Idee

Cesare PinelliL’autonomia universitaria

1. L’esigenza di un inquadramento costituzionale. 2. Libertà scientifica e autonomia universitaria nella giurisprudenza costituzionale: spunti ricostruttivi. 3. Promozione della ricerca e libertà della scienza fra law in the books e prassi. 4. L’anello mancante della valutazione. 5. La legge di riforma. 5.1. I soggetti preposti alla valutazione. 5.2. Funzioni dell’ANVUR e obiettivi della valutazione. 5.3. Potere di determinazione dei criteri di abilitazione. 6. Il documento dell’ANVUR sui criteri di abilitazione. 6.1. I parametri per l’accesso all’abilitazione. 6.2. Lo “schema di ponderazione” fra opere in lingua straniera e opere in lingua italiana 7. Standard di valutazione e paradigmi delle tradizioni scientifiche.

1. La disciplina della valutazione dell’attività scientifica svolta nelle (e dalle) università, come dettata dalla l.n. 240 del 2010, rende in primo luogo necessario un inquadramento costituzionale dei problemi sollevati dalla valutazione, rimasta ignota per parecchi decenni all’esperienza repubblicana, e perciò assente nelle interpretazioni dei princìpi più direttamente coinvolti, come quelli di libertà della scienza (art. 33, primo comma, Cost.) e di autonomia delle università (art. 33, sesto comma), nonché dell’obbligo di promozione da parte della Repubblica della ricerca scientifica (art. 9, primo comma). In casi del genere, come si avvertì proprio a proposito di libertà di ricerca scientifica, i mutamenti dell’esperienza possono venir registrati nel processo interpretativo al fine di adeguarvi il significato di un singolo enunciato, oppure “come sollecitazione verso il sistema complessivo a far emergere nei singoli enunciati significati e valenze che la stabilità delle relative situazioni avevano tenute nascoste, facendo risaltare solo quelle correlate con la tradizione” . La seconda strada appare non solo preferibile ma necessaria. Solo così la Costituzione non viene appiattita sui mutamenti intervenuti e rimane perciò parametro di giudizio su di essi, condizione questa indispensabile in presenza di innovazioni legislative.

2. Nell’affermazione di esordio della l.n. 240 del 2010, secondo cui “Le università sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento e di elaborazione critica delle conoscenze; operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica” (art. 1, comma 1) , non tardiamo a riconoscere una continuità di fondo con un’esperienza in cui a differenza di quella di democrazie a noi vicine la libertà della scienza ha tendenzialmente coinciso con la libertà di ricerca nelle università. Coincidenza ben presente agli studiosi che si erano interrogati sul rapporto fra primo e ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione, compresi quanti, cogliendo nella dimensione individuale il nucleo forte della libertà scientifica, auspicavano che l’università fosse trattata “come un soggetto (o un sistema) che partecipa insieme ad altri soggetti, e in linea di principio su un piano di parità, al processo scientifico”, e perciò “senza privilegi precostituiti” . Se il rapporto fra dimensione individuale e strutturazione organizzativa della libertà scientifica poteva condurre ad affermare l’irriducibilità della prima alla seconda, nella libertà della scienza veniva e viene individuato il fondamento più autentico dell’autonomia universitaria. La Corte costituzionale lo ha più volte affermato, sia quando ha ragionato di una “diretta correlazione funzionale” dell’autonomia universitaria con la libertà di ricerca e di insegnamento, “valore che non può non contrassegnare al massimo livello l’attività delle istituzioni di alta cultura” (sent.n. 1017 del 1988), sia quando, premesso che “Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente”, ha rilevato che “l’organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi”, e che i limiti posti con legge all’autonomia universitaria “non sarebbero più tali ove le disposizioni di legge fossero circostanziate al punto da ridurre le università, che la Costituzione vuole dotate di ordinamenti autonomi, al ruolo di meri ricettori passivi di decisioni assunte al centro” (sent. n. 383 del 1998). Se in quelle occasioni il rapporto fra primo e ultimo comma dell’art. 33 veniva visto sotto il profilo del fondamento giustificativo e dei limiti dell’autonomia statutaria, in una pronuncia più risalente, la Corte respingeva una questione relativa alla previsione che rimette la scelta dei membri delle commissioni giudicatrici dei concorsi ai soli professori universitari della materia in concorso o di materie affini, impugnata per violazione del buon andamento per esser volta alla tutela di interessi di categoria anziché dell’istruzione e degli studi, con l’argomento che il sistema ha lo “scopo di sottrarre la nomina dei commissari alle scelte discrezionali del ministro, e quindi per adeguare l’ordinamento universitario al principio della libertà di insegnamento, che non tollera ingerenze di ordine politico o comunque ingerenze estranee alle premesse tecniche e scientifiche dell’insegnamento nei massimi istituti di istruzione”, escludendo altresì che il corpo elettorale chiamato alla scelta dei commissari fosse “portatore di interessi omogenei e corporativi: è in re che le elezioni di quei membri debbono servire a selezioni coerenti al fine per il quale sono promosse, che non sono fini di categoria o di settore, ma coinvolgono la serietà degli studi universitari e la congruità del loro svolgimento, in altre parole l’interesse generale. L’avere trasferito dal ministro al corpo dei professori il potere di scelta dei membri della commissione di concorso, nel rispetto del principio di maggioranza, ha potuto costituire un progresso verso la realizzazione di quell’ordinata autonomia cui hanno diritto le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie, in applicazione dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione” (sent.n. 143 del 1972). La Corte rigettava altresì ogni censura circa il procedimento di formazione delle terne. Il ricorrente Consiglio di Stato, osservava, “ha sempre giudicato che il concorso per cattedre universitarie non si presta alla preventiva determinazione dei criteri di massima che autolimitino la discrezionalità della commissione; ed è razionale infatti ritenere che la personalità e l’opera scientifica di un candidato rifiutino ogni qualificazione paradigmatica, e che la comparazione, nei concorsi a cattedre universitarie, debba avvenire soltanto raffrontando il merito intrinseco dell’attività svolta dai candidati, attraverso una valutazione che non può attingere a regole fisse, data la varietà delle qualità personali dei singoli candidati. Il buon andamento dell’amministrazione universitaria esige che sia valutata l’opera scientifica del candidato ad una cattedra per quella che è, e non è prevedibile a priori quale essa possa essere, così da predisporre criteri ai quali raffrontarla”. Né il mancato obbligo di predeterminazione di criteri direttivi appariva alla Corte lesivo dell’imparzialità, non solo perché la motivazione dei giudizi su ciascun candidato, anche in comparazione col giudizio espresso per gli altri, deve dare prevalenza a valutazioni tecniche suscettibili di controllo giurisdizionale, ma anche perché l’obbligo di imparzialità cui la commissione è tenuta riguarda anche quanti non hanno seguito l’attività scientifica dei commissari, cosicché non sorge il pericolo che il concorso “si risolva, secondo il sistema vigente, in una cooptazione che favorisce coloro che sono stati vicini ai commissari o sono portatori della loro idea scientifica”. La convinzione che il trasferimento del potere di nomina dei commissari dal ministro ai docenti universitari rispecchiasse il contenuto precettivo dell’art. 33 primo comma e costituisse “un progresso” verso l’attuazione del diritto delle università di darsi ordinamenti autonomi costituiva il nucleo forte, e potenzialmente irreversibile, della pronuncia: è comunque un fatto che l’esclusiva assegnazione ai docenti universitari della designazione dei membri delle commissioni concorsuali non abbia subìto da allora contestazioni di sorta. Viceversa l’idea che la comparazione compiuta dalle commissioni concorsuali non richiedesse nemmeno una predeterminazione dei criteri di massima, oltre a rendere quanto mai arduo l’eventuale controllo giurisdizionale al quale pure la Corte si richiamava, postulava una predisposizione dei commissari al giudizio imparziale che nemmeno allora si sarebbe dovuto dare per scontata.. Che per questo verso la pronuncia si basasse su un ben più contingente canone di giudizio, ossia il prestigio indiscusso, se non acritico, di cui quaranta anni fa era circondato il corpo accademico, è dimostrato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza amministrativa sull’obbligo di predeterminazione dei criteri di massima, intesa quale strumento di valutazione della congruità-ragionevolezza del loro operato e al contempo quale fondamentale misura di trasparenza, senza per ciò stesso configurare alcuna lesione del principio di libertà della scienza.

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