Ancora guerra. A poche migliaia di kilometri da casa nostra, annunciata, guerra prima mediatica e ora guerreggiata, che fa ripiombare l’Europa nella memoria di tempi che si pensavano ormai relegati alla storia. Fatta di propaganda, di tentativi negoziali che si accavallano e si sgonfiano nello spazio di poche ore, civili in fuga, e civili in armi, la potente macchina bellica russa dispiegata con tutta la sua forza distruttrice. Un popolo che resiste con le armi in pugno. Un paese, o meglio un presidente Vladimir Putin, che decide di scatenare la guerra totale contro l’Ucraina, per “denazificarla” giustificando l’intervento per mantenere la pace, e prevenire quello che viene definito un genocidio contro le popolazioni russofone del Donbass. Province da lui riconosciute come indipendenti prima di decidere di sferrare l’offensiva militare e dopo aver già annesso a suo tempo la Crimea.
Colpisce il ricorso al diritto all’ingerenza umanitaria (la cosiddetta “responsabilità di protezione”) per evitare crimini contro l’umanità spesso preso a pretesto dalla NATO per intervenire in passato in altri paesi, in maniera unilaterale, con l’obiettivo finale di indurre un cambiamento di governo o regime. Con il risultato di aver creato le condizioni per conflitti a bassa intensità, o vere e proprie guerre civili. E l’Ucraina, con le sue convulsioni interne, ma con un popolo che a stragrande maggioranza si sente europeo, e aborre la sola idea di poter ritornare sotto il controllo di Mosca. Un paese che soprattutto la NATO ha ostinatamente voluto considerare come avamposto privilegiato per creare un cordone sanitario volto a contenere possibili mire espansionistiche russe. Un paese la cui vocazione proprio in quanto paese di frontiera, stato cuscinetto, avrebbe dovuto essere quella di un paese neutrale, con diritto di mantenere relazioni con la Russia e con l’Europa. Ma che invece insisteva nel chiedere l’ombrello protettivo della NATO. Quando c’è una guerra è come il tango, ci vogliono due persone per ballarlo. E questo significa aver chiaro quali siano le poste in gioco di ambo le parti. Per Putin probabilmente la battaglia della sua vita, nella folle illusione di ridisegnare la geografia e la storia, e che potrebbe segnarne invece la fine. Per l’Ucraina, la lotta per la sopravvivenza in quanto stato. Su questo sfondo è necessario un esercizio di verità. Già perché anche altro va detto, ossia che da una parte l’aggressione sferrata da Putin è un crimine contro l’umanità, una chiara violazione del diritto internazionale, del dovere di non ingerenza, del diritto alla autodeterminazione, dell’obbligo alla risoluzione pacifica delle controversie. Questo però non esime dall’indicare anche le corresponsabilità da parte di chi, pensando di poter trarre vantaggio da una supposta “debolezza” del gigante russo, perseguiva da anni l’obiettivo dell’allargamento della NATO ad est, e decideva di fornire i paesi NATO di armi e strumenti sempre più sofisticati, quali ad esempio i cacciabombardieri invisibili F35 a capacità nucleare, che potrebbero trasformare paesi come l’Italia in potenze nucleari capaci di sganciare bombe atomiche fin dentro il cuore della Russia. Mai come ora l’Europa si trova a dover far i conti con l’eventualità, seppur remotissima, di un uso di armi nucleari sul suo territorio, all’indomani dell’annuncio da parte di Putin della decisione di mettere in stato di preallerta i propri arsenali atomici. Mossa disperata dovuta alle difficoltà incontrate dalle sue truppe sul terreno? Azzardo per alzare la posta in un eventuale negoziato? O forse una mossa del tutto irrazionale e per questo non meno pericolosa? Una situazione inedita che dovrebbe ancor più richiamare l’urgenza di rivedere alle fondamenta le basi della “sicurezza” in Europa, rilanciare un processo simile a quello di Helsinki di 45 anni fa, che offrì uno spazio di dialogo e reciproca comprensione, di negoziato e diplomazia per porre fine alla guerra fredda. Una Helsinki 2.0 di paesi e popoli per evitare una seconda guerra fredda. Un processo di “demilitarizzazione” dell’intero continente al quale il nostro paese non potrà contribuire se non inizia per primo, ad esempio, dicendo no alle nuove bombe atomiche USA che a breve verranno installate nelle basi di Ghedi e Aviano. E delineando per la propria politica estera un approccio radicalmente diverso, che faccia della neutralità attiva la prospettiva ultima.
Nel frattempo, però, per le strade di Kiev e delle altre principali città ucraine, si muore, si combatte, si delinea uno scenario simile a quello siriano, una, dieci Aleppo a poche ore di volo da casa. I bombardamenti massicci contro civili sferrati dalla Russia contro Kharkyv mentre i negoziatori del Cremlino si incontravano con quelli di Kiev per provare ad aprire un negoziato ne è la riprova. E le prospettive attuali di un ulteriore imbarbarimento del conflitto non lasciamo molto spazio alla speranza. Che negoziato sarebbe possibile mentre piovono bombe? Alle porte dell’Europa bussano centinaia di migliaia di profughi che chiedono asilo, e fuggono dalla morte. Sono state varate durissime sanzioni economiche per la Russia, al fine di ridurre il paese in una situazione disastrosa, con l’obiettivo di indurre Putin a cessare le ostilità e tornare al tavolo della trattativa. La loro efficacia è ancora da dimostrare. L’alternativa infernale è quella di andare a combattere e morire per Kiev. Con il rischio enorme di un conflitto devastante che andrebbe ben oltre i confini ucraini. E che di fatto già si sta allargando con la decisione di vari paesi europei tra cui l’Italia di inviare armi e attrezzature belliche all’Ucraina. Perché ciò, di fatto, equivale ad entrare nel conflitto, seppur in sostegno al diritto di resistenza all’aggressione, e per interposta persona, senza mettere “scarponi sul terreno”.
E noi? Comuni mortali inorriditi dalla guerra, che possiamo fare? Riprendere la parola, quando sembra che l’unica parola possibile sia quella della logica della guerra. Riprenderla anche se risulta spesso arduo, complicato tenere assieme il rifiuto di tale logica e la necessità di assicurare l’incolumità di civili inermi. Riprendere parola quando le nostre parole non bastano più, e il loro suono rischia di rimanere strozzato nel profondo delle nostre gole, serrate dall’orrore. Tenere alta la voce del ripudio della guerra, ovunque questo sia possibile, dare voce a chi in Russia si oppone a questa folle avventura, non lasciarli soli alla mercé della repressione. A migliaia sono scesi nelle piazze per gridare la loro opposizione alla folle avventura di Putin, sfidando la repressione e il carcere. E a migliaia sono stati tratti in arresto. Tuttavia, le voci critiche in Russia si moltiplicano. Tra queste quelle di intellettuali, attivisti, movimenti femministi, personalità del modo della cultura e dei media, e non solo quelle degli “oligarchi” che temono di dover soffrire più di tutti le ricadute delle sanzioni economiche che di fatto hanno trasformato la Russia in un “pariah” della comunità internazionale. Amplificare la voce dei russi che non vogliono la guerra, che chiedono democrazia e libertà dovrebbe essere uno dei compiti principali, assieme al sostegno e alla solidarietà concreta alle popolazioni ucraine. Dai movimenti sociali ucraini arrivano richieste esplicite di fondi per aiuti umanitari, per sostenere i civili vittime di questo nuovo terribile conflitto. E poi ascoltare e dar voce agli ucraini che qua a casa nostra vivono e lavorano, che curano ed assistono i nostri anziani, che lavorano qua, e ora sono lontano da casa nell’angoscia. Una parola un gesto di gratitudine e solidarietà anche per loro. E poi prepararsi all’accoglienza, al rifugio per chi fugge. Oltre a riprendere, diffondere e sostenere le proposte e richieste dei movimenti pacifisti, tra cui lo stop all’escalation, un cessate il fuoco immediato per ritornare a trattare, e come proposto da più parti l’invio di un contingente di peacekeeping ONU (soluzione al momento complicata visto lo stallo delle discussioni nel Palazzo di Vetro) possiamo senz’altro fare altro.
Sta a noi tenere, ad esempio, alta la guardia sulle ricadute della guerra a casa nostra, in un paese già duramente provato dalla pandemia e che si troverà a dover fare i conti − dopo quelli della pandemia − con gli impatti economici di tali sanzioni. Ricadute che riguardano, ad esempio, la crescita delle spese militari e dell’industria degli armamenti o il deragliamento del percorso verso la transizione ecologica e la decarbonizzazione del paese, conseguente alla riapertura delle centrali a carbone e il rilancio del nucleare “pulito” come possibile fonte alternativa di approvvigionamento energetico per non dover subire in futuro il ricatto del gas russo.
La guerra, come disse Jean Baudrillard all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, è la continuazione dell’inesistenza della politica con altri mezzi. La politica dei governi e delle superpotenze ci ha portato a questo. La politica dei popoli, quella quotidiana della solidarietà, della diplomazia popolare, se non riusciranno a fermare la guerra, per lo meno terranno accesa una speranza di umanità.
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