Erano passate poche ora dalla conclusione del Consiglio europeo quando a Mosca un commando terroristico a volto scoperto e armato fino ai denti scaricava Kalashnikov e bombe incendiarie su cittadini intenti a partecipare a un concerto pop in un centro dal nome poco moscovita, Crocus City Hall, in omaggio a un fiore, il croco o zafferano selvatico, tenace al punto di sfidare le nevi nella sua fioritura.
Il bilancio di 137 morti e 180 feriti ha dato il senso della gravità della tragedia che si è aggiunta alle guerre e ai massacri di civili in atto a Gaza, in un crescendo di orrore che toglie il fiato.
Immediatamente l’attenzione si è concentrata sulla matrice dell’attentato che pare sia, per le rivendicazioni che per le modalità di esecuzione, attribuibile all’ISIS-K, Stato Islamico del Levante.
Naturalmente, prima ancora che si capisse lo svolgimento degli eventi, vi è stato chi ha trovato il modo di anteporre i commenti alle notizie.
Commentatori più attenti e riflessivi hanno spiegato che, nell’immensità territoriale, politico etnica e religiosa della Russia, il fatto che la guerra in Ucraina stia assorbendo tutta l’attenzione e le energie politiche e militari ha scoperto il fianco ad altri nemici, quale è per la Russia, appunto, l’ISIS.
Il tempo aiuterà a capire meglio, tuttavia, già si intravedono conseguenze imminenti quali quelle derivanti dal sospetto volutamente reso noto dallo stesso Putin, che, in ogni caso, vi sia un coinvolgimento dell’Ucraina, dato dal fatto che i fuggitivi si dirigessero verso quel confine che è, tra l’altro, anche il confine bielorusso. Sia come sia, l’attentato riporta alla memoria la terribile catena iniziata alla fine degli anni ’90: bombe a Mosca 1999 e 2000, teatro Dubrovka 2002, 2004 anno nero culminato con la strage di 335 morti di cui 186 bambini a Beslan e ancora nel 2011 all’aeroporto Domodedovo, fino al 2017 al metrò di San Pietroburgo.
Poiché uno dei meriti attribuiti al presidente Putin è quello di aver riportato nel Paese una relativa sicurezza, non c’è dubbio che questo tragico episodio, anche per il modo in cui i terroristi hanno potuto colpire, indebolisce il suo carisma e questo potrebbe indurlo ad aumentare la pressione militare, tanto che Dmitry Peskov, suo portavoce, per la prima volta, ha pronunciato la parola guerra riferita all’Ucraina.
Da parte sua il Consiglio europeo, riunito a Bruxelles il 22 e 23 marzo, dava seguito ad alcune misure tendenti alla realizzazione di quella economia di guerra in conseguenza delle posizioni fin qui assunte, e che vedono come unica possibilità l’opzione militare e la riconquista dei territori perduti da parte ucraina, anche se l’andamento sul campo rende questa possibilità sempre più remota.
Nel lessico europeo le parole negoziato, tregua, cessate il fuoco sono state bandite e si segue la linea della riconquista territoriale anche se ormai si è determinato, anche grazie alla guerra, un cambiamento ulteriore che fa coincidere sempre meno popolazione con territorio.
Il Consiglio era stato preceduto da una lettera del suo presidente Charles Michel, il quale, riprendendo il detto latino poco originale e alquanto fuorviante: se vuoi la pace, prepara la guerra, invitava i Governi a predisporsi a dare all’UE un futuro legato al riarmo per una vera e propria economia di guerra.
Esaminando attentamente il comunicato finale del Consiglio c’è da dire che a queste roboanti parole hanno corrisposto più orientamenti che decisioni, il che fa dubitare su quell’unità granitica che si vuole mostrare all’esterno. Inoltre, mentre alcune formulazioni sono chiare – come quelle di voler favorire in tutti i modi le industrie della difesa con soldi pubblici e privati con procedure semplificate e con promesse di occupazione – su altre vi è una opacità di linguaggio indegna di una istituzione democratica, tutta tesa a dissimulare gli intenti quali: “rafforzare e coordinare la preparazione militare e civile alle minacce con un approccio multirischio esteso a tutta la società”. Cosa si vuol dire che non si ha il coraggio di dire?
In sostanza si è deciso di utilizzare lo Strumento europeo per la pace (sic) per l’8° pacchetto di finanziamento all’Ucraina; di prendere in considerazione la possibilità di utilizzare i sovraprofitti derivanti dai beni russi bloccati, sempre allo scopo di finanziare armamenti per l’Ucraina oltre a una sua ricostruzione eventuale; chiedere agli Stati di aumentare in modo “sostanziale” la spesa per la difesa; riferire entro giugno circa la possibilità di utilizzare in questo campo le risorse BEI (Banca Europea per gli Investimenti); favorire appalti congiunti per le forniture militari; il tutto in modo complementare alla NATO che rimane il fondamento della difesa Europea.
Chi vagheggia che il riarmo possa rendere più autonoma l’UE riceve una ennesima delusione.
Sulla situazione a Gaza non vi è stata alcuna novità sostanziale in una posizione che appare di routine e molto distante dal dramma che si sta consumando. Il documento chiede “una pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile” cui non si accompagna alcuna pressione sul governo Netanyahu. Purtroppo anche in quel quadrante l’UE conta sempre meno: mai considerata da Israele se non come “pagatore” e sempre meno vicina al mondo palestinese che, nel frattempo, si rivolge ad altri interlocutori.
Questa è l’Europa dei Governi ma non è l’unica possibile.
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