Articolo pubblicato su “Anfibia” il 07.12.2023. Traduzione a cura di Simone Furzi.

Lo sbigottimento che può produrre il fatto che il mondo intorno a noi sia cambiato, non deve confondersi con lo stupore ingenuo sul perché tale cambiamento sia, al fine, avvenuto. Il disorientamento che attraversa alcuni di noi si spiega meglio con la mancanza di orizzonti che indichino sentieri da percorrere in questa nuova realtà, che con lo sbalordimento di chi non ha visto compiersi la trasformazione sociale in corso.

In fondo, il neoliberalismo autoritario non è un fenomeno nuovo, non solo per via di esperienze come quella di Trump o di Bolsonaro, ma perché da molto tempo a questa parte si stanno creando le condizioni per l’indebolimento della democrazia. Con un duplice risvolto. Da un lato, l’economizzazione della vita, che erige la competizione a modello di tutte le relazioni sociali, infragilisce i valori e il consenso su cui si basano i sistemi democratici (come l’esclusione della violenza politica che si è instillata nel nostro paese, 40 anni fa). Dall’altro lato, il neoliberalismo erode la sovranità statale (non solo attraverso la sua incidenza nella politica economica di organismi internazionali di credito come il FMI, ma anche a causa della transnazionalizzazione del capitale, la finanziarizzazione dell’economia e la digitalizzazione senza frontiere dei molteplici interscambi commerciali e sociali), togliendo alla politica la capacità di risolvere problemi, di rispondere ai bisogni, di decidere in modo autonomo strategie e tecniche di manovra.

Quando questi problemi si aggravano e la politica non riesce a fornire né risposte soddisfacenti, né discorsi che possano spiegare e dare una motivazione alle sofferenze sociali, questa sfiducia può ricondursi facilmente a un aggravio di responsabilità nei confronti della politica in toto per la sua impotenza. Nel 2021 avevamo prodotto un rapporto sulle rappresentazioni politiche nel post-pandemia, dove segnalavamo che si stava formando una nuova spaccatura tra “loro”, i politici, e “noi”. Ovviamente, questo non significava che la contrapposizione tra peronismo e antiperonismo fosse scomparsa del tutto, ma sembrava non essere più la linea demarcatoria del campo politico secondo le rappresentazioni dei cittadini. Si presentava in latenza la possibilità di riscrivere l’antagonismo classico della politica argentina secondo una nuova sintassi “anti-casta”, includendo i politici antiperonisti tra la “gente perbene”.

Seguendo Freud nella Psicologia delle masse e analisi dell’io, la prova dell’impotenza degli individui e degli Stati nel risolvere problemi che si ingigantiscono intervenendo sul più piccolo, come l’inflazione, è il primo passo verso l’identificazione con un leader sopra il quale si proietta la potenza che non si ha, perché “sa di economia” e “ha il coraggio e la forza per fare quel che c’è da fare”. L’esibizione della violenza non è mai stata un limite al raccogliere adesioni (e non si dovrebbe confidare che lo sia) bensì, al contrario, un veicolo per condensare un discorso pubblico che incorpori sempre più violenza, superando il confine democratico fino ad arrivare, per esempio, alla legitimmazione del desiderio di punizione dell’altro. Quel che caratterizza il neoliberalismo autoritario è precisamente la sua capacità di ottenere consenso (e dunque trionfi politici all’interno del gioco democratico) non in base a promesse di felicità e d’integrazione in un capitalismo multiculturale senza conflitti (già antiquato), ma offrendo oggetti per una catessi negativa, che alimenti il desiderio di caos e di distruzione.

Affinché questa narrativa politica virulenta sia efficace, è necessario consolidare nella maggioranza delle persone l’opinione di un presente segnato da una catastrofe. Questa configurazione si conferma alla luce dell’analisi di una serie di focus group realizzati nel settembre 2023. In maniera trasversale, seppure con una leggera intensificazione rispetto a certe appartenze e/o autopercezioni politiche (per lo più quelle che si inscrivono al campo della destra e dell’estrema destra), è condivisa una diagnosi del presente come caotico/impossibile/disastroso, che perde valore nel momento in cui “ci sminuisce”. Tra i più giovani questo si manifesta come panico dinanzi alla devastazione. Il timore cresce nella misura in cui la crisi è intesa come “senza fondo” e il paese come “distrutto”. Una crisi fatta di questi elementi non solo accoglie lo straripamento ma lo brama.

In questo contesto si produce un fenomeno alquanto singolare, una sorta di “inflazione del presente”. Un presente saturato dove tutto il peggio si sta già verificando: siamo già nel mezzo di un crack della borsa, siamo già nel disastro del 2001, ancor più, ci sono già stati i suoi effetti durante la pandemia con la chiusura delle attività commerciali, l’aumento della disoccupazione, l’esaurimento, la disperazione, la morte. Le persone hanno già dovuto girare armate, vendere i propri figli per sopravvivere, convivere con misure che limitano i consumi; siamo già diventati il “Venezuela” o “Cuba”. Nell’installazione di questo immaginario non di crisi transizionale/ambivalente – come abbiamo potuto rilevare negli studi durante la pandemia – ma di debacle, di marcia verso il precipizio, è in gioco la sopravvivenza delle istituzioni democratiche.

Thedor Adorno, in una dei suoi primi testi, ricorda come la costruzione dell’immagine di una situazione disperante da parte degli agitatori fascisti (dei mass media, ma oggi dovremmo dire anche degli influencer dei social network, del deep web) sollecita soluzioni disperate. La catastrofe, diceva ancora, come annuncio vago funziona in quanto sostituto dell’idea di rivoluzione, che invita a un cambio radicale senza contenuto sociale specifico. Questa è involontaria e priva gli individui della loro spontaneità per renderli ostaggi, spettatori di accadimenti che si decidono “sopra le loro teste”[1]. La catastrofe è descritta, inoltre, come pericolo, sebbene questo non sia altro che una razionalizzazione che occulta il desiderio di caos. Questa nozione si articola con un’attitudine peculiare rispetto al tempo, già segnalata dalla psicanalisi in relazione al sentimento nevrotico di impotenza. Chi sperimenta l’impotenza “aspetta tutto il tempo in astratto”. Il tempo senza contenuto diventa garante del cambio a prescindere dell’agire e, soprattuto, della responsabilità dell’individuo.

Più cresce l’opacità circa le cause complesse dei malesseri e si irriggidisce l’immagine che identifica la crisi del presente, più si diradano le prospettive per il futuro. Serpeggia l’idea che la tormenta sia inevitabile, e quanto più forte sarà la tempesta, tanto più probabile il prodursi dell’azzeramento capace di tirarci fuori dalla catastrofe del presente; c’è la deriva e si andrà alla deriva. Da questa prospettiva mortale si potrà deviare, pensano i nostri intervistati, solo con un colpo di timone, rapido; una sorte di offerta sulla pira sacrificale per evocare tutto il sacrifico già fatto.

In un linguaggio meno metaforico, questi immaginari del futuro si dicono in parole profane: sicurezza economica e fisica, qualcosa come “poter uscire senza aver paura che ti uccidano”. In altre occasioni si riempiono di eventi privati: trovare l’amore, scappare in un altro paese, avere la credenza piena (senza la pressione di dover ricorrere a promozioni o a sconti). Per coloro che non hanno vissuto negli anni ’90, né durante la crisi del 2001, “il sogno del dollaro” si manifesta, intriga, generando un misto di entusiasmo e di ansia.

In una situazione dove si è instillata la narrativa “dell’urgenza”, dove “tutto va male”, in cui si assiste a un disordine generalizzato, la chiamata all’ordine “dall’alto” verso il basso risulta quantomeno efficace. Si rende necessario rifondare, “azzerare”, si dice, quel che è stato costruito: la politica, la giustizia, l’economia. Non deve sorprendere, in fondo, che così cresca come ordine desiderato – sebbene al contempo temuto – la prospettiva di una figura tanto peculiare quanto polemica come è quella di Bukele o dei suoi replicanti vernacolari.

Sopra questa superficie opera da molto tempo l’ideologia neoliberale, che erode dall’interno i linguaggi della politica e della democrazia; questi processi di disidentificazione con le figure della politica, di sentimento di abbandono, di sospetto circa l’onestà e la capacità degli attori politici, così come della qualità delle istituzioni, possono condensarsi in una immagine che emerge dai focus group per rappresentare la politica: l’arena dell’antica Roma. Nell’arena, si dice, il popolo si sta dissanguando, sta lottando, sacrificandosi per tentare di sopravvivere mentre i potenti assistono dal loggione. Questa metafora si declina anche in altre maniere: quelli in basso combattono fra di loro per questioni create da quelli in alto per distrarli, affinché quest’ultimi, solo in apparenza antagonisti, possano continuare a fare i loro affari. Oppure, benché questa interpretazione sia minoritaria, si incontra l’idea che siano i politici a tenere il loro spettacolo, mera simulazione, di lotta nell’arena – con la consapevolezza che la “violenza genera adrenalina”; una messa in scena per intrattenere le masse che si ritrovano senza pane, ma con i giochi circensi. Se il copione è ben recitato possono “uscire”, altrimenti possono essere puniti, perché il pubblico, li avverte, a volte, castiga.

Quel che è certo è che non si ottengono mai dei buoni posti e che questa arena di conflittualità e violenza si fa sempre più ampia e inclusiva. Nel loggione continuano a sedere gli stessi di sempre: i potenti (politici, multinazionali, FMI), che guardano divertiti come “noi” ci sacrifichiamo. A volte, qualcuno di loro fa “il gesto di scendere nel campo di lotta”, di occupare “il nostro” posto, ma si limita a questo: una mera mimica.

Il saldo ideologico di queste configurazioni è l’operazione di totalizzazione del sentimento verso la “politica”. Non è possibile fare differenziazioni interne, tenere conto delle contraddizioni, identificare i progetti contrapposti, riconoscere i vari perché/affinché, i principi e gli obiettivi. In questa totalizzazione la politica è concepita come qualcosa di distorto, un male necessario, un elemento impuro che corrompe e contamina. Non sono il desiderio democratico o la speranza, ma lo scetticismo che pare dominare la scena: nessuno crede più a nulla, tutto si riduce al “male minore”. Si ha un’unica certezza: “nienta mai si realizza. Il mio voto non cambia mai niente”. In questo contesto l’allusione alla “casta” diventa un agglutinante feroce.

L’invito a distruggere tutto quello che si presenta come limite alla capacità di azione dell’individuo, in una situazione rappresentata come disperante, trova favorevoli condizioni per essere raccolto. Nella chiamata a prendere misure drastiche, richieste da una situazione altrettanto drastica, i limiti democratici si sfaldano e sebbene si comprenda che un’azione come la chiusura definitiva del Congreso (il Parlamento argentino, n.d.t.) sarebbe dannosa, si accetta di buon grado e con entusiasmo la sua “bonifica”, la sua chiusura temporanea per “derattizzazione”.

Quando in una congiuntura si aggregano tutti questi elementi storico-sociali, la transizione da predisposizioni autoritarie, come problema sociologico, al fascismo, come inflessione politica, può essere tanto veloce quanto decisiva. Torna a essere impellente calibrare allora, come diceva Adorno, quanto “tremendamente reale e politico”[2] possa essere questo fenomeno sociale che stiamo studiando da molto tempo e che oggi dobbiamo osservare di fronte a noi.

Note

[1] Adorno, Th. W. (2009). “La técnica psicológica de las alocuciones radiofónicas de Martin Luther Thomas. Sección II” en Escritos sociológicos II, Vol. 1. Madrid: Akal.

[2] Adorno, Th. W. (2021). Rasgos del nuevo radicalismo de derecha. Barcelona: Taurus.

Autrici

Michela Cuesta è docente e ricercatrice presso la Escuela de Humanidades e la Escuela IDAES de la Universidad Nacional de San Martín, oltre che coordinatrice del Laboratorio de Estudios sobre la Democracia y Autoritarismos e direttrice del programma Lectura Mundi.

Lucía Wegelin è docente di Teoria sociale presso il corso di Sociologia dell’Universidad de Buenos Aires, oltre che ricercatrice del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Tecnológicas, del Cultural de la Cooperación e coordinatrice del Laboratorio de Estudios sobre la Democracia y Autoritarismos.

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