Diritto, Femminismo, Politica, Temi, Interventi

Il 28 luglio 2023 la Camera ha approvato la proposta di legge di Fratelli d’Italia che dichiara perseguibile la maternità surrogata anche se praticata all’estero. Il testo deve essere ora discusso e votato in Senato. Il 14 dicembre scorso il Parlamento europeo ha approvato una raccomandazione, che sarà alla base del negoziato con il Consiglio europeo, che riconosce il “certificato di genitorialità” per bambini/e comunque concepiti/e e partoriti/e, salvo in caso che rientrino nel traffico di esseri umani. L’8 gennaio, nella seduto di ricevimento degli ambasciatori presso la Santa sede Papa Francesco ha auspicato la messa al bando universale della maternità surrogata, “fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre”.

Questo scritto riprende l’intervento all’incontro promosso dalla Casa internazionale delle donne di Roma “Libere di scegliere” il 24 giugno 2023. Sulla gestazione per altri o maternità surrogata, nel femminismo vi sono da sempre posizioni diverse, ed anche contrastanti, e in questo sito abbiamo già pubblicato interventi di segno diverso.

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Chi è madre?La risposta a questa domanda non è mai stata ovvia, ed è divenuta più difficile con la procreazione medicalmente assistita. Penso che la difficoltà dipenda dal bisogno, interiorizzato in donne e uomini, di “certezza della madre”, di chi ci ha dato la vita. Da qui la resistenza profonda ad accettare la pluralità delle relazioni umane che si intrecciano attorno a ogni nascita, da sempre. Nella scena tecnologica questa pluralità è meno eludibile. Da qui la reazione forte e diffusa a ricondurre a una figura univoca, immutabile, l’origine: la madre, appunto.

La madre è figura della cultura patriarcale dalla quale abbiamo iniziato a prendere distanza nel femminismo degli anni Settanta. Io non dimentico che al centro della rivoluzione simbolica che abbiamo prodotto in quegli anni c’è la presa di coscienza sulla domanda “sono donna anche se non sono madre”? Perché la naturale corrispondenza di donna-madre risponde all’esigenza maschile di avere certezza della discendenza genealogica, attraverso il legame – per non dire il possesso di – con una donna, da lui riconosciuta come madre legittima dei propri figli. Ma sappiamo che, da sempre, non tutti i nati e le nate di donna sono riconducibili a questa univocità di rapporto e di figura. Da sempre vi sono madri “legittime” che non hanno messo al mondo, e figli/figlie i cui genitori legittimi non sono quelli “naturali”. Ma oggi più di ieri sta a noi dare senso al nascere da donna. Non è difficile orientarsi in questa ricerca di senso se assumiamo il punto di vista femminista. Se cioè guardiamo con i nostri occhi, come nella pratica dell’autocoscienza, invece di affidarci al discorso oggettivo, della scienza o del diritto. La pratica dell’autocoscienza muove dall’esperienza femminile e dà un posto significativo alla narrazione del vissuto. È questo che ci ha permesso di scomporre e ricomporre i significati della vita umana, delle diverse esperienze storiche e dell’ordine simbolico, etico, sociale, politico e giuridico che presiede ai rapporti tra gli esseri umani. Viceversa, nel discorso pubblico anche tra femministe, troppo poco si dà spazio e ascolto alle voci in prima persona. Si tende cioè a prendere parola al posto delle donne che praticano la gestazione per altri rappresentando nel proprio discorso la loro esperienza. Stiamo attente a non generalizzare le nostre convinzioni, come se queste corrispondessero all’interesse comune di tutte le donne, fossero l’espressione autentica dell’essere donna e dell’essere madre. Dimenticando che nell’autocoscienza abbiamo dato importanza anche “all’obiezione della donna muta”. Di colei che tace perché non si riconosce nel discorso che si va costruendo tra donne.

È la trappola identitaria, ovvero la costruzione di un’identità femminile univoca, come quella che ci ha assegnato il patriarcato. L’opposto del pensiero e della pratica della differenza. Ovvero dell’apertura, feconda quanto faticosa, alla pluralità dell’essere donna, delle esistenze, dei modi di pensare, delle scelte che le donne fanno. Un lavoro politico e di pensiero molto più impegnativo.

Per questo trovo sinceramente inaccettabile la motivazione con cui Snoq Libere ha proposto la “messa al bando” universale, sul piano giuridico e politico, della gestazione per altri: “ci rifiutiamo di considerarlo un atto di libertà”. Un rifiuto secco e unilaterale di una possibile scelta libera da parte di una donna.

Certo, sono fortemente preoccupata per il contesto in cui queste scelte si compiono. Viviamo in un mondo dominato dal mercato, unificato dalla legge dello scambio, dell’uso e abuso dei corpi sessuati, e delle loro “prestazioni”. È impossibile non tener conto del fatto che le scelte sono condizionate. Ma riconoscerlo richiede un impegno maggiore per dare senso e valore alle scelte, e non negare a priori la possibilità stessa che scelta vi sia. Riducendo ogni donna – le donne, la donna – ancora una volta a corpo muto. Non dando alcuno spazio alle esperienze soggettive, tra loro differenti.

Sappiamo che il divieto, secco e assoluto, fa solo danno, non aiuta affatto a sottrarre le scelte alla legge del mercato, semmai espone a maggiori rischi e costi.

“Guardare con i nostri occhi” vuol dire innanzitutto individuare il dato davvero inedito che è rappresentato dal ruolo centrale delle tecnologie della riproduzione. Perché pratiche di gestazione per altri vi sono state anche in passato. Ma le tecnoscienze investono l’intera esperienza procreativa, tramutandola in riproduzione tecnoscientifica dell’umano. Detto in breve, è la tecnologia a dettare la norma, orientando le leggi e legittimando le esperienze. La norma tecnologica dice (pretende di dire) la verità, dà la prova certa di chi è madre e padre, di chi è figlio o figlia. E a determinarlo non è il corpo, ma il gene, non è l’essere umano incarnato ma il dato biologico.

In L’eclisse della madre, scritto con Grazia Zuffa nel 1998 (ed. Pratiche), riportiamo “il caso” di Elisabetta, messa al mondo dalla zia, cognata della donna, poi deceduta, che aveva fatto una fecondazione in vitro. Il cardinale Tonini ne aveva sanzionato la nascita, perché era stata “programmata la nascita di un’orfana”. Nello scenario tecnologico la “vera” madre è la donna che dà l’ovulo, non la gestante. Questo ha una conseguenza rilevante, poiché l’utero è equiparato all’ovulo e al seme, e la gestazione è considerata una fase del processo riproduttivo che acquisisce e combina materiali genetici dai corpi di diversi soggetti. Siamo, cioè, in uno scenario neutro per definizione, in cui ciò che conta è il controllo e la gestione della riproduzione sul piano tecnoscientifico. Ed è la stessa “verità” teologica ad affidarsi a questa certezza.

È questa la sfida con cui dobbiamo misurarci. Ritengo profondamente sbagliato parlare di gestazione per altri senza confrontarsi con lo scenario più ampio che sta risignificando la procreazione, orientando le identità, i desideri, le relazioni.

Come sempre il linguaggio segnala la difficoltà. Parole come padre, madre, figlio/a, famiglia, sesso, sessualità, corpo appaiono le stesse ma sono riferite a una realtà profondamente mutata e, di conseguenza, la travisano. Non a caso ci si affanna a coniare un nuovo vocabolario: genitore 1 e genitore2, madre e padre intenzionale, madre gestante, maternità surrogata, utero in affitto. Per inciso quest’ultima definizione accetta la riduzione della donna all’organo da usare e assemblare, fa proprio cioè il linguaggio della tecnica.

Se si accetta la riduzione del soggetto incarnato femminile all’organo di cui disporre per poter compiere la gestazione, come si può contrastare la mercificazione che su quella stessa riduzione si basa?

L’utero, infatti, non è utilizzabile come il seme e l’ovulo, o come un altro organo di cui si può disporre per altre pratiche mediche. Non si può “comprare” o “donare”, perché la gravidanza è un’esperienza che coinvolge la donna, corpo e mente, per nove mesi e il grembo in cui la donna accoglie l’embrione creato in laboratorio e lo porta a nascita, è un “grembo insostituibile”; così lo abbiamo definito con Grazia Zuffa. E quest’esperienza è il fulcro delle relazioni che si formano attorno a una nascita.

Lo ripeto il dato inedito non è che in una nascita siano coinvolte più figure, in particolare femminili. Inedito è, invece, che si possa mettere al centro la scelta di una donna, la sua disponibilità a compiere una gravidanza a partire dalla quale si stabiliscono altre relazioni. È inedito per la gestazione per altri, come per la scelta della maternità da singola, o della maternità lesbica, ovvero di scelte procreative che non prevedono la figura del padre.

Intendo dire che il dato inedito è che al centro delle relazioni e dell’esperienza procreativa vi è la scelta consapevole di una donna di mettere al mondo un nuovo essere umano. A partire da quella di portare a termine o no una gravidanza. Prima non era palese nell’esperienza, ma soprattutto non vi era coscienza femminile di questo. Questo è il fulcro della rivoluzione femminista.

Ovviamente contano le condizioni in cui le scelte si compiono, che non sono mai l’espressione di una soggettività “sovrana” indipendente, avulsa dal contesto. Ma per valutarne l’incidenza non possiamo non partire dalla soggettività che, bene o male, si esprime in quella esperienza. In un modo riconoscibile o, viceversa, che non sappiamo decifrare, che ci risulta estraneo e, di conseguenza, non riteniamo “lecito”, umanamente accettabile.

Personalmente non accetto lo sfruttamento, l’asservimento, la riduzione in schiavitù di tante forme di rapporti umani. Altra cosa è ritenerne responsabili (colpevoli) le persone che li vivono, o ridurle a vittime inconsapevoli da tutelare con divieti. Soprattutto, lo ribadisco, non penso che si possa affermare che non può esservi in alcun modo una scelta procreativa consapevole femminile diversa, e distinta, dalla maternità.

Mi chiedo da dove viene il rifiuto femminista della gpa. Penso che in larga parte dipenda dalla messa al centro, ancora e sempre, dell’uomo e non della donna. La ripulsa infatti è soprattutto rivolta alle coppie gay. Fa problema che uomini possano soddisfare il loro desiderio di paternità, avvalendosi della disponibilità di una donna a realizzarlo. La gpa rappresenterebbe una forma estrema di assoggettamento del corpo femminile al potere patriarcale. Poco o nulla si parla delle relazioni tra le donne coinvolte, nonostante sia noto che sono soprattutto coppie eterosessuali a ricorrervi; così come è frainteso il coinvolgimento della donna che dà l’ovulo: o è la “vera” madre, come per il cardinale Tonini, o è la fornitrice anonima di materiale genetico per altri e, soprattutto, altre.

Anche sull’omogenitorialità bisognerebbe distinguere tra chi – donne e uomini – la rifiuta nell’interesse del bambino/bambina e chi invece rifiuta la distinzione tra procreatrice e madre. La compagna della donna che genera, grazie a una fecondazione in vitro, è “madre” se ha fornito l’ovulo, e genitore “neutro” – sociale – se è rimasta estranea alla riproduzione?

C’è una resistenza e diffidenza femminile, e femminista, a riconoscere la pluralità delle relazioni attorno alla nascita oltre l’ordine binario dei sessi, e delle relazioni primarie. Oltre la parentalità è il titolo di un importante scritto di Manuela Fraire (Sofia, 1997) che andrebbe assunto come un prezioso riferimento per il confronto tra femministe. Se vogliamo essere all’altezza della sfida tecnologica, nella consapevolezza che “avviene nel tempo storico, simbolico e politico, della rivoluzione femminista che ha messo in questione l’ordine della parentela costruito nel corso della civiltà umana” (Boccia, Zuffa, op. cit.).

Noi, protagoniste del rovesciamento radicale dell’ordine patriarcale, arrivate alla soglia della sfida tecnologica, volta a riprendere il controllo della riproduzione, nell’illusione di poter fare a meno della dipendenza del corpo femminile, regaliamo ai nostri avversari, conservatori e innovatori, il vantaggio di poter fare ricorso, ancora e sempre, alla “certezza” della donna-madre.

Non ci fidiamo, non ci “affidiamo” – ricorro a una parola chiave della Libreria delle donne di Milano (Più donne che uomini, Sottosopra, 1983), smentita però sulla gpa – alle donne.

Si parla molto dei diritti di chi nasce. Non voglio certo ignorarli, ma non vi nessun diritto, né alcun soggetto titolare di diritti, se non c’è il “Sì” di una donna a mettere al mondo un nuovo essere umano. E ad assumersi la responsabilità di scegliere le condizioni della sua accoglienza e del suo posto nel mondo. Se sarà lei a fornirlo, o se invece lo affiderà ad altri e ad altre.

Chi è madre e chi è padre non dipende, non dico dalla biologia, ma neppure solo dal corpo. La madre, come il padre, è una figura simbolica; lo è da sempre nell’ordine patriarcale e lo è nell’ordine “oltre la parentalità” che dovremo costruire. Non dipende dalla natura e non dipende oggi solo dalle scelte sessuali: si può procreare senza sesso, è questo il cambiamento epocale con cui dobbiamo confrontarci. Come afferma Jacques Derrida, “Chi ha detto che una coppia di gay è una coppia di due padri e una coppia di lesbiche è una coppia di due madri?” (Jacques Derrida, Elisabeth Rodinesco, Quale domani?, Bollati Boringhieri, 2004, p. 75). Su cosa si basa questa convinzione se non sul pregiudizio che i ruoli tradizionali siano “naturali” e come tali immodificabili?

Ma vi è un altro pregiudizio da sfatare, quello del potere tecnoscientifico. Non esistono “i figli della provetta”, non si nasce cioè in laboratorio. Nessuna tecnica può raggiungere il suo scopo se non c’è una donna che porta a termine una gravidanza. Ancora, si nasce da una donna. Le tecniche, come i desideri soggettivi, sono impotenti se non trovano una donna che accetta di realizzare quel progetto e quella finalità procreativa. È su questo che dovremmo trovare un accordo tra donne.

Se la gestazione equivale a rendere la donna che la vive una madre, vuol dire che vi è una figura esclusiva ed escludente di tante alte figure e scelte femminili. Si fa cioè ricorso alla distinzione tra la vera madre e le madri di secondo grado, quelle acquisite per legge. Dobbiamo viceversa riconosce la centralità della procreatrice che non è la madre, ma la donna che mette al mondo. Di colei che rappresenta il limite che incontrano la scienza e la tecnica, come i desideri e i propositi soggettivi. E dunque è anche il limite che incontra la legge. Non c’è legge che possa regolare la procreazione senza riconoscere alla donna “la prima parola e l’ultima”, compresa la possibilità per la donna che ha accettato la gpa di confermare o smentire il suo “Sì” dopo la nascita. È questo l’argine più forte alla commercializzazione e allo sfruttamento del corpo femminile.

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3 commenti a “Chi è madre?”

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