La tradizione filosofica, da Platone e Aristotele in poi, ha sempre pensato l’uomo come un animale comunitario. La stessa razionalità che il pensiero greco del logos ha elevato a tratto specifico della natura umana, è da intendersi – lo si è visto non semplicemente come “ragione”, ma anche come “linguaggio”, come propensione a vivere in uno spazio pubblico di relazioni. Eppure, quel rischio che già a Platone doveva apparire come il principale pericolo per la sopravvivenza della polis greca, il rischio di regressione del collettivo nel singolare, del cittadino nella sfera dell’individualità, sembra aver sopraffatto la politica del nostro tempo. La brama di possesso, il desiderio dell’affermazione di sé sugli altri, il prevalere della pleonexia suonano come una conferma attuale dei timori platonici, il segno di una definitiva vittoria delle istanze dell’anima umana più ostili alla sopravvivenza di una comunità politica. Siamo allora destinati a ripiegarci nel privato, indifferenti al governo di oligarchie sempre più sottratte al controllo dei governati, senza più possibilità di proiettare nella politica domande di cambiamento della nostra stessa vita? Uno scenario apocalittico al quale la realtà tende ad assomigliare, ma che – per fortuna – non potrà mai realizzarsi del tutto, a meno di un collasso di qualsiasi forma di comunità. Non può esistere una società che riesca ad abolire del tutto la necessità della politica. Nessun sistema istituzionale – per citare il famoso autore de “La ragione populista”, il filosofo argentino Ernesto Laclau – potrebbe spingersi fino al limite di mantenere isolate tra loro le istanze individuali e assorbirle in maniera differenziale all’interno del sistema stesso – cioè senza che si stabiliscano relazioni orizzontali e si formino identità collettive. Anche i tecnocrati più disincantati che guidano l’Unione europea, gelidi profeti dei conti in ordine, non possono fare a meno di simboli capaci di dare ai governati un motivo di immedesimazione. Ogni comunità è politica nel senso che è irrimediabilmente attraversata da domande insoddisfatte. Queste domande possono rimanere differenti e continuare a esistere isolate le une dalle altre, ma possono anche, da un momento all’altro, legarsi tra loro, scoprirsi equivalenti e trasformarsi in antagonismi capaci di scuotere la stabilità del sistema. Nulla spaventa di più le oligarchie del rischio di politicizzazione della società, che improvvisamente gli individui smettano di credere che le proprie istanze possano essere soddisfatte singolarmente, una ad una, all’interno del sistema vigente. Se, da un lato, si ha la percezione di un regredire della politica sul terreno primario delle pulsioni immediate, degli egoismi, delle inquietudini, dall’altro sarebbe un errore ritenere che nella società contemporanea non ci sia più spazio per processi di soggettivazione politica. Anche negli scenari più estremi di frammentazione individuale e di depoliticizzazione possono innestarsi nuove logiche di identificazione collettiva. Il fatto che la politica tenda a muoversi sul terreno dei sentimenti immediati, delle ansie e delle paure che si diffondono tra i ceti sociali colpiti dalle crisi, ha trasformato ma non eliminato le modalità della protesta. Lo dimostra la nascita di movimenti difficilmente collocabili nelle geografie politiche tradizionali, come il Movimento 5 Stelle. Nel momento in cui le domande inascoltate si accumulano e si connettono reciprocamente, si crea una frattura. La logica dell’identificazione prevale su quella della differenziazione. Gli antagonismi entrano in connessione e lo spazio comunitario si espande. La frattura dà luogo a una nuova polarizzazione della società: da un lato, l’oligarchia, le élite, il potere; dall’altro, una nuova soggettività simbolica che, di volta in volta, si condensa in un significante inedito, ora i cittadini, ora i lavoratori, ora gli esclusi, domani chissà chi. Non c’è oligarchia, per quanto forte del proprio potere, che non sia costretta, per evitare la politicizzazione degli antagonismi sempre latenti, a doversi misurare con la politica stessa. Non è forse l’Europa un terreno di scontro tra simboli, il luogo di una frontiera mobile, al di là e al di qua della quale si formano soggettività fluttuanti, tutte alla ricerca di miti e significanti universali in cui immedesimarsi? Da un lato le destre xenofobe che offrono all’elettore spaesato la prospettiva di un mondo sicuro e protetto, all’interno di frontiere inviolabili, dall’altro le forze politiche che appartengono all’establishment, anch’esse in lizza per offrire surrogati in cui credere, che siano l’euro, l’austerity o il rigore economico poco importa. Quel che conta è che ai ceti piccoli e medi impauriti dalla crisi sia pur sempre data una possibilità di immaginarsi come un “noi”. Ovunque vi siano inquietudini, disagi, aspettative andate a vuoto, gli individui possono dare vita a nuovi soggetti politici. Nessuna comunità può ritenersi al riparo da fratture. La politica, come diceva Aristotele, è il destino dell’uomo. Lo smacco della sinistra: antagonista ma non popolare La politica è populismo, scriveva Laclau nella sua opera principale già ricordata: una definizione che suona provocatoria, perlomeno alle orecchie di chi è solito utilizzare la categoria di populismo soltanto in accezioni negative. Populista è un appellativo comunemente destinato a un politico demagogo, irresponsabile, risoluto nel servirsi di temi e motivi largamente sentiti nella popolazione, allo scopo di guadagnare ampi consensi ma senza preoccuparsi delle conseguenze e della possibilità di tradurre quei temi in una reale azione di governo. Oltre a ciò, populismo evoca in genere movimenti politicamente connotati a destra e con accenti xenofobi. Il primo pensiero corre verso quelle forze politiche che utilizzano nella propria propaganda i sentimenti anti-immigrazione diffusi tra i ceti popolari per crescere nei favori elettorali. Storicamente non è così. Lasciamo da parte la considerazione che siano proprio i partiti dell’establishment a lasciar crescere la subcultura del razzismo senza darsi pena di affrontare seriamente il problema, indagandone cause culturali, dinamiche, legami con le inquietudini sociali e le paure innescate dalla crisi nei piccoli ceti medi e in quelli popolari. Un’Europa che chiude le frontiere e rimane impassibile di fronte alle migliaia di morti nel Mediterraneo non può utilizzare il tema dell’accoglienza solo in chiave strumentale e per stigmatizzare i movimenti di protesta. Del resto, non esiste soltanto un populismo di destra. Nella storia del Novecento e in altri continenti, soprattutto nell’America Latina, sono esistiti populismi di sinistra, come pure non sono esenti da tratti di populismo partiti di establishment che ruotano nell’area di governo. Populismo è in effetti una categoria imprecisa che viene applicata a fenomeni politici eterogenei e anche molto distanti tra loro, come possono esserlo, ad esempio, il peronismo in Argentina e il partito di Viktor Orbán in Ungheria. L’unico tratto accomunante, semmai, è la tendenza di ogni movimento populistico a utilizzare le categorie di popolo e popolare nello spazio pubblico della politica. Ma quel che è degno di attenzione è che al nome di popolo (o simili) non corrisponda un’entità sociologica reale, ma una vera e propria costruzione politico-lessicale con effetti performanti, un nome che provoca la nascita del suo oggetto reale nel momento in cui lo nomina. Se con questa categoria si intendesse realmente la totalità dei membri di una società, non ci sarebbe alcun vantaggio nell’utilizzarla in sede politica. Il popolo dei movimenti populistici suona piuttosto come l’effetto di una frattura nel corpo sociale, in seguito alla quale una sua parte si costituisce come un tutto per esprimere la sua carica antagonistica nei confronti di un’altra parte percepita come avversaria. Se questa ipotesi è valida, il populismo verrebbe a essere l’effetto di una disfunzione nel normale gioco delle istituzioni, l’espressione politica di una società quando nello spazio pubblico si genera una frattura, un antagonismo trasversale, fra il popolo e quel che non appartiene a esso. In tutti i movimenti di protesta nati in Europa negli ultimi anni ed etichettati dal mainstream dei media come populismi – da Podemos al M5S – si può rintracciare lo stesso meccanismo di contrapporre nel discorso politico “alto” e “basso”, élite e popolo, governanti e governati. Sarebbe però un errore teorico se si liquidasse il discorso populista dell’alto e del basso come una manifestazione infantile e non si vedesse invece in esso un potente meccanismo di politicizzazione del corpo sociale. In fondo, nel populismo, in ciò che siamo abituati a definire tale, è all’opera la ragione stessa della politica, la sua funzione ultima, che non consiste soltanto nel governare la società, ma anche nel produrre antagonismi – come aveva già inteso Machiavelli nel suo elogio dei tumulti. Il populista, in un certo senso, fa quel che ci si aspetterebbe da un politico: organizza attorno a un nome le istanze insoddisfatte che albergano nella società e che, tuttavia, non si coagulano in una soggettività politica, almeno finché esse rimangono slegate e vengono assorbite nel sistema in maniera differenziata. Noi siamo il 99 per cento, gridavano nelle piazze spagnole gli Indignados, dalle cui fila si è formata Podemos. Le invenzioni linguistiche dei populismi si rivelano spesso categorie generiche e imprecise, dai contorni sfumati (come può esserlo quella di popolo). Ma è esattamente la loro imprecisione a decretarne la fortuna politica. Un termine sfrangiato ai suoi bordi come quello di cittadini, contrapposto a una non meno generica classe politica, permette di polarizzare lo spazio pubblico attorno a due campi di forza in antagonismo tra loro. Proprio questa sorta di significanti vuoti consente a istanze eterogenee di riconoscersi come simili all’interno di ampie soggettività popolari che vengono a nascere nel momento stesso in cui sono nominate. È tempo di tirare le conclusioni. Il successo di movimenti di protesta come il M5S in Italia deriva dall’aver saputo politicizzare la società e istituire una frattura nello spazio pubblico, al di qua e al di là della quale si sono formati campi di forze antagonistici: noi contro loro, ciò che è vivo contro ciò che è morto, i cittadini contro i vecchi partiti. Alla cosiddetta sinistra radicale non è mai riuscito, neppure nei tempi migliori, di oltrepassare la soglia fisiologica del dieci per cento e diventare un’espressione politica popolare. Troppo poco per un’area che si è sempre definita antagonistica rispetto al sistema dominante. La sinistra non ha fallito perché è stata troppo di governo, ma all’opposto – e paradossalmente – per essere stata troppo poco di protesta. Nulla a che vedere con il cliché della sinistra snob, ormai frequentata solo da privilegiati e ceti medi riflessivi – per quanto una riflessione su alcuni dati elettorati consueti che vedono la sinistra vincente solo nei quartieri alti sia d’obbligo. Né si vuole qui auspicare la fuga verso un verbalismo di propaganda più intransigente ed esasperato che, semmai, produrrebbe l’effetto opposto a quello desiderato. La sinistra ha fallito perché ha perso il contatto con il senso comune. La protesta che voleva rappresentare si è spesso rivelata un antagonismo minoritario, appannaggio di soggettività isolate. Neppure nei momenti più alti del movimento di Genova e di quello no-global l’antagonismo della sinistra radicale si è saldato con un punto di vista capace di farsi senso comune prevalente nella società. Troppo spesso, atteggiamenti ideologici e preclusioni reciproche hanno finito per contrapporre gli uni agli altri i settori di una società allora in fermento, anziché connettere istanze eterogenee all’interno di un medesimo campo antagonistico. Alla lunga gli errori si pagano. Una sinistra che non esprima un antagonismo popolare è condannata al minoritarismo. Giulio Di Donato
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.