È un tempo, questo, in cui il teatro – per la distanza imposta dalla pandemia, per la lunga assenza forzata dalle nostre vite – sembra ritornato ad essere un bisogno, non solo una possibilità.Andiamo in teatro a rivederlo, a riabbracciarlo.E tanto ci basta.E anche lo spettacolo con cui scegliamo di soddisfare il desiderio, diventa quasi secondario.
In una conversazione di qualche anno fa, una compianta e fine studiosa, Franca Angelini, mi disse che il teatro che più le piaceva era il teatro teatrato.Termine volutamente ridondante e creato all’impronta, con guizzo infantile, per indicare un teatro in grado di contemplarsi, di manifestarsi semplicemente mettendo in scena nient’altro che sé stesso.Un nient’altro che, ora – fuori dai gusti, dai generi, dai metodi, dalle differenti maniere di intendere il teatro – ci appare immenso.
Tra i tanti teatri possibili, il teatro teatrato – il teatro che si mostra per ciò che è: teatro, non pensiero, non letteratura, non comunicazione – rivela al meglio l’ineffabile e insostituibile funzione che esso gioca nell’esistenza di ognuno.E’ il teatro che ostenta il suo trucco, la sua fatica inutile e preziosa, la sua natura sospesa.
A teatro, più che evadere dalla realtà, infatti, ne sperimentiamo il fluttuare: la temporanea interruzione in presenza.Come quando rimaniamo assorti davanti a qualcuno che ci parla troppo a lungo: un po’ lo ascoltiamo, un po’ lo tradiamo con la mente, distraendoci e vagando altrove.
Ecco, un esempio tangibile di teatro teatrato sono i due atti unici di Eduardo De Filippo, Dolore sotto chiave e Sik-Sik l’artefice magico, diretti e interpretati da Carlo Cecchi sul palco dell’Argentina, a Roma.
Lievi e profonde meditazioni intorno allo slittamento del reale in una dimensione contraffatta, posticcia, ineffabilmente comica, i testi di De Filippo fanno da solido impianto ad uno spettacolo che, con pacata consapevolezza, non ha paura di offrirsi “spiegazzato” agli occhi del pubblico.
Così preciso nelle intenzioni da permettersi l’arte di buttarsi via.La scarmigliata trasandatezza di Cecchi – tratto distintivo che, con l’incedere degli anni, ha assunto una connotazione stoica – ci guida nella smagliante resistenza dei meccanismi scenici, nell’avvitarsi incalcolabile degli equivoci.
Con addosso il kimono istoriato del maldestro illusionista Sik-Sik, liberandosi con l’estro della disperazione dall’ennesimo qui-pro quo linguistico, Cecchi incarna – di fianco al personaggio – il serafico mattatore a cui tocca ancora una replica, e gode e patisce in egual misura la circostanza.
Vederlo, al momento degli applausi, galleggiare lento verso la quinta dopo aver assistito al suo trionfo, vuol dire guardare il teatro che – allontanandosi dal nostro orizzonte – riesce a rimanere dov’è.
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