È certo ancora presto per capire se il risultato del congresso conclusosi qualche giorno fa con l’elezione di Elly Schlein a segretaria del Partito Democratico avrà davvero, come forse un po’ troppo ambiziosamente promesso, un rilievo “costituente”. La memoria di ciò che il PD “costituito” ha rappresentato dalla sua fondazione fino al passato recentissimo – la liquidazione in blocco dell’eredità comunista, l’appiattimento quasi totale sulla vulgata neoliberale (“compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato”, recita il Manifesto dei valori del 2008), la perdita di ogni orizzonte critico e la rinuncia a ogni afflato di trasformazione radicale – è ancora troppo viva perché si possa nutrire al riguardo una qualsiasi altra forma di ottimismo che non sia un gramsciano ottimismo della volontà. L’ormai famigerato “governismo” – l’amministrazione degli interessi che prende il posto della rappresentanza del conflitto sociale – è una malattia da cui non si guarisce né rapidamente né, tanto meno, con facili rimedi taumaturgici.
E però, la politica ha delle ragioni che la ragione non conosce. La schiera dei critici – tanto da destra quanto, e anzi più, da sinistra – si è troppo frettolosamente precipitata a irridere l’entusiasmo o anche il semplice sollievo per la vittoria di Schlein come manifestazione naive di un’attesa palingenetica a tinte messianiche, come miraggio alimentato nella società dello spettacolo dall’introiezione passiva della fede nelle virtù miracolose del leader slash personaggio mediatico di turno. A me sembra invece che questo sentimento – chissà quanto diffuso, peraltro – di più o meno cauta euforia sia espressione di un’intelligenza forse solo a metà conscia ma capace di cogliere un punto che sfugge allo sguardo del cinico. Un punto squisitamente simbolico, certo: ma chi liquida il simbolico in nome di un malinteso materialismo politico dimentica che il politico è intessuto da parte a parte di simbolico, sia nella definizione dei suoi confini esterni che nell’articolazione dei suoi equilibri interni.
Il significante “vittoria di Schlein” ha infatti prodotto sul piano dei significati politici un potenziale allargamento dello spazio del pensabile e del dicibile: puntare decisamente a sinistra – perché è questo il senso di cui la piattaforma Schlein si è caricata anche oltre i meriti, pure esistenti, delle sue proposte specifiche – non è più sinonimo di sconfitta, e dunque non è più tabù. Il sipario, come ha scritto Vincenzo Vita su il manifesto, è stato strappato: che poi a farlo sia stata una candidata dichiaratamente femminista, e appartenente a una generazione finora quasi mai comparsa sulla scena pubblica nazionale, aggiunge ulteriori strati di senso a un segno che sarebbe perciò superficiale snobbare con leggerezza. La soddisfazione con cui molte e molti hanno salutato l’esito delle primarie afferra questo côté simbolico meglio di quanto non faccia chi si ostina a misurare l’efficacia politica col solo metro della logica partitica, del gioco delle correnti, dei rapporti di forza interni ai gruppi parlamentari.
Il che però non vuol dire che simbolico politico e reale partitico vadano pensati alla stregua di dimensioni separate e non comunicanti: precisamente il contrario. Come già la sua campagna, così a fortiori la sua elezione a segretaria potrebbe fare di Schlein un significante vuoto (benché in effetti già riempito di qualche non disprezzabile contenuto) in grado, à la Laclau, di catalizzare vecchie e nuove energie progressiste nella costruzione di un fronte di sinistra composito ma coerente, dentro e fuori il PD. Dentro: perché se è vero che è ingenuo credere che un partito cambi in blocco a ogni cambio di leader, è altrettanto ingenuo raffigurarsi la macchina partitica come un monolite inscalfibile e inerte, tanto più poi nel caso di un agglomerato eterogeneo e caotico come il Partito Democratico. Lì c’è di tutto, in proporzioni varie e in combinazioni multiple: arrivisti rampanti e sinceri (social)democratici, ex-comunisti convertiti (con tutto il fervore dei convertiti) al credo neoliberale ed ex-comunisti che però ancora conservano un’idea per quanto tiepida di cambiamento, cattolici integralisti e cattolici sociali, chi è solo in cerca di una rendita di posizione e chi alla rendita vorrebbe accompagnare (o almeno auto-illudersi di accompagnare) una posizione politica. All’interno di questo contraddittorio campo di forze, i corpi e le masse hanno sì una loro inerzia, ma non tale da renderli completamente immobili: l’irruzione di un nuovo centro gravitazionale può determinarne un riorientamento virtualmente capace, tramite una serie più o meno lunga di scivolamenti a catena, di produrre uno spostamento complessivo del soggetto-partito. E se, come in questo caso, è il significante “sinistra” che torna a esercitare un qualche potere d’attrazione – che sia per interesse o per genuina convinzione conta solo fino a un certo punto – la direzione dello spostamento potrebbe poi anche rivelarsi positiva.
Se davvero il cambiamento ci sarà, e soprattutto quale entità e quale durata avrà, è difficile al momento prevederlo: ma escluderlo dal novero dei possibili è un errore di analisi altrettanto grossolano che festeggiarlo fin da ora come cosa certa. D’altronde, che qualcosa già si muova pare innegabile. Non penso solo allo strappo appena consumato di Fioroni, ai mal di pancia di Gori e all’inquietudine che serpeggia nelle fila moderate (qualsiasi cosa ciò significhi) del partito – segno comunque che una contraddizione si è aperta, e che non è detto che il business del PD possa continuare as usual. Penso anche al posizionamento di pezzi di dirigenza che una lettura maligna – e neanche troppo velatamente paternalista e misogina – ha voluto indicare come i veri dei ex machina della vittoria di Schlein, e dunque i padroni del suo destino politico. Quasi che non fosse possibile una lettura opposta: la forza di una proposta che ha attratto a sé – sia pure per calcolo – personaggi che, con più lungimiranza di altri, hanno per primi fiutato il clima mutato, e hanno deciso di saltare sul carro ancora prima che il responso dei gazebo, ribaltando quello dei circoli, lo dichiarasse vincente.
Ma il raggio dell’analisi va ampliato anche al di là delle sole dinamiche interne al Partito Democratico. Del resto, è proprio al “fuori” che Schlein ha fatto appello fin dall’inizio della sua campagna, venendone poi almeno parzialmente ripagata, e pur a fronte di un’affluenza comunque in forte calo rispetto a tutte le primarie precedenti. In assenza di dati certi è senz’altro azzardato trarre conclusioni di sorta, ma non è implausibile che una parte relativamente consistente delle quasi seicentomila persone che hanno votato per la neo-segretaria venga da ambienti vicini alle associazioni e ai movimenti sociali, femministi, ecologisti che, tra infinite difficoltà, continuano a tenere viva oggi la scintilla della critica e la testimonianza dell’alternativa. Come ha scritto Lorenzo Zamponi su Jacobin, “sarebbe miope negare che l’elezione di Schlein segnala il risveglio, seppur contraddittorio, di un pezzo di popolo democratico e progressista, e un evidente spostamento a sinistra dell’asse del dibattito”. Un risveglio che è anche riattivazione (cauta, parziale) di un elemento di desiderio e passione politica – determinata forse più dalla portata simbolica di quell’elezione che, di nuovo, dalla sua effettiva portata storica, ma che pure non va sottovalutata.
Dunque, che fare? L’ipotesi più prudente, da sinistra, sembrerebbe quella attendista: stiamo a vedere cosa succederà, se davvero Schlein riuscirà a mantenere almeno in parte la promessa di cui si è fatta portatrice, o se invece si rivelerà l’ennesimo bluff. E però, com’è triste la prudenza! Non mi pare ci sia nulla da guadagnare da una profezia che si auto-avvera, se non la soddisfazione narcisistica di poter dire di aver avuto ragione. Un’ipotesi più ambiziosa potrebbe allora essere la seguente: cominciare a ragionare su come dotarsi di un’azione politica efficace per far prevalere il primo scenario sul secondo, intervenire attivamente lavorando a forme pianificate e non occasionali di confronto su singoli temi (migrazioni, reddito, guerra, ecologia, lavoro, diritti) per verificare se sia possibile, da fuori il PD, spostare il PD su posizioni più avanzate, facendo leva sulle contraddizioni che si sono aperte e si apriranno e tentando di dare forza all’eventuale mutamento. Con spirito laico, con intelligenza tattica, e senza nutrire eccessive illusioni: ma senza neanche rinunciare in partenza a cogliere l’occasione di “un contesto – di nuovo Zamponi – potenzialmente molto interessante sia per le forze organizzate della sinistra sia per sindacato e movimenti”. Non sarà certo il sole dell’avvenire, ma hic Rhodus, hic salta: il deserto del reale in cui ci muoviamo è questo. Anche solo un passo nella giusta direzione è un passo che ci avvicina a uscirne.
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