Il comunismo secondo Aldo Tortorella. Primo la libertà

di Alberto Leiss

Ho conosciuto Aldo Tortorella, prima di incontrarlo e diventarne amico, leggendo ciò che scriveva sull’Unità, e anche qualche suo saggio su Critica Marxista, la rivista teorica “ufficiale” del Pci. Lo ricordo perché, dopo alcuni anni – ne avevo 18 nel ’68 – tra movimento studentesco e una breve “militanza” in un gruppetto marxista-leninista, nel ’73 decisi di iscrivermi alla sezione universitaria del Pci a Genova. A spingermi al passo furono proprio quelle letture, compresa una seria indagine sulla sinistra extraparlamentare, ancora su Critica Marxista, scritta da Giorgio Bini. Era un maestro elementare genovese coltissimo e piuttosto di sinistra. Grande passione per una pedagogia democratica, mente aperta e inclinazione all’ironia.

Se nel Pci – che mi sembrava troppo chiuso e conservatore – ci sono uomini come questi, mi ero detto, forse ci può stare anche uno come me.

Avevo cominciato a collaborare con la redazione genovese dell’Unità, e ne facevo ormai parte quando, qualche tempo dopo, vidi da vicino il direttore Tortorella. Aldo era circondato da una specie di ammirazione reverenziale. Un’altra persona che non dimenticherò era il capocronista, Flavio Michelini. Ex operaio dell’Ansaldo di Sestri Ponente (e non era l’unico redattore a venire dalle fabbriche), era il ragazzo che portava nel cortile dell’Ansaldo una seggiola sulla quale saliva il diciottenne Tortorella, capo del Fronte della gioventù in Liguria, per urlare il suo breve comizio rivolto agli operai in pausa. Una forma di propaganda che si era inventato con gli altri giovani compagni, attuata senza informare adeguatamente le strutture armate della resistenza cittadina che avrebbero dovuto coprire da lontano simili iniziative. Aldo aveva rischiato di essere “eliminato” quale provocatore infiltrato per queste sue “imprudenze”, non essendo ancora conosciuto dai vertici partigiani genovesi.

Era appena tornato, inviato dal capo nazionale del Fronte Eugenio Curiel, nella città dove aveva abitato con la famiglia e studiato, prima di trasferirsi con i suoi a Milano. Qui aveva dato contemporaneamente la maturità scientifica e quella classica per andare a seguire i corsi di filosofia di Antonio Banfi: entrerà nella resistenza, verrà arrestato, e scapperà da un ospedale militare travestito da donna, ricevendo un grande e indimenticato bacio dall’infermiera che lo aveva guidato all’uscita.

Un primo ruolo importante di Tortorella nel comunismo italiano è stato il suo impegno nella costruzione di quell’esperienza, unica nel giornalismo politico, non solo in Italia, che fu l’Unità. Il giorno dell’insurrezione liberatrice a Genova, il 24 aprile del ’45, Tortorella pensava di partecipare alla battaglia, e in effetti riuscì a sparare qualche pistolettata intorno alla sede della Questura, vicino alla quale si erano asserragliati gruppi di fascisti, ma fu invece comandato a dirigere la redazione dell’Unità, lì vicino, nella sede del quotidiano locale Il Corriere Mercantile. Cominciò in quel momento un lungo rapporto con l’”Organo del Pci”. Come caporedattore tra Genova e Milano, tenendo conto che fino al 1957 il capoluogo ligure era sede di una delle quattro edizioni nazionali del giornale (con Torino, Milano e Roma). L’edizione di Genova fu diretta a un certo punto dall’ex sindaco della Liberazione Gelasio Adamoli, ma il giornale era fatto da Aldo.

Nel passaggio tra anni ’50 e ’60 partecipò, da Milano, a una direzione nazionale bicefala, con Alfredo Reichlin a Roma. E nei suoi racconti torna il braccio di ferro quasi quotidiano perché sulle pagine dell’Unità avessero più spazio le lotte operaie che riprendevano vigore al Nord. Un’esperienza che terminò con la direzione nazionale unica di Mario Alicata. Aldo, che non apprezzava molto né la cultura politica né il carattere di Alicata, preferì passare a ruoli nel partito, come segretario della Federazione di Milano e quindi del Regionale.
Tornò però come unico direttore nazionale dal 1970 al ’75, gli anni di massima diffusione del giornale, collocato al secondo o terzo posto dopo il Corriere della sera e La Stampa.

Tortorella fu protagonista di una forzatura politica: dopo l’approvazione della legge sul divorzio e l’indizione del referendum che voleva abrogarla da parte dei cattolici più conservatori, i dirigenti di Botteghe Oscure, Paolo Bufalini in testa, temendo che il referendum sarebbe stato perso, erano impegnati in una trattativa con la Dc e direttamente con il Vaticano per trovare una mediazione. «Non avevano il polso della situazione», disse a me e Letizia Paolozzi che lo intervistammo per il libro sulla vicenda del giornale dopo la Liberazione (1). Ma la cosa non finiva mai, e le soluzioni che si prospettavano erano inaccettabili. «Al giornale avevamo già preparato le prime pagine»: bisognava partire in tempo con la campagna per il No. «Avvertii Berlinguer, che non disse nulla, come spesso faceva lui, dicendo che mi assumevo la responsabilità della decisione. E così uscimmo».

Una scelta che non guadagnò a Aldo la simpatia di chi, sbagliando, la pensava diversamente, ma che certo fu determinante – ciò che scriveva L’Unità era considerato “la linea” dal corpo del partito – per il peso del popolo del Pci nella vittoria referendaria.

Un secondo contributo molto importante alla identità originale del Pci fu, dopo l’Unità, la lunga direzione di Tortorella della commissione culturale del partito. Era stato preceduto, con orientamenti assai diversi ma comunque fuori dai dogmatismi di stampo sovietico, da Rossana Rossanda, compagna di studi con Banfi e grande amica, e da Giorgio Napolitano. Il ruolo di Aldo fu molto aperto verso le correnti più innovatrici della cultura italiana (dal “Gruppo ‘63” ai musicisti dell’avanguardia come Berio e Nono, al cinema dei maggiori autori, al pensiero filosofico più critico) e orientato non alla perorazione di orientamenti ideologici, quanto alla definizione delle politiche per lo sviluppo della formazione scolastica e universitaria e del sostegno alle diverse manifestazioni culturali e artistiche.

Significativo il racconto – si può ascoltare dalla sua voce nel filmato realizzato ai suoi 90 anni da Francesca Bracci e Uliano Paolozzi Balestrini, “Un personale e libero giudizio” (2) – della non semplice scelta che gli toccò proprio ai primi giorni del suo nuovo incarico. Era stato assassinato Pier Paolo Pasolini, intellettuale che non godeva di generale apprezzamento ai vertici del partito. Dopo aver avvertito Berlinguer, Aldo decise di organizzare funerali per iniziativa del Pci, riconoscendo la figura alta dell’uomo che aveva patito ostilità e incomprensioni anche per la sua omosessualità. Nei frangenti più drammatici non gli veniva mai meno il senso dell’ironia: era stata logisticamente avventata la scelta di portare il feretro del poeta nella sede della Casa della cultura romana. Far girare la bara nelle strette scale che portavano alla sala per la Camera ardente si era rivelata un’impresa quasi disperata.

Un altro passaggio importante di quella stagione era stato, nel ’77, il convegno all’Eliseo sul lavoro intellettuale. Aldo ha raccontato che la parola e il concetto “austerità”, contenuti nella sua relazione, furono scelti da Berlinguer nel discorso conclusivo come tema di approfondimento e rilancio, suscitando la nota polemica contro un supposto limite “pauperistico” della posizione del segretario comunista. È però vero che il contenuto che più stava a cuore a Tortorella – l’esigenza di una diversa e più attiva politica verso gli ampi strati di nuovo lavoro intellettuale nelle società moderne, tema ancora all’ordine del giorno nell’era dell’Intelligenza artificiale – fu del tutto rimosso dall’attenzione pubblica, e anche da quella del partito.

E qui si viene al terzo importante contributo di Tortorella al Pci e alla cultura originale del gruppo dirigente post-togliattiano. Il rapporto molto stretto con Enrico Berlinguer negli anni dell’abbandono della politica di solidarietà nazionale e della ricerca di una “alternativa”. Era prima di tutto un singolare rapporto di stima e di affetto verso l’uomo Berlinguer. Pur essendo il segretario comunista più anziano di lui Aldo ha qualche volta confessato di aver nutrito una sorta di tutela “paterna” nei suoi confronti. Ne ammirava la dirittura morale e le capacità di ascolto. Ma gli sembrava anche indifeso verso la durezza della lotta politica e del giudizio di chi non condivideva il suo tentativo di cambiare strada, di elaborare un “nuovo programma fondamentale” del partito.

Sicuramente nella piuttosto improvvisa sensibilità berlingueriana per il femminismo della differenza, l’ambientalismo, il pacifismo, l’innovazione scientifica e tecnologica, la “questione morale” intesa non come semplice, sia pur doverosa – parole di Aldo – “caccia al ladro”, ma come degenerazione dei rapporti tra partiti e Stato democratico, c’è stata una influenza nelle stanze della segreteria da parte di Tortorella. Una “linea”, come si sa, molto incompresa e anche duramente avversata nel partito. Dopo la improvvisa morte di Berlinguer Aldo ha partecipato da protagonista, non sempre in modo evidente all’esterno, alla gestione di mediazioni difficili durante la segreteria Natta e ai tentativi di recuperare l’ispirazione “di sinistra” dell’ultimo Berlinguer. Contando anche sul ruolo che avrebbe potuto svolgere la nuova segreteria di Achille Occhetto. La pressione per il cambio venne da porzioni non esigue dei gruppi dirigenti diffusi, e Tortorella si assunse il compito di parlarne a Natta perché ne prendesse atto, favorendo l’elezione dell’uomo che avrebbe poi compiuto la “svolta della Bolognina”.

Sembrava che questa “linea” avesse vinto al congresso del “nuovo Pci” (marzo 1989), aperto dalla filosofa della differenza femminista Luce Irigaray, con una relazione del segretario improntata all’ambientalismo, e chiuso con un drastico ridimensionamento della presenza della destra riformista negli organismi dirigenti. Ma nell’autunno il crollo del Muro di Berlino – evento epocale maturo ma del tutto imprevisto – aprì uno scenario completamente diverso. Il gesto di Occhetto alla Bolognina, non concordato con la sua maggioranza, finì per provocare un ribaltamento delle alleanze: l’idea di cambiare il nome fu appoggiata dai riformisti, e poi anche dalla mozione di Bassolino, e avversata da un campo molto diversificato. La sinistra di Ingrao e Tortorella non era certo assimilabile a quella di Cossutta. Al primo congresso di Bologna, fu presentata da un gruppo di femministe del Pci una mozione, collegata alla mozione di Ingrao e Tortorella, ma distinta, con un documento intitolato “Primo la libertà”. E i cossuttiani presentarono la loro ben diversa declinazione del “No”. Eppure le due componenti si unirono al secondo congresso della “svolta”, a Rimini.

Tortorella si gettò a viso aperto in quella battaglia politica, insistendo sul fatto che era necessario “un vero e profondo rinnovamento”, altrimenti cambiare il nome sarebbe stato un atto meramente divisivo e una abiura, una rimozione della propria storia e di un serio esame dei suoi limiti, oltre che dei pregi.

Va citata ancora una volta quella sua battuta davvero notevole: “sono rimasto vittima delle mie medesime macchinazioni”. Si riferiva ovviamente all’appoggio che aveva dato all’ascesa di Occhetto. Ma, mi chiedo oggi, forse il senso dell’autoironia potrebbe essere esteso agli effetti di altre sue tendenze alla mediazione, proprie di un dirigente che ha sempre avuto preoccupazioni unitarie, e che si considerava un “centrista fin da bambino”.

La mia amicizia con Aldo è iniziata quando mi capitò di scrivere per il giornale della vicenda della “svolta”, seguendo prima i compagni del “No”, e poi nelle fasi finali il segretario Occhetto. Ricordo il tipico approccio di un dirigente comunista come Tortorella durante una delle nostre prime chiacchierate a fini di intervista: “Tu sai natuvalmente chi fu il pvimo a pavlave di comunismo…”. Gelo nel mio cervello e ai polpastrelli delle dita, e poi per fortuna affiora un ricordo del liceo.. “Bè… Aristotele…”. “Bvavo!!”

È stata una grande fortuna. Il peggio per Aldo sarebbe contribuire a farne un santino. Era un uomo squisito, coltissimo, spiritosissimo. Pressoché l’unico in quel partito – a parte, penso, Ingrao – ad aver capito la rivoluzione del femminismo, anche grazie alle relazioni, nel corso della vita, con donne come Anna Maria Rodari, Lia Cigarini, Letizia Paolozzi, Chiara Valentini. (Altra questione è se e in che misura, a cominciare da lui – e da me che lo seguivo -, questa comprensione sia riuscita a produrre mutamenti significativi nelle nostre pratiche politiche, ancora tutte segnate da relazioni maschili).

Un uomo con le sue rigidità. E la capacità di infuriarsi se si sbagliava un po’ troppo nell’esecuzione di qualche comune “lavoro politico”. Credo sia stato uno dei direttori più amati da redattori e redattrici dell’Unità. Ma circolavano gli aneddoti di quando infuriato appallottolava l’articolo del malcapitato e lo gettava fuori dalla finestra.

È difficile, ma voglio aggiungere qualcosa della sua vita più recente, attraversata dal dolore di vedere la moglie Chiara afflitta da una sempre più grave malattia senile. La vicinanza quotidiana, la cura personale e l’organizzazione di ogni necessità perché la vita continuasse nel migliore dei modi a casa, con gli amati gatti, erano veramente commoventi. E continuava l’mpegno delle sue energie affettuose per sua figlia Susanna, per la figlia di Chiara, Teresa, per Uliano, un altro “figlio adottivo”, e per la figlia di Uliano e Francesca, Eva Rossa, nipotina acquisita.

Dopo la fine del Pci, con Giuseppe Chiarante, Tortorella ha tenuto in piedi avviandone un “nuova serie” la rivista Critica Marxista, e dopo essere uscito silenziosamente, sempre con Chiarante, dal Pds ai tempi della guerra della Nato per il Kosovo, durante il governo D’Alema, ha dato vita all’Associazione per il rinnovamento della sinistra. Non so, sinceramente, se possa avere senso ora la continuazione di queste esperienze, tanto fondate sulla sua autorità. Certo mi sembra doveroso contribuire a una maggiore e più approfondita conoscenza della sua idea del comunismo come “punto di vista” critico su questo assurdo e ingiusto mondo, dominato ora da un capitalismo sfrenato, da tendenze autoritarie sempre più inquietanti, e con il moltiplicarsi di guerre orrende.

Un “punto di vista” che assume come criterio di orientamento verso nuovi fondamenti della cultura politica a sinistra prima di tutto l’oggetto della sua tesi laurea con Banfi su Spinoza, in quel terribile 1956: la ricerca della libertà, di ognuno e di tutti.

Note

1) Letizia Paolozzi, Alberto Leiss, Voci dal Quotidiano. L’Unità da Ingrao a Veltroni. Baldini & Castoldi, 1994.

2) Un personale e libero giudizio. Filmato realizzato parlando con Aldo Tortorella in occasione del suo novantesimo compleanno (https://www.youtube.com/watch?v=E06dav9m4XQ)

Inquietudine e certezza di Aldo Tortorella

di Alberto Olivetti, pubblicato su “il manifesto” del 14.02.2024

Nel 1959, l’editore Sansoni con il titolo La ricerca della realtà stampa postumi i due volumi di una vasta silloge dei propri scritti che Antonio Banfi (1886-1957) aveva approntato per la pubblicazione. L’antologia si apre, a mo’ di introduzione, con uno scritto del 1955, La mia esperienza filosofica, che era stato oggetto di una discussione sull’opera complessiva di Banfi svoltasi presso la Società Filosofica Italiana il 15 aprile di quell’anno. Segue, primo di trentatré saggi, Gli intellettuali e la crisi sociale contemporanea, uno studio del 1922 che ragiona il concetto di crisi. Chi tenga conto degli sviluppi della ricerca filosofica di Banfi nei sette lustri successivi, facilmente ne riconosce il carattere ‘programmatico’ stante la centralità che nel suo pensiero il tema crisi assume.

E crisi costituisce, infatti, il fulcro problematico al quale si appoggia Aldo Tortorella, di Banfi allievo, nel dare conto dell’antologia nella intensa recensione che appare nel novembre del 1959 su «Rinascita»: Antonio Banfi e la “Ricerca della realtà”. «Il punto di partenza è la crisi» scrive Tortorella, «la crisi della cultura e dei valori che si manifesta agli inizi del secolo». E la crisi va affrontata nella sua radicalità ovvero ancorata e indagata storicamente, nella concreta relazione economico-sociale. Tortorella, considerando le discussioni dedicate alla crisi nei primi vent’anni del Novecento rileva come le varie filosofie allora di moda avessero «provato il loro atteggiamento teoreticamente inconcludente ed eticamente imbelle metafisicizzando la crisi stessa, sostanziale rinuncia a un impegno eticamente costruttivo». In Banfi tutta l’analisi della crisi è condotta sul terreno strettamente teoretico-concettuale, dice Tortorella, tanto da individuare nella storicità e attualità della crisi la storicità e attualità del suo superamento. Avviene su questi presupposti l’incontro di Banfi con Marx: «il marxismo diventa per Banfi l’umanesimo radicale e costruttivo dell’epoca nostra». Del resto Banfi ribadisce costantemente questo suo convincimento nel corso della sua ricerca. Si legge (un esempio tra i numerosissimi) ne L’uomo copernicano (pubblicato presso Mondadori nel 1950): «È il principio di un nuovo umanismo non più mitico né utopistico, ma realistico e storico, perché in esso è veramente trovato quel punto fermo su cui si può sollevare il mondo degli uomini, ed è trovato all’interno stesso della loro realtà».

E ancora. Il materialismo storico puntualizza Banfi, «in quanto teoria non solo della storia narrata, ma della storia agita, il suo sforzo per comporre una nuova unità in funzione dell’autonomia e dell’universalità dell’umano è lotta contro ogni evasione e contro ogni dogmatismo, è lotta per la liberazione della cultura da ogni forma di oscurantismo in un processo di costruzione aperta e infinita». Sì che «marxismo non è una filosofia o una storia, ma l’attualità della filosofia e della storia operante nella libertà della ragione». Tanto che, nel convincimento di Banfi, in questa nuova energia costruttiva (che rappresenta al grado più alto la potenza dell’uomo ‘copernicano’) sta la forza risolutrice della crisi stessa come sua positiva validità storica. E Tortorella sottolinea come «qui, posizione teoretica e posizione ideologico-politica si sanno l’una in funzione dell’altra, secondo una cosciente circolarità che non può essere spezzata senza mutilare e deformare il pensiero». E senza eludere le conseguenze etico politiche che tale concezione della crisi comporta. In certi appunti inediti del 1934, 1935 che vedranno la luce nel 1967 (La crisi, Milano, All’insegna del pesce d’oro) Banfi scrive: assumere la crisi «nella sua concretezza e quindi nella sua radicale positività come principio di volontà e di attività, per cogliere la problematica profonda dell’umanità, così che essa divenga la sua vita e la sua libertà in atto: destare questa coscienza per ora e per sempre: infinita inquietudine e infinita certezza». Inquietudine e certezza due parole che, pare a me, bene si attagliano alla figura e all’opera di Aldo Tortorella.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *