Interventi

Qui la prima parte “Vino nuovo in otri nuovi”, pubblicata il 16 marzo scorso
1. Dunque, i referendum sui voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti non si faranno: alla fine, il governo ha deciso di non difendere nulla delle norme oggetto dei quesiti. Come sempre accade quando si vince una partita per abbandono del campo da parte dell’avversario, la conclusione lascia un po’ sorpresi, con un sottile senso di vuoto. Naturalmente, nella fattispecie, l’abbandono non è stato frutto di un incidente, bensì della paura di perdere il confronto, sicché la vittoria è priva di ombre, merito pieno della CGIL, anzi tanto più vistosa. E poi, certo, quello che conta è aver portato a casa il risultato. Tuttavia, visto che l’improvvisa marcia indietro del governo non ha avuto altro senso che quello di chiudere in fretta la vicenda, proteggere l’intero Jobs Act da una temuta sconfessione del suo ‘spirito’, e possibilmente parlar d’altro, i promotori dei referendum sono adesso chiamati al compito, non facilissimo, di tenere vivo il discorso pubblico intorno al mercato del lavoro. Virtualmente, i referendum sono stati vinti – come si va avanti?
In casa CGIL, infatti, registrato il successo, il segno prevalente delle reazioni è stata proprio la sottolineatura di quanto altro resta da cambiare, insieme alla rivendicata necessità che le questioni legate alla partecipazione al lavoro rimangano al centro del confronto politico in corso nel Paese. In parte, l’occasione sarà fornita dalla necessità di colmare il vuoto che si è aperto con l’abrogazione delle norme in materia di lavoro accessorio; ma l’argomento è lontanissimo dall’esaurire il quadro di quelli rilevanti. Ha ragione Ichino a ricordare che, nel 2016, le ore prestate per mezzo dei voucher sono state 134 milioni su un totale di poco meno di 43 miliardi. Il fatto è che la necessità di condizioni più civili le riguarda tutte.
In queste note cerco appunto di dire qualcosa circa lo sfondo che conviene avere presente nel ragionare su come andare avanti. E chi ha letto la prima sa già che non penso che basti essere contro il Jobs Act per aver ragione.
2. Tutto il discorso che mi accingo a fare è incardinato sulle seguenti queste affermazioni, contenute nel cosiddetto Rapporto Supiot, del 1999.
What is at stake is nothing less than abandoning the linear career model. Career breaks and shifts in occupation should come to be considered a normal part of ongoing employment status. […] Individual security, involving a wide range of social rights, must be reconstrued not as security against exceptional risk, but in the light of an ubiquitous risk associated with the inevitable rise in uncertainty.
Alla citazione, per la verità, si associa a un forte motivo di disagio, perfino di imbarazzo. Vorrei infatti che potesse avere un senso più scontato: quello di un richiamo appena necessario, di un invito a far mente locale su qualcosa di importante ma anche di assodato. Invece, appunto, un ‘cardine’. La ragione sta nella circostanza che l’argomento, nonostante la quantità di tempo dalla quale è in circolazione, non sembra ancora metabolizzato – ‘digerito’, come si dice in modo colloquiale. In altri termini, il motivo di imbarazzo si annida nello sfasamento già accennato nella puntata precedente: un cambiamento di visione maturo almeno da trent’anni e tuttavia lontano essere avvenuto, la cui ulteriore rivendicazione dà luogo alla spiacevole sensazione di continuare a ripetere (e sentire, dal lato del lettore) cose dette e ridette un gran numero di volte.
Peggio ancora, a sostenere il tramonto del linear career model si ha la sensazione di perdere tempo a tirare fuori un vecchio faldone, già archiviato, soltanto per concludere che sì, effettivamente va rimesso via. Insomma una battaglia di retroguardia, sostanzialmente inutile, che sa di passato come il suo argomento. Il problema è che questo è vero soltanto nell’ambito del dibattito teorico: se lo fosse anche in quello dell’agire politico e sociale, l’opposizione al Job Act non sarebbe stata impostata nel modo ‘conservativo’ che tanto nettamente, invece, l’ha contraddistinta.
Comunque, quello che ho in mente potrà forse interessare anche chi non dubiti della tesi di Supiot e colleghi, che in ogni caso merita di essere accertata nei suoi esatti termini. Soprattutto, va detto che non si tratta tanto del rilievo di una situazione diversa dal passato, quanto del riconoscimento di una ‘metamorfosi’, con tutto ciò che il termine suggerisce di compiuto e non-reversibile (come in genere accade quando si tratta dello svolgimento storico). In breve, oltreché un diverso stato delle cose, un mutato orizzonte del pensabile. In questo senso, la parola chiave del testo citato è quell’inevitable che appunto qualifica the rise in uncertainty e al quale, in effetti, si attacca tutto il resto: l’ubiquità del rischio e la normalità dei fenomeni di discontinuità, che pure deve formare oggetto di riconoscimento (should come to be considered). Già così, forse, l’argomento diventa un po’ meno scontato. Soprattutto, l’evidenza e l’ampiezza dei fenomeni, fin troppo certe, cessano di essere il punto decisivo, per diventare piuttosto indicatori di ‘cause profonde’, potenti e durevoli, che conviene mettere a fuoco al fine di giustificare la radicalità del congedo (abandoning) richiesto da Supiot.
D’altra parte, come invita a spiegarne le ragioni, la radicalità del congedo sollecita molte domande circa le conseguenze che bisogna trarne, del resto intimamente legate al modo di rappresentarsi le cause del tramonto. Infatti – a wide range of social rights, che tuttavia, naturalmente, è soltanto un titolo, enunciato il quale si tratta di sapere quali contenuti (quali ‘istituti’) daranno corpo al tema. E qui va da sé che non c’è proprio niente di scontato (tra l’altro, come vedremo, neppure si può dire che il quadro delle conseguenze comprenda soltanto social rights).
In sintesi: per quanto mi riguarda, la necessità di un congedo definitivo è fuori discussione, ma questo non consente affatto di operarlo a cuor leggero. Soprattutto, ripeto, perché il modo di rappresentarsene le ragioni non è affatto ininfluente su quello di concepirne gli esiti.
Così, a far centro sulla citazione, il discorso è destinato a prendere due strade, una verso le premesse e l’altra verso il ‘che fare’, come mostra lo schemetto qui sotto. L’idea di un ‘cardine’ allude appunto a questo impianto.

 
 
 
3. Why inevitable? In termini molto generali, la risposta verte sull’idea che l’incertezza vigente sul mercato del lavoro è legata a mutamenti intervenuti (in corso) nel combinato disposto delle condizioni di domanda (le funzioni di utilità dei consumatori) e di offerta (le funzioni di produzione) vigenti sui mercati dei beni e dei servizi. Sono innanzi questi ultimi a essere segnati da cause di incertezza profonde, ormai endemiche, restituite e come amplificate dall’asprezza che tanto marcatamente contraddistingue l’attuale regime della concorrenza – la fonte immediata delle condizioni di precarietà vissute dai lavoratori.
Ma il discorso, naturalmente, deve procedere per gradi, a partire dalla presentazione di un quadro ragionato dei fenomeni: più precisamente, come mi propongo di fare, dalla disposizione dei fatti salienti (richiamati soltanto per titoli) all’interno di una griglia interpretativa costruita ad hoc.
Per fissare le idee, indichiamo con L* la quantità di lavoro – più precisamente, il flusso delle ore di lavoro, per esempio in un anno – corrispondente alla generalizzazione del linear career model. Sempre per fissare le idee, una situazione del genere può essere definita di ‘piena occupazione piena’. Messo prima del sostantivo, l’attri-buto assume il consueto valore estensivo, riferendosi appunto all’universalità della partecipazione al lavoro: in parole povere, lavorano tutti coloro che hanno la capacità e la volontà di farlo. Messo dopo, assume piuttosto un senso intensivo, alludendo alla misura e al modo in cui il lavoro, secondo il proprium del modello, ‘riempie’ le biografie individuali: un’attività che inizia presto e finisce tardi nell’arco della vita, senza interruzioni; come inizia presto e finisce tardi nel corso di ogni giorno. Appunto l’immagine del lavoro a tempo pieno, nonché indeterminato e fattualmente continuo, che si è impressa nelle nostre menti in trent’anni di Golden Age, tipicamente su base industriale. D’alta parte, della prima accezione, è importante dire che non ha soltanto valore descritto, incorporando piuttosto una fondamentale questione normativa: senza bisogno di tante spiegazioni, dovrebbe essere chiaro che il linear career model può operare come ideale, benchmark, punto di riferimento soltanto alla condizione che possa essere generalizzato a tutta la popolazione attiva.
Con L** indichiamo invece il flusso delle ore di lavoro effettivamente messe a frutto dal sistema economico, sulla base dei pertinenti rapporti di domanda e offerta (appunto i 43 miliardi di cui sopra). Sebbene difficile da controllare in modo empirico, l’ipotesi che da diverso tempo, anche prima della crisi, si tratti di una quantità parecchio più piccola di L* non sembra particolarmente eroica, sicché possiamo scrivere L*L** = ΔL, assumendo appunto che la differenza sia > 0.
Ora, di ΔL, è bene aver presente il carattere aggregato, che tuttavia corrisponde al saldo di situazioni molto diversificate.
A. Per una parte della popolazione attiva, il numero delle ore lavorate è grosso modo quello previsto dal modello della carriera lineare, pur sempre osservabile sebbene in fase di assottigliamento (salvo aggiungere che la percezione di un destino di assottigliamento non manca di introdurre un profilo di precarietà anche in situazioni del genere, che spesso sono dette ‘garantite’).
B. Per un’altra, è molto più elevato: appartiene ai tratti salienti dell’attuale panorama occupazionale l’esistenza di aree formate da individui i cui livelli di engagement fanno impallidire l’immagine del lavoro a tempo pieno che si è fissata nelle nostre menti negli anni della Golden Age. In parte, si tratta di quella che Robert Reich definisce la “corsia veloce” del mercato del lavoro, frequentata da persone più o meno “di successo”, che si sentono costrette a correre (a lavorare moltissimo) per non restare indietro. In parte, all’opposto, si tratta di orari ‘ottocenteschi’ sopportati da lavoratori a bassa qualifica, in settori che pure vengono in evidenza nell’attuale evoluzione organizzativa del capitalismo (per esempio la logistica e il delivery).
C. Per effetto dei due punti che precedono, l’intero ammontare di ΔL (anzi una grandezza un po’ maggiore, visto il secondo) insiste soltanto su una terza parte della popolazione attiva (o che comunque potrebbe esser tale, cfr. punto C.3), presso la quale, ancora, assume valenze e forme assai diversificate.
C.1. Innanzi tutto, sebbene in certa misura abbia senso chiamare in causa la nozione di disoccupazione ‘volontaria’, e per quando la circostanza, fatta salva la necessità di usare l’aggettivo in modo ragionevole[1], non manchi d’interesse, il grosso di ΔL è disoccupazione ‘vera’, involontaria, motivo di dolore – o dipende comunque dalla mancanza di condizioni agibili. I casi tipici comprendono ingressi ritardati nel mercato del lavoro appena mascherati da prolungamenti dei periodi formativi, stati di inattività frutto di scoraggiamento (NEET compresi), aspirazioni al ‘primo impiego’ che a lungo restano frustrate, interruzioni ricorrenti tutt’altro che desiderate (la ‘precarietà’ in senso stretto), espulsioni dai luoghi di lavoro di una vita (l’assottigliamento dei casi A), di norma associate ad acute difficoltà di ricollocamento.
C.2. Idem, a proposito di volontarietà, nel caso delle multiformi forme di sottoccupazione, perlopiù a sua volta discontinua, in gran parte patita come il modesto meglio che si può ottenere (di nuovo la precarietà in senso stretto).
C.3. Su un registro un po’ diverso, a prendere in considerazione la popolazione in grado di lavorare, come certamente ha senso fare, buona parte di ΔL ha a che fare con la cosiddetta ‘terza età’, sia nella forma manifesta dei programmi di prepensionamento, sia in quella più coperta della lentezza con la quale l’età pensionabile è stata adeguata all’aumento delle speranze di vita e alla ‘rettangolarizzazione’ della curva delle capacità.
C.4. Significativa, infine, è anche la grandezza che si ottiene depurando L** delle ore di lavoro prestate più o meno ‘in nero’, in modo da concentrare l’attenzione sulla capacità del sistema economico di impiegare L* in modo regolare. Naturalmente, il risultato consiste in un aumento di ΔL e nella comparsa di una nuova fattispecie: appunto l’‘occupazione occulta’, che sfugge alle rilevazioni ufficiali, difficile anche da stimare, e che in alcuni settori è abbastanza consistente da suggerire l’esistenza di ragioni ‘sistemiche’.
Continua qui
[1] Per il momento, affido il punto alla seguente analogia, dovuta a Robert Solow: “Si sostiene spesso che i singoli lavoratori disoccupati potrebbero accettare impieghi con qualifiche inferiori e paghe più basse rispetto a quelli che avevano, poiché tali lavori sono normalmente disponibili. Visto che non lo fanno, la loro ‘disoccupazione’ andrebbe considerata ‘volontaria’. Una volta feci notare che, sotto questo profilo, tutti i soldati americani uccisi in Vietnam andrebbero conteggiati come suicidi, dato che avrebbero potuto disertare, emigrare in Canada o spararsi a un piede, ma non l’hanno fatto”. L’argomento, che in effetti occupa un posto molto importante nel quadro interpretativo che ho in mente, riceverà più attenzione nella prossima puntata.
 

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