo Gnocchi Viani.

La sua Camera del lavoro tiene insieme i diversi mestieri di piccole e piccolissime realtà produttive: i tipografi, i muratori, i panettieri, gli artigiani del legno e del ferro, i disoccupati, a cui fornisce assistenza per cercare lavoro, e anche i giacchetta nera, come allora si chiamavano gli impiegati. Con una fortissima attenzione alle disparità di genere – l’avanzata del socialismo per Gnocchi Viani si misurava sul livello di istruzione e di presenza al lavoro, in condizioni di parità, delle donne – e alla diffusione della conoscenza fra i lavoratori. La pensava fin d’allora come Don Milani e Dario Fo: “L’operaio conosce trecento parole e il padrone mille, per questo lui è il padrone”. Una frase di Barbiana da cui Fo trasse uno spettacolo, che ebbe un’importanza decisiva per la nascita della stessa esperienza delle 150 ore conquistate dalla FLM negli anni ‘70 per dare agli operai la possibilità di studiare.

Ed è attivissimo sul fronte della cultura. Fondò nel 1902 la Società umanitaria con il compito di sostenere i lavoratori anche fuori dai luoghi di lavoro, con una idea di assistenza mutualistica e rivoluzionaria. All’art. 2 del suo Statuto recitava infatti: “Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in grado di rilevarsi da sé medesimi”. E poco dopo fondò a Milano la prima Università popolare. La sua Camera del lavoro deve essere autonoma dai partiti, e meno che mai riconoscere, come era per i socialisti turatiani e sarà poi per i comunisti, una sorta di supremazia del partito sul sindacato. Rifiuterà decisamente l’impostazione di Turati che scriveva: “Il movimento operaio sta alla base, il socialismo scientifico alla cuspide”. Per lui il partito non è il vertice di una piramide, ma è il nodo di una rete, che tiene insieme e si arricchisce delle esperienze di associazione, sindacale e non solo, nei luoghi del lavoro e della vita, in cui si svolgono le battaglie decisive per il potere che conta, per i lavoratori e per i diseredati.

La vita pubblica, affermerà inoltre, non coincide con la vita politica, ma è la zona in cui la politicizzazione dal basso si realizza come affermazione di “indipendenza”, come costruzione di “autonomie”, come elaborazione di “idee proprie”, e non come arena in cui si con confrontano visioni del mondo predefinite, fossero anche quelle del socialismo più rigoroso e di classe. Sembra di sentire una assonanza con un’altra componente essenziale del pensiero di Mamdani, quella dell’attivismo sociale radicale americano del ‘900 di Saul Alinsky, che metteva al primo posto rispetto alla propaganda politica, il rafforzamento del tessuto sociale del territorio, come base per qualsiasi esperienza politica che veda il popolo della città come protagonista.

Anche Gnocchi Viani, pur essendo radicalmente contrario alla partecipazione elettorale come fine fondamentale di un partito che voglia rappresentare i lavoratoti, si presenterà a qualche elezione, anche per il Parlamento, senza mai né pensare né sperare di essere letto, ma si concentrerà soprattutto sul livello municipale, dentro il Consiglio comunale di Milano, perché a quel livello era possibile non tenere aperto il rapporto fra il momento istituzionale e quella crescita dell’autonomia e dell’autogoverno dal basso, con quei poteri distribuiti che sono il fine ultimo della rivoluzione sociale. Gnocchi Viani sfugge insomma al dilemma fra “comunismo” e “anarchia”, che caratterizzerà gran parte del dibattito politico del primo ‘900, in nome di un socialismo libertario e gradualista, perché la rivoluzione sociale, a differenza della conquista del potere statuale, si fa solo per gradi, che ci sembra anche la cifra attraverso cui leggere l’esperienza di Mamdani.

In Italia l’esperienza delle prime Camere del lavoro proverà a riprenderla Bruno Trentin (di cui abbiamo iniziato il centenario con tanti appuntamenti programmati) in una intervista con lo stesso Pino Ferraris, che Trentin inserirà nel suo ultimo libro, quasi un testamento politico, “La libertà viene prima”. La Camera del lavoro come esperienza fondativa dell’autonomia del sindacato e della sua capacità di fare politica dal basso, dalla parte dei diseredati e degli sfruttati, e della necessità di ridefinire una base sociale dopo la crisi del fordismo, capace di tenere insieme, in un solidale universo dei diritti, le figure vecchie e nuove di ieri e di domani, che compongono oggi un mondo del lavoro frammentato. È senza dubbio presente nella riflessione aperta dentro la CGIL su come rilanciare dopo i referendum la dimensione democratica e consiliare del sindacato, come base di qualsiasi ragionamento sull’autonomia e sull’unità sindacale. Rafforzare così una nuova dimensione orizzontale del sindacato, capace di includere le diversità e di schierarsi sui grandi temi che oggi interrogano il mondo del lavoro e la società tutta intera, i rischi più grossi e più veri per la nostra sicurezza e per quella delle generazioni future, la catastrofe ambientale e la guerra.

La sinistra politica, dopo aver recuperato in maniera a dire il vero un po’ disinvolta tutte le tradizioni della sua storia più o meno recente, dovrebbe ragionare su come recuperare anche quell’altra tradizione, mai vincente, ma sicuramente carica di futuro, di quel socialismo libertario e gradualista, che parte da Rosselli e arriva fino a Vittorio Foa e allo stesso Bruno Trentin. Essenziale, come il ricordo di Gnocchi Viani, per confrontarsi con la rivoluzione Mamdani.

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