La crisi russo-ucraina ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica globale il tema della corsa agli armamenti, delle spese militari e di tutto quell’apparato di connessioni tra gruppi industriali e forze armate – il cosiddetto complesso militare-industriale – oltre che sulle sue ovvie ricadute politiche.
Un altro elemento che ha suscitato grande interesse in Italia nelle ultime settimane è la percentuale di Prodotto Interno Lordo (PIL) che ciascun Paese sceglie di destinare alle spese militari, specialmente dopo l’approvazione di un ordine del giorno da parte della Camera dei Deputati, che impegna il Governo a rispettare l’obiettivodichiarato della NATO, aumentando le spese per la difesa fino al 2% del PIL.
Tra i Paesi che destinano maggiori risorse alle spese militari in proporzione al PIL figura, al quinto posto nella classifica mondiale, Israele. La notizia non dovrebbe sorprendere, vista la natura stessa dell’apparato ideologico che circonda lo stato ebraico sin dalla sua fondazione: Israele ha infatti posto la presunta necessità di sicurezza al centro della sua scala di valori e da sempre si dipinge come “un’oasi di democrazia e civiltà” in quell’universo di “barbarie” rappresentato dal Medio Oriente.
D’altra parte, sin dal 1948, anno della sua fondazione sulle rovine delle città e dei villaggi palestinesi, la militarizzazione massiccia è sempre stata una caratteristica precipua dello stato di Israele. Le organizzazioni paramilitari, quali l’Irgun e lo Stern, che fungevano da braccio armato per quell’insieme di operazioni di pulizia etnica comunemente descritte sotto l’appellativo di Nakba (termine arabo traducibile con ‘catastrofe’), sono poi confluite nell’esercito israeliano, attualmente tra i venti eserciti più potenti al mondo.
La militarizzazione estrema del Paese non è solo dovuta a fattori interni, ma è stata anche ampiamente incoraggiata dall’esterno. In particolare, durante la Guerra Fredda, Israele era visto dagli Stati Uniti come un avamposto occidentale in una regione che sfuggiva alla loro sfera di controllo. Pertanto, il mantenimento dell’egemonia militare di Tel Aviv in Medio Oriente era percepito come una priorità assoluta dell’agenda di Washington e, più in generale, del blocco occidentale.
La ‘Relazione Speciale’ tra USA e Israele
La “relazione speciale” tra gli USA e Israele è proseguita anche dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Innanzitutto, i due Paesi vantano una serie di iniziative bilaterali in ogni campo, anche e soprattutto in quello militare e della ‘sicurezza’; peraltro, le priorità dettate da Tel Aviv hanno sempre costituito il nucleo fondante della stessa politica mediorentale portata avanti dagli Stati Uniti.
Secondo dati forniti dallo US Congressional Research Service, Israele ha ricevuto $247 miliardi dai contribuenti americani dal dopoguerra al 2020. Nel 2014, alla vigilia della sanguinosa operazione militare impropriamente definita “Margine di protezione” – in cui morirono oltre 2000 palestinesi e più di 500 bambini nella Striscia di Gaza – il Congresso americano ha approvato il US-Israel Strategic Partnership Act of 2014, che dichiarava “Israele il principale partner strategico” e incrementava la cooperazione militare ed energetica tra Washington e Tel Aviv.
Due anni dopo, sempre sotto la Presidenza democratica di Barack Obama, viene varato un pacchetto di aiuti militari che prevede l’elargizione a Israele di $38 miliardi nell’arco di dieci anni.
Oltre agli aiuti trasparenti, Israele può contare su una serie di fondi elargiti indirettamente o sotto lo strumento della “cooperazione”. Secondo l’autore palestinese Ramzy Baroud, “tra il 1973 e il 1991, una somma ingente di fondi statunitensi è stata allocata per lo stanziamento di coloni illegali”. I coloni costituiscono oggi il braccio armato che consente materialmente la sottrazione di terre e la concretizzazione di una politica demografica aggressiva, tesa alla riduzione costante della popolazione araba palestinese e a quel processo di ‘israelizzazione’ che costituisce una parte integrante degli obiettivi strategici israeliani.
Non solo importazioni
Se inizialmente questa “relazione speciale” ha visto principalmente Israele nel ruolo di destinatario di armamenti e aiuti militari, negli ultimi anni, in particolare nell’ultimo decennio, si è registrata una inversione di tendenza. Israele è attualmente tra i maggiori esportatori al mondo di armi, droni, radar, missili e tecnologie militari. Secondo la più recente classifica dei maggiori esportatori di armi, stilata dal prestigioso Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Israele figura al decimo posto.
Tra i Paesi che importano armi da Tel Aviv ci sono anche gli Stati Uniti, che hanno siglato un accordo per l’acquisto di due batterie del famoso sistema anti-missile israeliano Iron Dome, da integrare nel sistema statunitense, nonostante qualcuno abbia messo in dubbio la sua reale efficacia, soprattutto dopo la pioggia di razzi partiti da Gaza e atterrati sul suolo israeliano nel maggio del 2021.
Oltre agli scambi diretti, poi, c’è una fitta rete di partnership a livello di aziende produttrici di armamenti. Secondo un documento prodotto dal Congressional Research Service e pubblicato nello scorso febbraio, molte aziende israeliane hanno aperto filiali negli Stati Uniti e questo ha condotto “a una partnership più intensa tra aziende statunitensi e israeliane, per cui lo sviluppo di armamenti viene eseguito in Israele, mentre la produzione viene completata negli Stati Uniti”.
Tra le aziende citate nel documento, figurano la Israel Aerospace Industries (IAI), a partecipazione statale, la Rafael Advanced Defense Systems e la Elbit Systems, la cui presenza non si limita agli Stati Uniti e che figurano nella classifica SIPRI tra le maggiori 100 aziende al mondo.
Il mercato delle armi è uno dei settori più fiorenti e strategici dell’economia israeliana. Nel 2020, si è registrato un incremento delle esportazioni pari al 15%, da $7.299 miliardi a $8.300 miliardi. Secondo un recente rapporto del SIPRI, le esportazioni israeliane nel settore degli armamenti tra il 2017 e il 2021 ammontano al 2,4% del volume globale. I maggiori destinatari sono l’India, l’Azerbaijan e il Vietnam.
Il mercato israeliano delle armi è stato anche posto ripetutamente sotto la lente di ingrandimento dei gruppi per i diritti umani. Un dettagliato rapporto in lingua ebraica pubblicato nel 2019 dalla sezione israeliana di Amnesty International individuava almeno otto Paesi, tra gli acquirenti di armamenti israeliani, che violano sistematicamente i diritti umani, tra cui il Sud Sudan, il Myanmar, il Messico e gli Emirati Arabi Uniti.
Tali scambi avvengono in violazione del Trattato sul Commercio delle Armi (ATT), siglato nel 2014 e sottoscritto da Tel Aviv, che definisce i criteri per il trasferimento di armi convenzionali, stabilendo che gli stati dovrebbero cessare le autorizzazioni per l’esportazione in caso di “gravi violazioni dei regimi internazionali di diritti umani”.
Il complesso militare-industriale israeliano e l’Unione Europea
Mentre gli Stati Uniti offrono da sempre, apertamente, un appoggio incondizionato e bipartisan, l’Unione Europea si è mostrata, in più occasioni, critica nei confronti delle politiche portate avanti da Tel Aviv. Da Bruxelles, infatti, è spesso arrivata, almeno da un punto di vista formale, una ferma condanna agli insediamenti coloniali e alle politiche di israelizzazione. Non sono mancati neanche espliciti richiami alle violazioni dei diritti umani da parte di Tel Aviv.
Tuttavia, queste criticità non hanno compromesso in alcun modo l’incontro sul terreno degli interessi strategici in termini di complesso militare-industriale.
Come dimostrato da un rapporto pubblicato nel 2019 dalla European Coordination of Committees and Associations for Palestine, l’UE ha elargito almeno € 2 milioni alla Elbit Systems e oltre 7 milioni di euro alla IAI. Attraverso dei programmi di ricerca come l’Horizon 2020, l’UE finanzia da anni il complesso militare-industriale israeliano, lo stesso che consente a Tel Aviv di mantenere l’occupazione illegale che l’UE ha denunciato, sulla carta, a più riprese.
Le principali aziende belliche israeliane – la Elbit, la IAI e la Rafael – adottano una strategia di promozione specifica: i loro prodotti possono vantare la caratteristica del “combat-proven”, sono cioè testati sul campo. In sostanza, l’uso indiscriminato di queste armi ai danni della popolazione civile palestinese – durante le reiterate offensive militari sulla striscia di Gaza e nelle pratiche di occupazione adottate quotidianamente in West Bank – diventa un punto di vantaggio sul mercato globale degli armamenti.
Il rapporto del 2019 analizza nel dettaglio la produzione delle diverse aziende. Ad esempio, si legge, la Elbit produce “droni, fosforo bianco, carri armati robot, piattaforme aeree, bombe a grappolo (vietate dal diritto internazionale) e altri sistemi in uso durante le aggressioni militari contro la Striscia di Gaza”. La Elbit, inoltre, è la maggiore azienda produttrice di sistemi di rilevamento elettronico e riconoscimento facciale, impiegati lungo il perimetro del muro di separazione illegale eretto da Tel Aviv. Per questo motivo, l’azienda è stata inserita nella lista di imprese che violano il diritto internazionale presso il Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Nel gennaio del 2018, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, FRONTEX, ha stipulato un contratto milionario con la Falco dell’italiana Leonardo (ex Finmeccanica), e la Heron della IAI, per il controllo delle frontiere. I droni della Heron sono stati impiegati, secondo la documentazione raccolta da Human Rights Watch, nella cosiddetta operazione “Piombo Fuso” tra il 2008 e il 2009, per uccidere centinaia di civili palestinesi.
Pochi mesi più tardi, nel novembre del 2018, la European Maritime Safety Agency (EMSA) ha invece chiuso un contratto di cooperazione con Frontex ed Elbit per l’acquisto dei droni Hermes 900, utilizzati per la prima volta durante l’operazione israeliana contro la Striscia di Gaza. Versioni precedenti dello stesso drone erano state usate anche contro la popolazione civile in Libano nel 2006, persino ai danni di operatori della Croce Rossa Internazionale.
Il ruolo dell’Italia
Secondo i dati SIPRI, nel 2021 l’Italia è diventata il sesto maggiore esportatore di armamenti al mondo, con una crescita del 16% nel periodo 2017/2021 rispetto al precedente periodo 2012/2016. La maggior parte delle esportazioni italiane è destinata al Medio Oriente e al Nordafrica, con l’Egitto al primo posto.
Il governo italiano ha sviluppato una relazione ormai ultradecennale con quello israeliano nel settore della “cooperazione” militare, sin dai primi anni duemila. Nel luglio 2012, poi, il governo guidato da Mario Monti ha siglato un accordo sulla cooperazione militare con la controparte israeliana. A seguire, l’allora azienda Finmeccanica, oggi Leonardo, ha sottoscritto “contratti per un valore pari a circa 850 milioni di dollari” per vendere a Tel Aviv velivoli di addestramento avanzato, un sistema satellitare militare ottico ad alta risoluzione, sistemi di identificazione, comunicazione e computer per il controllo di volo.
Da allora, questa “cooperazione” non si è più fermata e sono seguiti scambi di velivoli, tecnologie militari, sistemi missilistici, lanciatori, elicotteri e simulatori, che hanno fatto dell’Italia il terzo maggiore esportatore di armi verso Israele.
Nel 2020, in seguito a un accordo bilaterale, Tel Aviv ha finalizzato gli ormai antiquati modelli israeliani. L’allora Direttore Generale del Ministero della Difesa israeliano, Amir Eshel, ha dichiarato in quell’occasione che l’accordo costituiva “un’ulteriore manifestazione delle forti relazioni in tema di sicurezza ed economia tra Israele e l’Italia.”
Oltre alla compravendita di armamenti, la collaborazione tra Roma e Tel Aviv è attestata anche dalle numerose esercitazioni militari congiunte tra i due Paesi, tra cui figurano Rising Star, Sky Angel, Noah’s Ark e Blue Flag.
Particolarmente delicato è il caso della Sardegna, nelle cui basi militari vengono frequentemente ospitate le esercitazioni di Israele. Numerosi comitati, organizzazioni, collettivi, tra cui A Foras, si sono battuti negli anni per quella che definiscono “l’occupazione militare della Sardegna”. In particolare, lo scorso giugno, a poche settimane dalla fine dei bombardamenti su Gaza, alla mobilitazione popolare è seguita una partecipata manifestazione sotto il Consiglio Regionale sardo. In quell’occasione, gli organizzatori della mobilitazione hanno dichiarato: “Abbiamo il dispiacere di ospitare gli Usa, il Regno Unito, l’aviazione italiana e l’aeronautica militare di Israele che proprio nelle ultime settimane ha commesso l’ennesimo crimine contro l’umanità, continuando a bombardare indiscriminatamente la popolazione palestinese”.
Diritti globali o interessi di pochi?
Considerato l’uso indiscriminato della forza e della tecnologia militare per mantenere l’occupazione illegale e per portare avanti le politiche di segregazione, recentemente connotate anche da Amnesty International come pratiche di apartheid, la società civile palestinese perora da anni la causa di un embargo militare globale nei confronti di Israele.
Sebbene gli attacchi reiterati contro la popolazione civile siano ben documentati ed esistano numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che costituiscono una palese denuncia contro le violazioni commesse da Tel Aviv, Israele continua a godere di una sostanziale impunità, che oggi è ancora più evidente alla luce delle sanzioni e delle politiche di isolamento applicate contro Mosca in seguito all’avvio dell’operazione militare in Ucraina il 24 febbraio scorso.
Nel caso di Israele, tuttavia, la logica dei diritti umani sembra scontrarsi con quella, ben più stringente, degli interessi di alcuni e degli accordi militari milionari con Tel Aviv, che costituiscono un settore crescente nell’economia di molti Paesi.
Questa fase della politica internazionale porta prepotentemente alla luce un interrogativo: il sistema di relazioni costruito dopo la seconda guerra mondiale, che pone come requisito essenziale una cooperazione fondata sul rispetto delle norme giuridiche internazionali, è ancora valido? E, soprattutto: è valido in ogni caso o solo a geografia variabile?
Alla luce dei trattati internazionali, delle recenti e articolate denunce da parte di importanti organizzazioni per i diritti umani e delle numerose prove raccolte negli anni dalle associazioni palestinesi, la richiesta di embargo militare verso Israele dovrebbe farsi pressante e dovrebbe occupare un ruolo centrale nella società civile di quei Paesi che, oggi più che mai, si ergono a paladini del diritto internazionale.
*Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.
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