Intervento pronunciato in occasione della giornata in ricordo di Mario Tronti, tenutasi l’8 novembre scorso a Roma a tre mesi dalla sua scomparsa.
Credo che la rilevanza del volume, curato da Tronti e Teodonio, volto a rappresentare il primo e indispensabile mattone per un più sistematico Atlante della memoria operaia, risieda essenzialmente nell’ambizione che esso incarna e a cui tenta – attraverso i contributi che raccoglie e in cui si articola – di fornire una concreta applicazione. Sarebbe a dire, la volontà – che viene espressa sin da subito e a chiare lettere nell’introduzione di Mario Tronti – di approcciarsi al tema del conflitto sociale e della lotta di classe focalizzando l’attenzione su alcuni determinati aspetti tralasciati e misconosciuti persino una tradizione teorica e da un preciso filone del marxismo, come quello operaista, che nel suo processo di distinzione dalle altre “scuole” e correnti aveva fatto dell’assunzione del “punto di vista operaio” la chiave interpretativa per comprendere, decostruire decodificare la logica di sviluppo del capitale, le sue leggi di movimento, il tipo di innovazioni tecnologiche con cui esso, di volta in volta, plasmava l’organizzazione del lavoro in reazione all’iniziativa operaia.
Nonostante dunque questo preciso angolo visuale, elevato a paradigma, cioè il punto di visto operaio concepito come strumento ermeneutico e conoscitivo, lo stesso operaismo e le diverse esperienze editoriali e politiche originate dalla “rottura” dei Quaderni rossi e dall’iniziativa di Raniero Panzieri avrebbero – secondo Tronti – prestato poca, pochissima attenzione a una dimensione della condizione operaia – quella emotiva, emozionale, legata al vissuto quotidiano, alle biografie degli operai stessi – centrale e fondamentale per un progetto politico, come quello operaista, intenzionato a rovesciare le relazioni sociali e di potere esistenti. E che, proprio per questo motivo, avrebbe avuto la necessità di darsi una carica e una proiezione egemonica, proprio a partire dalla valorizzazione dell’antropologia e del tipo umano di natura operaia.
Se dunque la tradizione e l’approccio inaugurati dai Quaderni rossi si erano tradotti, nella pratica, in un buttarsi a capofitto nello studio, nella comprensione e nell’analisi della composizione di classe, usando strumenti conoscitivi e di indagine come l’inchiesta operaia, capaci quindi di oltrepassare i limiti di un marxismo concepito in maniera solamente teoretica, e quindi ritenuto incapace di tenere il passo delle trasformazioni tecnologiche, dei mutamenti dell’organizzazione del lavoro, delle nuove e più raffinate forme di sfruttamento, di estraniazione, di alienazione; pur, quindi, nel quadro di queste importantissime innovazioni teoriche e politiche volte a conoscere la classe operaia reale – quella in carne e ossa, e non quella desumibile solo dai classici e dai testi sacri – Tronti nell’introduzione dell’Atlante riconosce come sia sostanzialmente stato mancato l’obiettivo di indagare anche la composizione umana della classe operaia. Riconosce, cioè, un limite di appiattimento sociologico o addirittura sociologistico, non in grado di esplorare una dimensione che, al contrario, come egli stesso nota, è stata invece scrupolosamente coltivata dalla borghesia attraverso tutta una serie di forme letterarie – in primis il romanzo – al fine di presentare come “universale”, “magnetico” e quindi “aggregativo” il proprio tipo umano, il suo sistema valoriale e le ambizioni che a esso si riconnettono.
Andrebbero forse indagati alcuni degli aspetti e delle potenziali ragioni di questa mancanza: tra le altre, si potrebbe guardare al difficile rapporto che si stabilisce tra la prima fase dell’operaismo e l’insieme dell’elaborazione gramsciana, la quale, teorizzando la questione dell’egemonia – e quindi un dominio di classe non ridotto semplicisticamente all’aspetto coercitivo – aveva sottolineato e posto con forza il tema del peso degli elementi culturali, politici e di “senso comune” all’interno di un progetto egemonico o contro-egemonico. Può darsi cioè che uno dei motivi della poca attenzione verso quella che Tronti chiama la “composizione umana” della classe sia legata proprio alla sottovalutazione o al misconoscimento dell’impianto teorico gramsciano, sottovalutazione inevitabilmente connessa alla contrapposizione che gruppi intellettuali come quelli dei Quaderni Rossi, di Classe operaia o di Contropiano sviluppano nei confronti di un certo marxismo storicistico, così come verso la lettura e l’interpretazione di Gramsci all’epoca dominante e patrocinata principalmente dal PCI. Una contrapposizione che avrebbe dunque finito per agire da deterrente verso un’incorporazione non solo di quell’approccio, ma più globalmente dei problemi che esso poneva e dell’angolatura da cui lo osservava.
Un’altra pista di ricerca può venire invece dalla lettura delle considerazioni che un intellettuale e un dirigente del movimento operaio particolarmente caro a noi della Fondazione Di Vittorio – cioè Bruno Trentin – sviluppa in quello che può essere considerato il suo testamento politico: La città del lavoro. A partire dalle pagine – di critica aperta – dedicate da Trentin alla corrente operaista, si può forse ipotizzare come una delle ragioni di questa sottovalutazione di elementi culturali, politici, finanche emotivi, possa forse risiedere nell’esaltazione e nella sovrarappresentazione che una parte dell’operaismo compie rispetto alla “immediatezza” della classe: una classe, cioè, concepita e rappresentata come pura, senza storia e senza passato, una “rude razza pagana” naturalmente interessata – per l’appunto – a un solo tipo di lotte: quelle salariali, viste come le sole dirompenti e assolutamente incompatibili con il capitale e con la sua necessità di stretta pianificazione dei processi produttivi. Il vizio originario di questo approccio risiederebbe insomma nella predilezione dell’obiettivo della liberazione dal lavoro rispetto a quello della liberazione del (e nel) lavoro: una predilezione che avrebbe condotto l’operaismo a non essere fedele fino in fondo a uno dei suoi precetti, quello che invitava ad operare “dentro” e “contro” il rapporto sociale di produzione. Privilegiando il secondo termine al primo, e rinunciando così – in base ad una prospettiva escatologica – alla lotta per determinare le forme, il contenuto e le finalità del lavoro (il vecchio tema del cosa, come e per chi produrre), l’operaismo sarebbe perciò stato naturalmente portato a sottovalutare l’insieme delle mediazioni, degli obiettivi intermedi e dei corpi intermedi collocati tra la fabbrica e lo Stato. Un tema che non a caso rappresenta non solo il motivo per cui negli anni Settanta l’indagine e l’attenzione di Tronti cambierà punto focale, concentrandosi sempre più sul “politico”, sulla sua autonomia e sulle sue logiche interne; ma che, più complessivamente, ha rappresentato anche un enorme elemento e motivo di dibattito e riflessione autocritica per una parte rilevante di quella galassia intellettuale (la cosiddetta “destra operaista”), che infatti, parallelamente al suo ingresso nel PCI, sistematizzerà questa riflessione in un convegno (“Operaismo e centralità operaia”, Padova 1978) ancora oggi fondamentale per comprendere fino in fondo le tortuose vicende della sinistra italiana degli anni ‘70. Proprio in quell’occasione, infatti, i protagonisti di quella stagione eretica metteranno l’accento – seppur con modi e tonalità diverse – sulla necessità di recuperare e innestare sull’originario approccio operaista delle categorie teoriche, delle “idee-integrative” capaci di ampliare la visuale dell’analisi e di tenere in considerazione quelle mediazioni e quei punti intermedi precedentemente sottovalutati: sta fondamentalmente qui la ragione dell’apertura e della curiosità di questo settore del marxismo teorico italiano per correnti come il pensiero negativo e della crisi, o per l’opera di Carl Schmitt. Un’apertura in grado di restituire una maggiore ricchezza e profondità a una prospettiva di trasformazione sociale che voleva avere nella classe operaia e nel mondo del lavoro il proprio perno.
Tra l’altro, le vicende altalenanti della cosiddetta “centralità operaia”, che dagli anni Ottanta in poi vede dapprima un suo declinare, e in seguito un suo eclissarsi anche solo come semplice “questione operaia” (e all’origine di questo declino della dimensione politica di questa centralità vi innanzitutto il declino della sua dimensione sociale, certamente connaturato alla transizione post-fordista), conoscendo infine una sua risurrezione, una sua riemersione negli anni più recente, quando cioè a perdere mordente è proprio la visione del mondo irenica e aconflittuale che ha fatto seguito al cambio d’epoca del’89 e che ha rappresentato un po’ la cifra dei decenni successivi: ecco, è proprio questo movimento altalenante, questo percorso quasi carsico, a spiegare il senso più profondo di questo libro, dei contributi e delle testimonianze raccolte al suo interno. Nel loro raccontare – molto semplicemente – delle storie di vita operaia, già solo per questo dato eccentriche e devianti rispetto a un senso comune pervaso dall’immaginario delle smart-up, dall’idea dell’auto-imprenditorialità, o di una società liscia, pacificata, segnata dall’assenza di interessi contrapposti: già il solo raccontare queste storie è, dice Tronti, “un atto di insubordinazione antagonista”, proprio per via della “inattualità” che esprime, per via della sua capacità di essere “deviante” e di segnare una cesura rispetto all’immaginario mainstream. La ricomposizione di questo filo rosso, che collega il vissuto operaio di ieri e a quello di oggi, rappresenta quindi un passaggio fondamentale, come scrive Tronti, “per ricaricare le armi, oggi scariche, del conflitto anticapitalistico”, e per affermare risolutamente che la Storia non è finita.
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