Il pugilato, nelle nostre società, ha assunto, ormai, un carattere spettrale: qualcosa, cioè, di nebuloso, fantasmatico – di cui sembra impossibile, in definitiva, tracciare limiti e confini. Esso, dunque, affascina e seduce – poiché si relaziona, pur sempre, ad alcuni elementi fondamentali del nostro esistere – ma, simultaneamente, allontana e causa – deve causare, soprattutto in seguito a determinati eventi – i sentimenti del disgusto e della ripugnanza. Tra gli sport, il pugilato, è il più inquietante: qualcosa, cioè, all’interno di cui è consigliabile non inabissarsi, da cui tenersi, in qualche modo, alla larga. In relazione a ciò che sconvolge, infatti, è preferibile abitare il ‘mondo delle convenzioni’, i giudizi che rimangono alla superficie, l’esteriorità del fenomeno: tutto ciò di cui è, in definitiva, portatrice la nostra società contemporanea – quella che il giovane Lukács definiva ‘cultura estetica’ – si riflette, così, anche in una valutazione passiva del pugilato.
Ecco, dunque, come nella narrazione comune, siano due, principalmente, i modi per giudicare il fenomeno. Il primo – in linea con tutto quanto vi è di artificiosamente culturale nelle nostre società – considera il pugilato nei termini di un orpello, un ornamento: la rappresentazione di un mondo esotico (‘però che bravi, che coraggio!’), il residuo di un mondo che più non ci riguarda, da osservare, borghesemente, con distaccata simpatia. Un’altra narrazione, invece – apparentemente distante, ma in realtà complementare alla prima – tende alla demonizzazione del fenomeno: di fronte al più inquietante, è preferibile, cioè, la rimozione. Da qui la tendenza alla semplificazione – la riduzione a uno: è uno sport violento, formatore di persone pericolose e che ha, soprattutto, una relazione problematica con la morte, su cui torneremo, da cui prendere le distanze. Di fronte a questa duplice narrazione propriamente contemporanea – dell’esotismo e della demonizzazione – rimane dunque inevaso il nodo teorico fondamentale, la domanda, cioè, che dovrebbe guidare ogni riflessione: che cos’è questo, il pugilato?
Ora, per approssimarsi alle strutture fondamentali del pugilato, possiamo iniziare affermando che esso – se confrontato con la gran parte degli sport – è quello che si avvicina, maggiormente, a possibilità artistiche. È così abusata l’espressione ‘noble art’, da guardarla, quantomeno, con circospezione: ma, in qualche modo, essa racchiude – se letta da una certa prospettiva – un nucleo essenziale della boxe. Quest’ultima, infatti, assume in sé un lato esistenziale, una passione umana, che nel vivere si presenta come spuria, frammentaria, caotica e la sublima, donandogli limiti e confini. Simultaneamente, tuttavia, questa purificazione avviene, integralmente, su un piano vitale – essa, cioè, è estremamente ‘concreta’, reale: ‘la boxe è un simbolo, ma il pugno è la cosa più concreta che esista’, scrive il cantautore italiano Capossela. Il pugilato, dunque – sul solco delle più grandi manifestazioni artistiche – è in grado di assumere un lato dell’esistenza che nel vivere si presenta come caotico e donare a esso limiti e confini, affinché assuma, in qualche modo, i tratti di una forma, ma tutto questo, al contempo, non può che compiersi e manifestarsi all’interno del vivere: insomma, la boxe è uno sport confinato ma anche radicalmente vitale, è tendente alla forma ma anche vertiginoso, è definito ma anche legato all’impeto. Esso assume, cioè, i tratti di un lucido squilibrio o, meglio, di una follia ragionata, citando l’Amleto. È uno dei tentativi più estremi, in definitiva, di rendere alcuni lati passionali dell’umano, in qualche modo, forma, ma tutto questo – qui il punto decisivo da rimarcare – avviene, e deve avvenire, all’interno del piano del vivere.
Ritornando, ora, a quell’inquietante di cui sopra, l’elemento straniante della boxe consiste nel tessere un filo di familiarità con ciò che costituisce il vero rimosso di questa decadente cultura estetica: il negativo e, conseguentemente, l’extra-ordinario del nostro vivere – quella problematica della morte, a cui si è accennato precedentemente. Nella nostra epoca – all’apparenza così sovreccitata ma, nel suo profondo, anestetizzata – la boxe fornisce, dunque, un punto di vista liminare: quel terreno, cioè, da cui il negativo dell’esistenza – declinato, qui, primariamente, nelle forme del dolore sensibile e del pericolo – non è stato ancora integralmente esiliato. Il pugile, l’esemplare culmine di un’anomalia, evita il dolore e, tuttavia, proprio in questo voler-schivarne l’impatto, ne accetta, simultaneamente, integralmente la sua presenza: si rende, cioè, in definitiva, predisposto all’incontro con esso.
Qualsiasi colpo ricevuto assume, quindi, i caratteri dell’unicità: ognuno di essi è shock, patimento. La loro durezza scuote, isola, sfalda via l’inessenziale, e, tuttavia, simultaneamente, nel frammezzo di questa sospensione, obbliga a non separarsi dalla realtà: costringe, cioè, a reimmettersi, vigilmente energici, nel mondo. In questo si condensa, e si racchiude, la tacita consapevolezza di cui si fa portatrice questo sport: la presa-in-carico dell’inaggirabile fondamento negativo che fonda le nostre esistenze. Il pugilato come un ‘sì alla vita’, dunque, ma che si origina dalla frequentazione col volto tragico del vivere – tutt’altro che un feroce vitalismo tracotante. La sua eccezionalità ci colpisce non perché nostalgici di una vita senza limiti. Proprio per il contrario: perché un vivere che non si confronta con il conflitto, con il negativo, con il sottosuolo è impossibilitato costitutivamente a divenire, autenticamente, vita.
È questo muoversi ai limiti – ai bordi, alle soglie – che rende, probabilmente, impossibile alle nostre società la comprensione delle strutture fondamentali del pugilato: è l’assenza di cultura – o, meglio, la cultura estetica – che ha contribuito a determinare, in qualche modo, la profonda crisi di questo sport. Di fronte a ciò che è più inquietante (e non si sta parlando del pugilato), infatti, si è deciso di fuggire, di fronte agli abissi si sono gettati ponti di cartapesta, che etichettano, rimuovono i problemi senza, in alcun modo, liberarsene: essi riaffiorano, infatti, di continuo, e sono così manifesti, in realtà, se avessimo il coraggio e la ‘libertà del pensiero’ di riconoscerli. Ecco, allora, come crisi del pugilato e crisi di un’epoca – o meglio, crisi della nostra cultura occidentale – sono strettamente intrecciati. È, infatti, proprio in quest’antica, e insieme insuperabile, totalità composta di vita e morte, potenza e fragilità, che la boxe costituisce un’estraneità rispetto alle convenzioni del moderno, portatrice di una familiarità con un orizzonte liminare che inquieta mondi rigidi e posture di superficie: il pugilato, in ultima istanza, inquieta la nostra epoca come cristallo di una lontana epoca tragica. Di gioia e di dolore è impastato il mistero del vivere, scrive il poeta Giovanni Lindo Ferretti, ed è il profumo di questo impasto perduto che il pugilato tenta ancora di emanare ai nostri sovreccitati (e, dunque, anestetizzati) sensi. Vi è stato un tempo in cui i terrori e le atrocità dell’esistenza vennero mediati pulsando e patiti creando, tramite le forme di una viva arte che dovremmo aver cura di rinvenire proprio in questa nobile arte.
Forse, esclusivamente in un passaggio di epoca – nell’aurora di un nuovo mondo – esclusivamente, cioè, riscoprendo gli aspetti abissali, inquieti, a-convenzionali dell’essere umano potremmo ancora, di nuovo, approssimarci a quelle strutture fondamentali del pugilato (e, dunque, alle strutture fondamentali di una diversa modalità di esistenza), ormai obliate: a quella loro natura, in definitiva, costitutivamente inquietante e feconda.
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