Diritto, Femminismo, Temi

La recente approvazione in Parlamento della gpa come reato universale ha accelerato l’urgenza di un confronto fra posizioni femminili al momento divergenti, per evitare di essere risucchiate nel campo ideologico/penale saldamente presidiato dalla destra di governo. Circa il marchio d’origine del ddl Varchi molto è già stato scritto; si può aggiungere che questo è risultato più vivido, se mai ce ne fosse stato bisogno, dalla vicinanza di logica penale col ddl “sicurezza”, in discussione – guarda caso – nello stesso periodo.

Con questo intento dialogante, Paolozzi (CRS, 15 novembre 2024) ragiona sulle varie argomentazioni in campo, auspicando che le critiche, che pure andrebbero prese in considerazione, di alcune femministe alla gpa non “finiscano nel calderone agitato dalla destra omofoba e transfobica”.

Non si può che essere d’accordo. Tuttavia, per raggiungere l’obbiettivo, ritengo utile risalire agli albori della “emergenza gpa”: poiché questa costruzione emergenziale è in stretto collegamento con la soluzione legislativa di proibizione (nella forma – estrema – della messa al bando internazionale). È lo stesso percorso seguito per le Tecnologie della riproduzione assistita (TRA) negli anni Novanta: con Maria Luisa Boccia l’abbiamo definito “dallo scandalo alla norma” (L’eclissi della madre, 1998). Al tempo fu individuata la spinta alla ribalta mediatica dei casi-limite, protagoniste perlopiù figure femminili: dalla mamma-nonna, alla mamma-zia, quest’ultima disposta a portare in grembo e a crescere la bambina Elisabetta figlia genetica della cognata deceduta (e ciononostante bollata come “orfana”). Dallo scandalo dello “scompaginamento” della famiglia alla norma: la legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Quella legge tentava di restaurare la norma/normalità familiare proibendo a larghe mani tutte le tecniche non in sintonia con quella visione “etica”. Sempre agitando l’etica della “famiglia unica”, i parlamentari di destra si scagliavano contro la gpa all’epoca della discussione parlamentare sulla step child adoption, nell’ormai lontano 2015.

Lo “scandalo” gpa precipita nella immagine dell’utero “affittato” dalle coppie dello stesso sesso. La gpa è dunque bollata come fonte di “doppia anomalia”: sdogana la genitorialità delle coppie gay, aggirando gli ostacoli all’adozione; e lo fa, inaugurando una forma di “sfruttamento” del corpo femminile, dei maschi sulle femmine, rinverdendo il patriarcato – si dice.

Il tema dello “sfruttamento” femminile e della “mercificazione” del corpo è il più ripreso in settori femminili e femministi. E precipita nell’immagine della donna degradata a “utero” in affitto, o peggio ancora a “utero usato come forno” (Angela Finocchiaro intervistata su Il Foglio, 18 ottobre 2024).

Se è condivisibile la preoccupazione per i rischi di sfruttamento nel mercato globalizzato e il conseguente sforzo, anche normativo, per cercare di arginarlo, non lo è affatto l’immagine orribilmente umiliante, per le donne che praticano la gpa, dell’utero-forno: figlia, con evidenza, di un’ esasperata “biologizzazione” della procreazione, trascinata dagli occhiali tecnologici, che ci mostrano organi e funzioni, celando i corpi umani pensanti e desideranti. Come si può pensare che una donna, per quanto spinta dal bisogno a sottoscrivere un contratto iniquo, perda la sua capacità di pensare e sentire, in una parola la sua umanità, per annullarsi nel suo organo riproduttivo? Come si può contrastare la “disumanizzazione” se non rispettando innanzitutto la sua soggettività?

Come si vede, fino dalle coordinate originarie del dibattito, la destra ha segnato con decisione il campo, fino al “naturale” esito della proibizione urbi et orbi. Del resto, l’immagine “scandalosa” della donna-utero risuona di per sé come un appello alla “norma” di proibizione e punizione, la più estesa e la più severa possibile.

Se “ciò che le donne vogliono” esce di scena

Dunque, per un confronto reale fra donne, la prima mossa è “guardare con i nostri occhi” di donne: puntandoli sullo scenario più largo in cui si inserisce la gpa ; “riumanizzando” – per così dire – lo scenario della riproduzione.

La prima mossa è recuperare il carattere di pratica della gpa, che mette in relazione due donne: le tecnologie non ne cambiano la natura sociale relazionale, anche se influiscono sulla relazione rendendola per certi versi più stretta attraverso l’intreccio della maternità biologica e della maternità di gestazione. Lo “scandalo” delle coppie maschili omosessuali non dovrebbe coprire il fatto che sono le coppie eterosessuali, in grande maggioranza, a ricorrere alla gestazione per altri; e che quindi il rapporto primario si stabilisce fra due donne, una che non può portare avanti una gravidanza e tuttavia è disposta a essere madre; e l’altra che è disposta a procreare e tuttavia non sarà la madre del bambino che porterà in grembo.

Come scrive Boccia (CRS, 18 gennaio 2024), una delle ragioni, forse la più importante, del rifiuto femminista della gpa “dipende dalla messa al centro, ancora e sempre, dell’uomo e non della donna. La ripulsa infatti è soprattutto rivolta alle coppie gay”.

Ancora, con i nostri occhi di donne attente alle modificazioni sociali, si potrebbero condividere le osservazioni di Tamar Pitch (Studi sulla questione criminale, 13 giugno 2023) all’indomani dell’approvazione del “reato universale” in Commissione Giustizia alla Camera, la gestazione per altri è già fra noi, perfettamente legale e senza scandalo: è il caso della donna che partorisce “non volendo essere nominata” e che dunque non riconosce il bambino, poiché non ha intenzione di essere madre del figlio o della figlia che ha appena messo al mondo. Sarà un’altra donna, in genere una donna che non può partorire, a diventare madre tramite adozione. Come interpretare allora le varie argomentazioni addotte per motivare lo “scandalo” di oggi alla luce di quella forma di gestazione per altri che è già fra noi?

Colpisce il differente atteggiamento nei confronti delle madri sociali. Mentre la madre adottiva godeva e gode della massima considerazione, la madre “intenzionale” della moderna gpa è oggetto di biasimo, fino a negarla come madre e “bollandola” (è la parola giusta) come “pretended mother” e “secondo padre” (è il pensiero di Daniela Danna, in aderenza al dato biologico che equipara l’ovocita al seme). Chi poi voglia commiserare i piccoli/le piccole adottati/e in quanto privati/e della “relazione privilegiata con la donna che l’ha generata, fonte di rassicurazione” (citazione dall’appello di Lesbiche contro la gpa) sarebbe accusato/a di aggrapparsi al legame di sangue, a scapito della complessità dell’essere madre e dell’importanza di un tessuto relazionale positivo per la crescita serena del minore. “Non basta partorire per essere una madre”; e “si può essere madre anche senza aver partorito”: sono le due idee portanti dell’adozione a sostegno del riconoscimento sociale della madre adottiva; con in più la consapevolezza che enfatizzare il distacco dalla madre procreatrice e sminuire il ruolo della madre sociale comporta inevitabilmente la stigmatizzazione dei bambini e delle bambine.

Molto ci sarebbe da dire sulle due figure di scissione, donna portatrice e madre, appena evocate. Mi limito a un aspetto: ambedue appaiono unite nella rappresentazione della donna “vittima”. Nel caso della donna che “non vuole essere nominata”, si suppone che sia costretta a separarsi dal figlio/a “per causa di forza maggiore”(come si scrive ancora nell’appello succitato), vittima cioè del bando sociale per avere messo al mondo un figlio senza autorizzazione maschile (la figura della ragazza-madre degli anni ‘50, per intendersi); nel caso delle donne procreatrici per altre/i, queste sarebbero vittime del mercato globalizzato e dello squilibrio di potere – economico e sociale – fra loro e la coppia “intenzionale”. Proprio la designazione di “vittime”, definite tali senza peraltro che abbiano voce in capitolo, sbarra il passo a qualsiasi indagine sulla dimensione soggettiva, così che l’idea che si possa scegliere di procreare senza diventare madri rimane pregiudizialmente esclusa, prima ancora di indagare nel concreto le condizioni che potrebbero inficiare la scelta.

E se “ciò che la donna vuole”, anzi “ciò che le donne vogliono”, esce di scena, la porta alla proibizione è aperta: ad autoritaria difesa di una “universale” e “oggettiva” idea di “dignità” femminile, così spesso evocata. Dietro l’accorata denuncia della “offesa alla dignità delle donne”, si intravede il monolitico concetto di “donna”: l’idea di un’identità femminile univoca – la donna – che riporta le donne al posto rigorosamente circoscritto dal patriarcato (quel posto – la maternità – da sempre metro di misura della dignità femminile).

I “supplementi di madre” che sono fra noi

Siamo così giunte al cuore della riflessione femminista, al tentativo di disgiungere l’essere donna dall’essere madre; per svincolare l’essere donna dalla colonizzazione (patriarcale) dell’essere madre; e per riempire di significati l’essere madre “per scelta”. È uno svincolamento controverso, come suggerisce Fraire (La porta delle madri, 2023): “Ciò che fa paura della gpa – ella scrive – è una disgiunzione tra donna e madre tramite cui una donna può affermare – come mai prima – che l’esperienza della gravidanza può essere desiderata come fine a se stessa. Grazie a questa possibilità a essere messa in questione è proprio la famiglia patriarcale”. Che la disgiunzione donna/madre non sia facile, è dimostrato dall’eccesso di enfasi sulla maternità presente in molte prese di posizioni. Come se la maternità coincidesse totalmente con la pienezza umana della donna e fosse condizione necessaria per lo sviluppo dell’intera personalità, osservava Pomeranzi, commentando sul supplemento di Legendaria – 123/2017 – la petizione di SNOQ-Libere con la richiesta di “divieto universale della maternità surrogata”, inviata alla Convenzione per l’Eliminazione delle Discriminazioni Contro le Donne – CEDAW. E opportunamente aggiungeva che “chi sceglie di non essere madre, ad esempio per un diverso orientamento sessuale, rischia di essere pensata come una donna non pienamente realizzata”.

Quella disgiunzione fa paura perché dà accesso all’idea delle “tante madri”, con la conseguente rinuncia alla potente icona (patriarcale) della “vera madre”, unica e insostituibile. Scrivono Derrida e Roudinesco (Quale domani?, 2004), “la cosa più difficile da pensare – in primo luogo da desiderare e poi accettare come se non fosse una mostruosità – è proprio questa: che ci sia più di una madre. Dei supplementi di madre, in una irriducibile pluralità” (corsivi miei).

Eppure, la “mostruosità” dei “supplementi di madre” può essere addomesticata se, ancora una volta, ci sforziamo di “guardare con i nostri occhi”. Si potrebbe allora acquisire consapevolezza delle “tante madri” e dei tanti padri che sono già fra noi, cresciuti di numero e qualità via via che si è indebolito il modello di famiglia fondata sull’unione di un uomo e una donna, destinata a durare tutta la vita. Pensiamo alle famiglie composte dalle cosiddette “donne sole”, che vivono con uno o più figli, a volte di padri diversi; oppure alle famiglie di divorziati/e che vivono con figli avuti da precedenti unioni, rendendo palese per la donna il ruolo di “supplemento di madre”; e ampliando, fuori dal fondamento biologico genetico della famiglia tradizionale, il significato di “madre” e “padre”, così come di “fratello” e “sorella” (non più relegati ai margini dalla qualifica di “fratellastro” e “sorellastra”). Come pure sono già fra noi coppie di donne e di uomini omosessuali, che a volte convivono con figli avuti da precedenti unioni eterosessuali, a impersonare altrettanti “supplementi” di madri e di padri.

Le famiglie contemporanee sono frutto di questa apertura alla relazionalità, innestata dallo scatto di soggettività delle donne, fuori dal recinto patriarcale della famiglia al singolare. Se si allontana l’immagine catastrofica della “deflagrazione” della madre (unica), si può allora pensare con fiducia, anziché con raccapriccio, al moltiplicarsi delle figure femminili intorno al nuovo essere che viene al mondo.

L’autonomia procreativa femminile, come “gancio” normativo

Ciò che finora ha limitato, se non impedito, il confronto fra donne è stato il precipitare nella richiesta di divieto: impedendo di ragionare su possibili soluzioni normative “ancorate alla vita reale delle persone, alle soggettività… (pensando) ai bambini, cui dobbiamo garantire cura, accoglienza amorevole e diritti” (Anna Maria Carloni sul sito del CRS, 12 dicembre 2024). Se è vero che “madre si diventa” a separazione avvenuta dal bambino cresciuto nel suo corpo, la donna procreatrice continua a rappresentare il “grembo insostituibile” che immette il nuovo nato nel mondo, con un “lavoro” materiale e simbolico a un tempo. Rimettere la procreatrice al “giusto posto” significa per prima cosa non mortificarne la soggettività, bensì al contrario riconoscerne appieno l’autodeterminazione. La centralità della donna procreatrice è anche strumento per contenere i meccanismi di sfruttamento del mercato libero. È il “gancio etico” oltre il patriarcato, per ispirare ipotesi di regolazione; su cui scavare nel confronto fra donne.

Sono due le ipotesi in campo, la gpa “solidale” o “altruistica” e la gpa commerciale. Tale classificazione pone come discrimine il fattore della retribuzione economica o meno. Proprio questa discriminante non convince, poiché avalla l’idea che la solidarietà e l’altruismo siano esclusi per principio in presenza della remunerazione; di contro, solo il mancato pagamento sarebbe prova di solidarietà, che dunque avrebbe dignità come tale solo in versione oblativa. Quanto alla gpa commerciale, non è tanto il danaro il problema, quanto la logica di interessi contrapposti del contratto a risultare incongrua: perché non rispecchia la logica del sistema relazionale che si dipana dalla scelta di una donna di procreare. Ciò riconferma che la vera discriminante sta nel pieno riconoscimento della donna procreatrice: sarà lei il soggetto regolatore delle relazioni nella gpa.

A partire da questo principio, abbiamo già a disposizione importanti elaborazioni di donne giuriste, da Maria Grazia Giammarinaro a Laura Ronchetti. Agganciandosi al principio di autodeterminazione procreativa, sono stati enucleati contenuti non negoziabili: la donna gestante conserverebbe il diritto a decidere se tenere o non tenere con sé il bambino o la bambina fin dopo il parto; così come il diritto a interrompere la gravidanza divenuta indesiderata. Sarebbe lei a scegliere le procedure mediche e a stabilire le regole di comportamento in gravidanza.

Infine, non potrebbe esserle negata la possibilità di mantenere rapporti con il bambino o la bambina che ha partorito. Sappiamo che le relazioni si dispiegano in un campo altro dal diritto e dai diritti. E tuttavia, stabilire un contesto normativo “umano”, di rispetto della procreatrice e della sua “opera”, crea le premesse per relazioni di rispetto e di fiducia fra tutti le partecipanti e i partecipanti all’evento nascita.

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