Qui la prima uscita “Vino nuovo in otri nuovi” Qui la seconda, dal titolo “Allegria di congedi” Qui la terza “Adam Smith non abita più qui” 1. ”Un uomo dovrebbe sempre poter vivere del proprio lavoro”, compresa la possibilità di metter su famiglia. Nella misura in cui è si è realizzata, la generalizzazione del linear career model, con il suo portato dignitoso sul piano salariale, ha costituito l’esperienza che più di ogni altra, in tutta la storia del capitalismo, si è avvicinata a soddisfare il claim di Smith. Eppure, sostiene Supiot, il modello va “abbandonato” – proprio come bench mark, ideale, idea regolativa – e noi ci siamo proposti di controllare se l’affermazione sia giustificata. Per farlo, abbiamo posto la questione in termini quantitativi, sebbene soltanto virtualmente tali, assumendo come punto di riferimento concettuale la grandezza L* (il flusso annuale delle ore di lavoro corrispondente alla generalizzazione del modello, cfr. puntata 2). Così, adesso, la domanda-chiave suona come segue: è lecito immaginare una situazione nella quale il sistema economico impieghi l’intera quantità in questione? Ovvero, con un passaggio che non dovrebbe risultare ostico: visto che oggi non lo fa, è lecito immaginare un tasso di crescita del PIL abbastanza alto affinché tutte le energie corrispondenti alle ore di lavoro previste in L* siano messe a frutto nella produzione di beni e di servizi [1]? Del resto, l’abbinamento dei due argomenti, dell’occupazione e della crescita, appartiene agli standard più consolidati del dibattito corrente. Anzi, per così dire, non si sente altro: la soluzione dei problemi legati all’occupazione passa per la crescita; dobbiamo crescere (‘tornare’ a crescere) perché soltanto in questo modo possiamo creare i posti di lavoro dei quali v’è bisogno. Per la verità, a me sembra che nessuno ci creda seriamente. Coloro che pure sostengono con enfasi il nesso occupazione-crescita mancano appunto di interrogarsi circa la misura in cui bisogna crescere per ottenere un quadro dell’occupazione che possa dirsi decent, mancando anche di specificare il relativo criterio di valutazione. Insomma, se solo ci si pensa un attimo, un livello di vaghezza davvero disdicevole – forse, a pensar male, dovuto alla sensazione che il risultato sarebbe impresentabile. Comunque, senza bisogno di pensar male, il risultato è un vistoso restringimento – in effetti un radicale impoverimento – dell’intero discorso pubblico intorno al mercato del lavoro e all’economia tout court, ben visibile nell’apprensione con cui si attendono variazioni che a mala pena, nella migliore delle ipotesi, scalfiscono il peso della situazione. Nella prima puntata ho citato il respiro delle richieste di trasformazione sociale da sempre custodite dal movimento dei lavoratori: ecco, a me sembra che il tono del dibattito, allo stato degli atti, ne sia del tutto esente. Naturalmente, però, non è il caso di limitarsi a illazioni e considerazioni di carattere polemico. Piuttosto, mi preme sottolineare che il nostro problema è più determinato. Per variarne leggermente la formulazione: è lecito immaginare che la quantità di ore contenuta in ΔL (la differenza tra L* e la quantità di ore attualmente impiegata dal sistema) sia ‘assorbita’ da un saggio di aumento del PIL che sia plausibile, talché, nonostante tutto, magari rivisitato, il particolare criterio di decency racchiuso nel linear career model possa, debba restare un’idea regolativa del ‘che fare’? E se no – che fare? 2. Purtroppo, per quanto riguarda la prima domanda, il discorso assume un senso unitario soltanto all’esito dell’esame di vari argomenti particolari (si fa per dire). Le articolazioni del sistema economico presentano ‘caratteristiche intrinseche’ diversissime, dal cui esame è chiaro che non si può prescindere senza cadere, di nuovo, nel generico. Di questo, però, ci occuperemo a partire dalla prossima puntata. Il seguito di questa è dedicato a un’argomentazione di carattere ancora generale, in certo modo di sfondo, ma non per questo meno pertinente. Ho già detto che l’abbinamento occupazione-crescita che circola nel dibattito corrente mi sembra stabilito troppo a buon mercato, con tanta vaghezza da esser fastidioso. Adesso aggiungo di avvertire che qualcosa non va nella stessa operazione di collegare l’obiettivo di ‘tornare a crescere’ a quello di moltiplicare i posti di lavoro: la bontà delle intenzioni, l’indubbia meritorietà dell’argomento ‘occupazione’, non toglie che l’operazione sia sbagliata. Anzi, senza mezzi termini: che si debba crescere al fine di ottenere un incremento della domanda di lavoro – affinché troppa gente non resti senza lavoro – questo tenacissimo luogo comune del discorso pubblico sull’economia mi sembra proprio un’idea insensata. Infatti, in positivo: (a) logica vuole che l’economia (il Pil) cresca al fine di ottenere determinate quantità di beni e di servizi, in specie di merci e public provisions, che abbiamo motivo di desiderare; (b) il loro ottenimento implica l’impiego di determinate quantità di lavoro, delle quali abbiamo motivo di approvare il costo-opportunità; (c) soltanto all’aggregato di queste ultime abbiamo ragione di guardare come a un obiettivo occupazionale, del quale (proporsi di) soddisfare le condizioni di raggiungimento. Ragionare al contrario, come appunto accade quando la necessità di crescere sia fatta riposare su quella di aumentare il livello dell’occupazione, equivale a violare (a capovolgere, in effetti) il rapporto che lega il lavoro alla soddisfazione dei bisogni – definiti nello spazio dei ‘funzionamenti’, conviene aggiungere con Sen. Con il risultato più o meno inevitabile, tra l’altro, di aprire le porte a varie forme di falsa coscienza della crescita, (per esempio, come vedremo, quella che manipola a proprio vantaggio la gravità dei vincoli ambientali). 3. Né, per cominciare a dire qualcosa dal punto di vista lasciato in sospeso all’inizio della puntata precedente, si può sostenere che il lavoro diventi così oggetto di una visione soltanto strumentale, ignara delle sue valenze in termini di autorealizzazione, autostima, manifestazione di capacità, ecc. – in breve, del fatto che il lavoro è, esso stesso, un ‘funzionamento’, e però un ‘bisogno’. Tale esso è senz’altro, e di assoluto rilievo antropologico (sebbene starei attento a dire che è “il primo”); ma appunto in quanto sia lavoro, vale a dire un impiego di energie riscattato dalla validità del prodotto, accertata nel dominio pubblico [2]. In parole povere, c’è poco da fare: nel lavoro, nel suo medesimo concetto, è comunque presente un ‘nucleo’ di strumentalità, una scansione del tipo risorse-risultati, già implicita nel fatto che si tratta della produzione di valori d’uso, di ‘cose utili’, riconosciute come tali da coloro ai quali sono destinate. Questo non impedisce affatto di ravvisarvi il profilo di un ‘valore intrinseco’ (il darsi di una ’utilità di processo’, come talvolta si dice), che però va colto mettendo a fuoco qualcosa come una non-strumentalità (un ‘dignità’ morale, sociale, antropologica) della stessa strumentalità (materiale) [3]. Il che basta a chiamare in causa la sequenza dei precedenti punti (a) – (c): la ‘misura’ (la ‘ragione’, in più sensi) che l’impiego del lavoro deve trovare nelle merci e nei servizi pubblici che abbiamo motivo di desiderare, con quel che segue in termini di ‘giustificazione’ della crescita. 4. Non che un approccio del genere non abbia i suoi problemi. Soprattutto, l’uso della prima persona plurale (i beni e i servizi che abbiamo motivo di desiderare) non vuole essere un modo per sorvolare sulle gravi questioni che riguardano la possibilità di comporre gli Individual Values in una qualche ragionevole Funzione del Benessere Sociale. In effetti, le stesse grandezze aggregate dei precedenti punti (a) – (c) devono essere concepite come le risultanti di una miriade di scelte individuali. Di queste ultime, però, importa sapere in quali condizioni possono essere compiute (si ricordi l’analogia elaborata da Solow a proposito della nozione di disoccupazione volontaria, citata in nota nella puntata 2). E le condizioni delle scelte individuali – in termini di ‘libertà positive’, conviene aggiungere – possono ben essere, anzi, in un certo sono sempre, necessariamente, oggetto di scelte collettive, più o meno esplicite, più o meno consapevoli: tale appunto, per quanto mi riguarda, la materia elettiva di una ragionevole Funzione del Benessere Sociale (difficoltà comprese). In questa sede, comunque, questioni del genere sono destinate a operare in modo ‘sotterraneo’, nel senso che il ragionamento intorno al che fare ne terrà conto, e cercherà di rispettarne il tenore, senza tuttavia affrontarle in modo esplicito (visto che il risultato sarebbe un lunghissimo détour dal filo principale del ragionamento). In modo esplicito, invece, conviene ancora osservare che l’inversione dei punti (a) – (b) non manca, a ben vedere, di dar luogo un penoso effetto di detrimento del lavoro stesso, cioè proprio un inquinamento della possibilità di ravvisarvi il senso schiettamente umano del manifestarsi di capacità, competenze, ecc., al posto del quale davvero subentra la valenza puramente strumentale di procurare un reddito. Continua [1] Più precisamente, di merci o di public provisions. E’ infatti chiaro che quando si quando si tratta dei livelli di occupazione, si tratta di lavoro remunerato, prestato nell’ambito della divisione professionale del lavoro, la quale è appunto formata (ed esaurita) dagli ambiti del mercato e dell’offerta pubblica. [2] Qualche considerazione a sostegno di questo punto (in parte ricavato da Elster). (a) Come osservato nella nota 1, quando si tratta dei livelli di occupazione, si tratta di lavoro prestato in cambio di denaro. (b) Visto che quest’ultimo è potere di acquisto generalizzato, ogni singolo scambio lavoro-denaro chiama in causa l’intero sistema della divisione professionale del primo: è efficace nei confronti di tutti i suoi prodotti e in esso, pure, trova origine, sia quando l’‘approvazione’ della retribuzione provenga dal sistema impersonale dei prezzi sia quando sia legata a scelte allocative compiute in sede politico-amministrativa – tanto se la fonte è il mercato, tanto se invece è lo Stato. (c) In questo senso il compenso monetario conferisce ai risultati delle attività un’oggettività sociale, oltreché materiale, che può dirsi ‘di dominio pubblico’, valida erga omnes, e proprio a questa circostanza si connette il (peculiare) valore del lavoro professionale come luogo di riconoscimento intersoggettivo, quindi fonte di autostima, autorealizzazione, ecc. (d) D’altra parte, affinché ciò sia vero, occorre che il suddetto raddoppio di oggettività avvenga in modo valido, ovvero che il sistema dei prezzi ovvero le procedure di scelta politico-amministrative funzionino a dovere. [3] Merita senz’altro di essere detto che questo ordine di problemi non era estraneo agli interessi di Kuznets, il padre dei moderni sistemi di contabilità nazionale intitolati al del Prodotto interno lordo. “Ma se si considerano come costi economici (piuttosto che come consumi finali) le spese addizionali per il cibo, la salute e gli svaghi, ne risulta che la vita ha per fine il lavoro; e la distinzione tra consumo finale (o prodotto) e consumo intermedio (o costo), di importanza così fondamentale nello schema ideologico della società moderna oltre che nell’analisi e nella statistica economica, finirebbe per essere completamente cancellata” (K. Kuznets, Economic Gowth of Nations: Total Output and Production Structure, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1971, pp. 75-78, citato in M. Douglas e B. Isherwood, Il mondo delle cose, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 24). La posizione che esprimo nel testo vuole evitare un esito del genere – senza tuttavia disconoscere che il rapporto lavoro-consumo è cosa diversa da un mero rapporto strumentale.
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