di Paola Meneganti (Articolo pubblicato da “costaovest.info” il 21/02/2018 – Qui il link) Parlando di “Memoria”, il testo inedito di Pietro Ingrao ritrovato tra le carte del suo archivio, curato da Maria Luisa Boccia e da Alberto Olivetti e conservato presso il Centro per la Riforma dello Stato, il curatore Olivetti scrive: “’Memoria’ si avvale di un dettato asciutto e di un movimento lineare e filante che ottengono, alla densa ricostruzione degli avvenimenti in prima persona, l’attrattiva di uno svolgimento tanto congruente quanto partecipe”. Ed effettivamente, la memoria richiamata dal titolo, propria di un protagonista della storia politica e culturale del Novecento, che Ingrao ha attraversato tutto, anche in virtù dell’età (è scomparso centenario nel 2015), si intreccia nel libro con l’interrogare e l’interrogarsi, tra domanda e dubbio (come ha scritto Walter Tocci citando M. L. Boccia), in un rapporto profondo con la propria epoca, che è agonistico ma non violento, proprio in virtù della pratica dell’interrogazione. Si possono solo citare brevemente alcuni dei temi del racconto ingraiano, che avvince per le cose che narra e per la grande, ariosa, distesa qualità della scrittura: la sua nascita in un mondo “contadino” e “immobile”; la formazione liceale, avvenuta in pieno regime fascista, ma con docenti come Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo, entrambi, nel 1944, fucilati alle Fosse Ardeatine. Una formazione importante per alcune letture, attraverso le quali si formarono “miei percorsi che stranamente, si intrecciavano e fuoriuscivano dai codici del regime imperante, quasi a dire che non c’è mai un comando, un dispositivo dittatoriale così stringente che riesca a chiudere tutti i sentieri, i vicoli, i pertugi attraverso cui l’essere singolo si interroga sul suo stare al mondo”. Una formazione a cui, comunque, mancavano temi centrali dell’epoca: la rivoluzione industriale dei modi di produzione del taylor-fordismo, o la psicoanalisi, la psicologia del profondo. La “solitudine muta” del suo mondo di adolescente, non preparato ad affrontare, tra le altre, “la grande vicenda del rapporto tra i sessi”, in un mondo in cui, nel bene e nel male, “flussi scavalcavano i vecchi nidi nazional-patriarcali”. E poi il viaggio attraverso il fascismo (rispetto al quale Ingrao, con asciutta sincerità, ricorda di avere espresso, nei suoi anni giovanili, “un’adesione reale e convinta”) e poi l’antifascismo: scelta maturata anche attraverso letture ed esperienze non dichiaratamente antifasciste, come la poesia e l’arte, ma in quanto “recavano con sé una lettura problematica della soggettività che strideva duramente con gli inni e le mitologie erculee della predicazione fascista, confliggevano con un’immagine compatta e semplificata dell’identità umana, fissata nella forza di comando che disprezza e maledice l’incrinatura della problematicità”. Scrive Ingrao: “il mio cammino verso la cospirazione antifascista e comunista […] è stato fatto di questi passaggi ibridati, di queste vie tortuose e persino ambigue. Acerbità, oscillazione, falle dei nostri saperi. Non vederlo […] significa fabbricarsi una storia lineare, che offusca la complessità del reale”. Il “duro viaggio verso la libertà”: agire cercando, camminare per approcci, in un “deserto e vasto silenzio”; e poche definizioni sono altrettanto efficaci per una dittatura. La scelta comunista, la lotta al fascismo: “I comunisti furono per me, innanzitutto, la spinta e l’educazione a questo agire”. Il bisogno, la domanda di libertà: “intesa non come libertà di singolo, ma come libertà di relazioni con gli altri, e quindi di un agire per una società possibile, un progettare […] un desiderio forte di incontrarsi per delineare un mondo: per realizzare una condivisione, uno stare insieme in un’opera comune. In questo si innestò la convinzione che una classe (certo, questo vocabolo era decisivo) era oppressa, e la sua liberazione era decisiva per la libertà generale”. Poi la guerra di Spagna, l’aggressione nazifascista alla Repubblica spagnola: fu in quella svolta del mondo che l’impegno nella politica prese una accelerazione violenta e una urgenza”. L’ingaggio della politica non era onnivoro: c’erano la letteratura, il cinema. Ma la politica, lo stare nel mondo, il fare nel mondo era una dimensione fondamentale. Ci furono la lotta partigiana, la guerra, la direzione de l’”Unità”, il rapporto con l’URSS, su cui Ingrao scrive pagine gravi, profonde ed illuminanti; la scelta del “riformismo nazionale”, la guerra di Corea, Stalin, il 1956 ungherese; il Vietnam e l’autunno caldo; Moro, la crisi della democrazia dei partiti. E poi, il 1989: la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi dell’est, la crisi dell’idea comunista. Lo “sgretolamento”. “Mi rifiutai ostinatamente di riconoscere la sconfitta storica e di sancirla. Rimasi aggrappato al nome e al simbolo. Non me ne dolgo. È difficile sradicare la domanda centrale che ha stretto una vita. In fondo ognuno di noi è una domanda”. Sono pagine importanti quelle in cui Ingrao ragiona sulla potestà politica del sistema capitalistico di produzione e il nesso, che ne deriva, tra pubblico e privato: una riflessione sulla dimensione biopolitica del vivere. E tocca punti ancora oggi nevralgici: i rapporti tra i tempi del lavoro produttivo e i tempi, i modi e i luoghi della riproduzione della vita; la fine del patriarcato e il tema “strutturale” della differenza; la creazione e la conservazione della vita. E, in dialogo a distanza con Bruno Trentin, un ragionamento sullo Stato, sul “pubblico”, di cui Ingrao teme la dissoluzione Non ultimo, in un Novecento in cui si è affermata un’”imperiosa inclinazione militare assunta dallo scontro”, il tema del nemico e del desiderio, della necessità di dargli un volto, per rimanere umani: “prendiamo le armi e uccidiamo. E nulla sappiamo dell’altro che viene ucciso. Quasi sempre uccidendo non si vede nemmeno il suo corpo. Nel lager i nemici sono ridotti a un numero e a uno scheletro. Prolificherà una nuova istituzione: la fossa comune […] Chi è il nemico? Da dove viene? […] Mi chiedo se non stiamo arrivando ad una soglia in cui tutti i volti si dileguano. E ci sarà solo la macchina solitaria che fa la guerra. Essa sembrerà poter dire: che volete da me? Io che c’entro?”. Nella presentazione che si è svolta a Livorno lo scorso 14 febbraio, organizzata dall’associazione Evelina De Magistris con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, quest’ultimo ha parlato della declinazione della libertà che emerge dalle pagine di Ingrao, dal racconto della sua formazione politica, dagli anni 1934-35 al crollo dell’Unione Sovietica. Il libro, nel manoscritto, aveva un altro titolo: “Memorie di guerra”. “Sono stato lacerato dalla decisione di cambiare il titolo in ‘Memoria’, poiché quel ‘di guerra’ – la questione militare nella militanza politica, nella lotta politica – non era secondario”. Ma ha scelto di farlo per dare conto della valenza multipla della parola “memoria”. È una memoria politica, non personale: tuttavia, la personalità di Ingrao è così evidente che ne emerge l’autore, con tutte le sue sfumature. Che cosa si intende, cosa si fa quando si parla di politica? In queste pagine si declina una politica che richiede apertura e respiro, che oggi sempre meno riusciamo a vedere. Questo testo è stato compiuto nel 1998 (Ingrao aveva 83 anni), ma la sua memoria non si volge al passato: questo è un propellente che spinge la questione della libertà all’altezza della situazione contemporanea quotidiana. Ingrao tenta di insegnare la congiunzione, la stretta connessione tra libertà e la pratica concreta quotidiana. In lui è centrale il rapporto tra comunismo e libertà: un comunismo inteso come modo e momento concreto per affermare la libertà di ciascuno. Ingrao, nella sua lunga vita, ha vissuto lunghi anni di guerra. La dimensione “militante”, nel Novecento, ha spesso compreso la condizione militare: la rivoluzione sovietica, la guerra guerreggiata e la guerra civile, compresa la lotta di classe, il conflitto di classe. Il discorso di Ingrao cerca di estrarre dalla dimensione militare le condizioni di una battaglia, di un impegno, di una partecipazione politica e civile che non sia la presa del potere, ma la trasformazione di relazioni politiche e sociali. È possibile una battaglia d’ordine civile dove non ci sia lo scontro, la guerra? È possibile una radicale trasformazione di rapporti politici e sociali senza violenza? È possibile farlo con le mani linde? Si chiede Ingrao: come facciamo ad affermare una modalità politica diversa da quella che conosciamo dalla rivoluzione francese fino all’ottobre del 1917? L’interrogativo si fa drammatico, e lui cerca soluzioni, lavorando su alcune categorie, operando una sostituzione lessicale di termini, che porti ad una mutazione dei concetti. Negli ultimi quaranta anni della sua vita, cioè dalla metà degli anni ’70 in poi, le parole che tornano sono: costellazioni / molteplicità / pluralità / complessità / correlazioni / intrecci / connessioni / connetterci / scomposizioni / ricomposizioni / processualità / maturazione. Non sono termini impiegati nell’elaborazione politica del comunismo europeo. Olivetti, nella postfazione che ha scritto al libro, dal titolo “Oltre i comunismi del Novecento”, ricorda alcune date decisive per Ingrao: 1936, guerra di Spagna; 1956, l’intervento sovietico in Ungheria (e dobbiamo ricordare il suo articolo su l’Unità “Da questa parte della barricata”) e il XX congresso del PCUS. Negli anni ’60, compie un’analisi approfondita del capitalismo italiano.Si affacciano i temi del terzomondismo, la lettura e la riflessione su Gramsci. Nel 1966, all’XI congresso del PCI, Ingrao, in nome della discussione interna, si dichiara non convinto della gestione e della prassi politica interna al PCI. Si trova in una posizione di minoranza, che però fermenta adesioni, curiosità, riflessioni nel PCI. Non si crea una corrente, ma si parla di “ingraiani” nel PCI. Prosegue la riflessione sul capitalismo e sulla classe operaia: quest’ultima, fino a una certa data, è levatrice della trasformazione. La figura operaia consentiva la declinazione militare: era l’avanguardia che rompeva un fronte e tutto si sarebbe infilato in quella breccia. Ingrao rovescia i termini e mette al centro la dimensione della soggettività. Una dimensione che non riduce, ma che moltiplica, è qualcosa che ci attraversa: Ingrao pensa che il soggetto (l’uomo come animale politico, in relazione e in scambio) sia plurale e polidimensionale. Il tema della complessità rimanda in Ingrao alla questione dei diversi linguaggi, dei diversi codici: per il giovane Marx, l’individuo non è in grado di esercitare l’onnilateralità delle sue determinazioni. La maturazione del giovane Ingrao avvenne anche accanto a Rudolf Arnheim, che incontrò nel 1935 e che lo introdusse alla cultura delle avanguardie europee e alla teoria del montaggio, un produrre qualcosa di nuovo attraverso una combinazione di senso. È questo che gli consente di intuire, sul piano storico-politico e di sensibilità umana, l’importanza del femminismo e della differenza sessuale. La politica riduce la relazione sociale, se non è libera; costringe, e nella costrizione si perdono elementi essenziali, fatti di intelligenza e di sentimento, che non possono essere detti, fino ad oggi, dalla politica. C’è bisogno di altri linguaggi, e Ingrao agisce il linguaggio della poesia, nella ricerca della libertà, nella declinazione della libertà, nella distillazione di un ragionamento. Maria Luisa Boccia ha esordito dicendo che il libro ha sorpreso anche lei, curatrice delle carte Ingrao e a lui assai vicina. È densissimo e presenta una modalità di scrittura fatta per fissare per sé una serie di questioni. Ha concordato con la scelta del titolo “Memoria”: rende di più qual è la tensione che anima questo libro. Lo scrive in un momento in cui ha lasciato la politica attiva, e questa non è cosa da poco. Il suo è un assillo teorico-politico, in cui la memoria ha un ruolo essenziale: capire perché è accaduto e cosa ci dice, per il futuro, quello che è accaduto. Lo si capisce solo nel rapporto con il passato, quello vissuto, personale, e quello politico. È un libro densissimo di domande e di dubbi, e con qualche risposta. È vero, lei ha posto una distinzione tra domanda e dubbio: nella prima, la questione è quella, però è da riformulare; nel dubbio, si mette in questione la scelta. Ingrao cerca di riformulare alcune domande, e certamente non ha mai messo in dubbio alcune scelte: il comunismo (la lettura marxista della realtà) e l’antifascismo. Lo scontro con il fascismo fu scontro armato, mai messo in dubbio. Ingrao amava il cinema e, nel libro, parla del western, in cui “lo scontro armato era onnipresente e risolutivo: in un modo o nell’altro decideva. Sparare era essenziale e dirimente”. Entrò nella Resistenza, e successivamente, nella scrittura della Costituzione, insisté sull’articolo 11, il ripudio della guerra. Non a caso, nel suo ultimo discorso in Parlamento ha parlato contro la partecipazione dell’Italia alla guerra in Iraq. Ma non ha mai messo in dubbio che ci sono momenti in cui lo scontro armato è necessario: essenziale e dirimente. Il punto, allora, qual è? Sta nel chiedersi se la politica – il linguaggio politico, il conflitto politico – sia solo questo, una concezione di tipo militare, con cui Pietro Ingrao fa distanza. Il suo dubbio sulla modalità della presa del Palazzo d’inverno, sulla presa del potere di concezione leninista si fa profondo. Va alla radice di questa concezione. Se antifascismo e comunismo sono intrecciati in modo indissolubile, la fonte è una domanda di libertà , non di un singolo, ma di relazione con gli altri. È un progetto, un’altra forma di rapporti sociali, e Ingrao la trova sempre più nella pratica che nell’ideologia. Il comunismo è prima di tutto una pratica, da cui l’antifascismo non è estraibile. Non possiamo capire le vicende dei comunisti italiani senza l’antifascismo. In questi giorni in cui il fascismo torna sulla scena, cosa ne facciamo, anche a sinistra, di questa matrice antifascista? Ha scritto recentemente Alessandro Portelli: “[…] a partire dall’irresponsabile e sciagurato discorso di Violante sui ‘ragazzi di Salò’, abbiamo legittimato i fascisti nello stesso tempo in cui ci pentivamo di essere stati comunisti; abbiamo riconosciuto ai repubblichini ‘valori’ e abbiamo accusato i partigiani di ‘ideologia’”. L’antifascismo è una questione di democrazia sostanziale, che poi si è espressa nella Costituzione. È la matrice viva a cui attingere. Ci può essere un momento in cui dire il ‘no’ della Resistenza: questo emerge dal libro. Il periodo più duro del PCI va dal 1948 (sconfitta del Fronte popolare) al 1956 (fatti di Ungheria): le vite bruciate, il partito sconfitto. Come esce da questa stretta? Con la dilatazione della politica. Non era una cosa scontata, non avviene per caso. La politica diviene un agire collettivo, con la pratica delle relazioni. Viene agita dentro il quotidiano, dentro le esperienze. Il PCI fu usato da molte e molti che si sentivano tutelati, senza essere comunisti; gli strumenti, la libertà e la democrazia; la pace. Ci fu un popolo che fece uso della modalità politica di partecipazione del PCI. Di fronte alla modernizzazione degli anni ’60, il PCI non comprese come fosse cambiato il capitalismo italiano. Ad esempio, Amendola parla della necessità di supplenza all’arretratezza del capitalismo italiano, mentre Ingrao pensava che i processi produttivi fossero pienamente capitalisti. Nell’XI congresso, nel 1966, vince la posizione di difesa del ruolo del partito: è l’inizio del distacco dalla società italiana, un distacco che non sarà mai recuperato e che dagli anni ’60 porta al 1989, passando per la mancata comprensione del ’68 studentesco, operaio e intellettuale. È il restringimento della politica: Ingrao la vede, e lo assillano alcune questioni: cosa rende così aspro poter rilanciare quella pratica diffusa con una strategia adeguata alle nuove condizioni? Nella vicenda Moro e nell’offensiva neoconservatrice non si ha soltanto un vacillare, un entrare in contraddizione dello Stato e della sua capacità di fare ordine, ma si va sgretolando il legame sociale; c’è una crisi di egemonia gramscianamente intesa, che rende difficile anche immaginare un rilancio della pratica politica diffusa. E poi: “i padroni aizzano continuamente quelli che stanno in basso all’odio del pubblico (o se si vuole della statualità), perché vogliono conquistarle al disprezzo dell’agire politico. Ancora più oggi che gli ‘eletti’ della politica hanno fatto disastri”. È la strategia antipolitica che vuole sottrarre alla politica il tessuto sociale, i legami sociali, la dimensione collettiva, dilatata. La forza dell’avversario è sempre stata la complessità: la capacità di codificazione simbolica, che è quella di cui meno disponiamo. Ingrao si sporge verso tutto questo, e interrogarsi sulla politica si intreccia all’interrogarsi sull’essere umano. Qui la scheda del libro
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