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Intervento pronunciato all’incontro “La pace, la guerra” del ciclo “Pietro Ingrao. La figura e l’opera a dieci anni dalla scomparsa”, tenutosi a Roma presso la Sala Giulio Cesare del Campidoglio il 22.10.2025.

Nel 2003 Pietro Ingrao raccoglie in un volume dal titolo significativo, La guerra sospesa. Nuovi connubi tra politica e guerra (edizioni Dedalo) alcuni testi, scritti tra il 1980 e il 2003. Nell’Introduzione li definisce “un abbozzo di ricerca su come, con quali cogenze è tornata la guerra sul globo”.

Letti oggi offrono un contributo prezioso per la comprensione degli eventi e per gli interrogativi, le cogenze appunto, che pongono a chi voglia operare per una politica di pace.

Ne indico alcuni, prendendo innanzitutto a riferimento la Dichiarazione di voto alla Camera, dell’agosto 1990, in dissenso dal suo gruppo, contro il coinvolgimento dell’Italia nella guerra all’Iraq (Perché sono contro la guerra, p. 81-85).

Il primo è l’esaltazione delle nuove armi intelligenti, in grado di colpire gli obiettivi militari, senza provocare i cosiddetti “danni collaterali”, distruggendo territori ed esseri umani. È quella che, in altro testo, Ingrao chiama “l’illusione della guerra celeste”: “lo spazio celeste è il grande alto luogo dove si definisce la possente mutazione […] un distacco dalla materialità confusa della Terra, dei suoi nomi, dei suoi depositi storici, di lunga storia” (Fortuna e problemi della “guerra celeste”, p. 113). Quell’illusione è presto destinata ad infrangersi nello scontro armato a terra. Ma ha modificato la percezione diffusa della guerra, e tuttora persiste.

La “guerra celeste” si è intensificata e impiega armi sempre più sofisticate – basti pensare ai droni – dalle quali è sempre più arduo difendersi da parte dei civili. Ma soprattutto, osserva giustamente Ingrao, “è figlia di un enorme avanzata tecnologica […] neppure riusciamo a misurare la soglia a cui può approdare il sapere dell’uomo nell’arte umana dell’uccidere” (ivi, p. 114). Questo richiede più sapere, un nuovo sapere nella lotta alla guerra e più imperioso, e arduo, l’obiettivo del disarmo. Viceversa, va registrato “un grave ritardo” delle strategie politiche per la pace e per l’emancipazione umana sui nuovi nessi tra scienza, economia e politica” (ivi, p. 116).

Un secondo, attualissimo, interrogativo sollevato da Ingrao nella Dichiarazione di voto è sul ruolo dell’ONU. Con l’atto unilaterale dell’intervento americano si è persa l’occasione “necessaria e preziosa” di “dare finalmente all’ONU un ruolo sostanziale ed effettivo nel governo dei conflitti mondiali”. (Perché sono contro la guerra p. 81). Al contrario, con l’affermazione della supremazia USA e la rivendicazione della guerra preventiva si è estesa la paralisi e l’impotenza dell’ONU. E ne vediamo oggi le tragiche conseguenze.

Invece di costruire un nuovo ordine è prevalso un diritto che si vuole forte contro chi interferisce con i propri interessi – Saddam – ed è “opaco, pallido quando si tratta dei palestinesi, del Libano o di Panama” (ivi, p. 83).

Con la dottrina della guerra preventiva diviene assurdo l’impegno solenne dei vincitori del 1945, quel “mai più la guerra” scritto nella Carta dell’ONU, il ripudio sancito nella Costituzione italiana. “Noi non possiamo e non dobbiamo liquidare – addirittura senza dirlo! – la Costituzione italiana”; “abbiamo diritto di chiedere conto del rispetto dell’art. 11: quel passo della Costituzione che parla di pace e di guerra e ragiona su eventi che per i cittadini possono significare la vita o la morte” (Attualità dell’art. 11: l’Italia ripudia la guerra?, p. 108). La rimozione silente di quell’impegno, ripropone la politica del riarmo, oggi al centro delle scelte europee.

Con la guerra del Kosovo la guerra torna sul suolo europeo, “nei luoghi da cui era partita nel ’14 la prima scintilla” (Fortuna e problemi della “guerra celeste”, p. 110). Con l’intervento della NATO in Kosovo si dilata l’atlantismo, in nome dei valori occidentali da estendere al mondo. E si compie un ulteriore salto nella riabilitazione e normalizzazione della guerra con l’ossimoro della “guerra umanitaria”. Il ricorso alle armi non è più una necessità dolorosa, ma un intervento fecondo per l’affermazione e l’estensione dei fini più alti: democrazia, diritti, libertà.

La guerra si è insediata nel cuore della politica, ha vinto nel pensiero e nell’azione. E pone a Ingrao l’assillo di contrastare questa riduzione della politica. È in questione il senso e la possibilità di fare politica che lo ha impegnato nel corso della sua vita.

“Politica per me è questo: io e altri insieme, soggetti politici collettivi e non precostituiti da una qualche provvidenza, ma cresciuti nel conflitto storicamente determinato in atto. Fuori di ciò non saprei fare politica. Dico di più: francamente non vedo perché dovrei interessarmi di politica” (Contro la riduzione della politica a guerra, p. 90).

Come incidere sul nesso stringente tra forza, potere e politica è il problema urgente, lancinante, del che fare non affrontato dal movimento per la pace. È necessario recuperare la funzione positiva del conflitto, sganciandosi dall’opposizione amico/nemico, sfuggendo all’alternativa tra pace impolitica e politica guerriera.

Non con una utopica cancellazione della forza, ma con la costruzione di forme, scelta di terreni e strumenti in grado di far crescere il protagonismo delle grandi masse. È una scelta realistica, poiché è questa la politica che ha prodotto le trasformazioni sociali e culturali più significative nel Novecento.

Come, quando si è prodotta la frattura tra la politica agita in prima persona e la politica delle istituzioni, delle sedi decisionali? Rilanciare la possibilità di agire “io e altri insieme” resta la politica da praticare contro la guerra. Non si può affidare alla vittoria militare la pace, né confidare nella diplomazia, visti gli attori in campo.

Per non subire, imprigionati nelle menti e nei corpi, il corso ineluttabile degli eventi, dovremmo fare uno sforzo di invenzione sulle forme di lotta per la pace.

Chiudo con alcuni versi di una poesia di Ingrao del 2008, fino a pochi giorni fa inedita e pubblicata da Alberto Olivetti su il manifesto. Da un appunto di Ingrao apprendiamo che è stata scritta pensando al “groviglio storico” del conflitto tra Israele e Palestina. Un conflitto che non sembra destinato a sciogliersi; di certo non con gli accordi e le tregue proposte da Trump e Netanyahu. Ne riprendo le ultime strofe.

Voi
così senza speranza
se soltanto
l’assassinio di massa può assicurarvi la vita
e solo le maledizioni e le lacrime
possono difendervi.
E non vedete, non sperate
altra salvezza
per l’uomo e per il figlio dell’uomo
che la morte corale.
Voi che venite da un cammino di lacrime
e ora senza lume di tregua
seminate nuovo pianto innocente.

Noi che veniamo da lotte di secoli
condotte per tutte le terre infinite di questo globo
rotondo
in cui dato a noi
fu di vivere,
e sembriamo ora
solo capaci
di educarci all’indifferenza. O scrutare allibiti.

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Un commento a “Contro la riduzione della politica a guerra”

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