Intervento all’iniziativa organizzata dal CRS “Fare o disfare l’Europa”, tenutasi il 16 marzo 2024 a Roma.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito, con una accelerazione progressiva, a una deriva che, nei paesi che fanno riferimento a un sempre più indefinito Occidente sposta a destra non solo l’asse della politica, ma anche quello sociale e quello culturale.
Per destra intendo un orizzonte improntato all’autoritarismo, alla repressione del dissenso, a un razzismo sempre meno velato, alla legittimazione delle differenze economiche e sociali – anche quando sono gigantesche – a una politica nazionalista e sovranista – anche se pienamente compatibile con la dimensione globale del mercato – e ora sempre più impegnata in armamenti, belligeranze e guerre.
Non si tratta di connotati peculiari delle destre. Sono orientamenti presenti anche in molte componenti sociali e politiche che si rifanno alle sinistre storiche o a quel che ne resta, sempre comunque in forme meno esplicite, meno ostentate e spesso meno consapevoli.
All’origine di questa deriva o, comunque, come suo denominatore comune, c’è la paura o il rigetto dei migranti, il programma di fare argine ai loro flussi crescenti anche con misure esplicite di respingimento.
Ma all’origine di queste paure e di questo rigetto c’è una percezione vaga, e spesso apertamente negata, di una crisi climatica e ambientale incombente.
La sensazione è che in questo mondo non ci sia più posto per tutti e che la globalizzazione abbia di fatto spalancato le porte a una folla sterminata di persone, gruppi e popoli che cercano, per costrizione o per scelta, un posto lontano da territori che non li vogliono più.
Sono paure e percezioni vaghe ma giuste, commisurate alle dimensioni della crisi climatica e ambientale che incombe. Viceversa, con l’eccezione dei pochi scienziati impegnati direttamente sul fronte di questa crisi, l’atteggiamento che prevale tra politici, media, accademici e intellettuali che si confrontano con questo problema è di assoluta sottovalutazione degli effetti ormai irreversibili che la crisi ambientale e climatica imporrà alle nuove generazioni, a partire da quelle già presenti su questa Terra.
Comunque vada non ci sarà certo un cambio di rotta subitaneo a livello mondiale. Le emissioni climalteranti continueranno e supereranno il budget disponibile per fermare il riscaldamento globale a +1,5 °C. Ci siamo già arrivati quest’anno! Ma se anche cessassero domani, la Terra continuerà comunque a riscaldarsi per anni. Calotte polari e ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello degli oceani ad alzarsi sommergendo milioni di chilometri quadrati di terre emerse, i fiumi a non ricevere più acqua e il permafrost a emettere metano nell’atmosfera, innescando un feed-back positivo. Gli eventi estremi – uragani, alluvioni, grandinate, ondate di caldo, siccità e incendi – sono destinati a moltiplicarsi.
Prima che tutti i governi, le imprese, le città, i produttori e i consumatori del mondo siano costretti, dalla violenza degli eventi avversi più che da accordi a livello internazionale, nazionale e locale, a rinunciare a far uso degli idrocarburi sepolti in quella cassaforte che chiamano Terra, questa avrà avuto tutto il tempo di andare in rovina.
Sono già cambiate, e continueranno a cambiare, le correnti sia dell’atmosfera che degli oceani e con esse il “tempo”, quello locale, sul cui andamento siamo abituati a organizzare la nostra vita quotidiana. Cambierà anche questa, volenti o nolenti.
Le comunità, grandi o piccole, che sapranno attrezzarsi per adattarsi a condizioni di vita sempre più ostiche – una vita più sobria, ma anche più ricca di relazioni e di esperienze – faranno da apripista a quelle che, bene o male, dovranno seguirle; pena la loro scomparsa.
Ma chi si occupa di delineare e far conoscere gli scenari del nostro pianeta di qui a non molti decenni a venire? Per quel che ne so, quasi nessuno.
Secondo Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) entro la fine del secolo la metà più popolata del pianeta sarà inabitabile per le temperature troppo elevate o perché sommersa dal mare. Ci saranno centinaia di milioni, forse miliardi di profughi e migranti che cercheranno scampo nella metà del pianeta ancora vivibile, soprattutto quella settentrionale, resa forse più fertile dallo scioglimento del permafrost e dal riscaldamento globale. Ma Gaia Vince non fa i conti con le fobie antimigranti attizzate ormai in tutti i paesi di immigrazione: dalla Svezia alla Tunisia, dal Myanmar all’Australia, dagli Stati Uniti al Giappone; per lei le migrazioni sono positive sia per chi le intraprende che per chi dovrebbe accoglierle. D’altronde si tratterebbe di vicende provvisorie, perché per Gaia Vince sul lungo periodo la geoingegneria riuscirà a riportare il pianeta nelle condizioni iniziali.
Lo scenario delineato da Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023) non è differente: ma è più articolato nel delineare la situazione di ogni singola area del pianeta e nel definire le chances delle diverse categorie e classi sociali della popolazione terrestre. Per entrambi gli autori, comunque, non c’è alternativa alla migrazione di miliardi di esseri umani nei decenni a venire: per Khanna sono già oggi avvantaggiati – e lo saranno sempre di più – i giovani delle generazioni x e z (“millennials” e successive), più propensi a cambiare paese e lavoro, anche più volte, e forniti di competenze spendibili ovunque; resterà indietro, costretta a spostamenti non programmati, la massa dei non qualificati.
Resisteranno allo svuotamento, e attireranno anzi competenze, grazie all’aria condizionata, alle colture idroponiche, ai desalinatori, alle energie rinnovabili e, ovviamente, al denaro, anche alcune enclave, come i paesi del Golfo, collocate nelle fasce del pianeta più esposte alla crisi; ma il grosso dei movimenti si dirigerà verso le regioni subartiche, liberate dai ghiacci.
La tecnologia offre – secondo Khana – la possibilità di ricollocare tutti, ma occorrerebbe pianificare quei movimenti e, prima ancora, accettarli come inevitabili; cosa che secondo lui possono fare solo gli Stati, e che adesso non fanno. Anzi, si muovono in una direzione contraria, ma di breve respiro e impercorribile. Purtroppo, un programma che affronti alla radice il problema non può essere affidato a nessuno degli attuali governi.
Non si tratta di vaneggiamenti; fin dal 2004 il Pentagono aveva redatto un documento, poi fatto scomparire, per sostenere che i paesi “sviluppati” dovevano prepararsi a una guerra senza quartiere contro le ondate di profughi che avrebbero cercato di sfondare i loro confini a causa della crisi climatica. Quelli che non lo avessero fatto erano condannati a soccombere (Andrew Marshall: Rapporto al Pentagono sul Clima, 2004, https://www.peacelink.it/ecologia/a/3252.html).
Ecco da dove nasce il progetto, mai esplicitamente enunciato, di “Fortezza Europa”: dalla convinzione che in questo mondo non c’è più posto per tutti. Quello che in realtà viene prospettato dai razzisti di “Fortezza Europa” e di molte altre fortezze – senza dirlo; nascondendosi, al contrario, dietro professioni di negazionismo climatico – è lo sterminio, per abbandono o per aperto contrasto, di più della metà della popolazione mondiale. Le campagne e le misure contro i profughi e migranti “clandestini” di oggi servono ad abituarci a queste stragi, a coltivare la nostra indifferenza.
Ormai è chiaro che il riscaldamento globale non verrà contenuto entro i limiti che la COP 21 di Parigi si era dati. E nemmeno verranno rispettati gli altri limiti planetari nei molti ambiti in cui si è prossimi o si è già superata la capacità di carico del pianeta. Abbandonare la lotta contro il collasso del pianeta alle attuali classi dirigenti è una scelta suicida. Che cosa attenda veramente le future generazioni è difficile a dirsi: niente, comunque, di buono.
Proprio per questo, forse, senza abbandonare il perseguimento degli obiettivi generali, enunciati e mai perseguiti, di mitigazione della crisi climatica e del dissesto ambientale – cioè tesi a ridurne le cause – quelli che gli scienziati di tutto il mondo hanno ormai resi ben chiari, la strada da percorrere per riconnetterli alle preoccupazioni della vita quotidiana sembra essere soprattutto quella dell’adattamento.
Ovviamente, così come non si può più dare credito a una mitigazione gestita attraverso meccanismi di mercato, occorre combattere con tutte le forze l’adattamento gestito dall’alto attraverso soluzioni tecnologiche tese a “compensare” gli effetti e non a contrastare le cause della crisi climatica.
L’adattamento con cui fare fronte alle peggiorate condizioni di vita che attendono le future generazioni non può che essere gestito dal basso: in forme che comunque contribuiscono anche alla mitigazione della crisi.
Mano a mano che si moltiplicano eventi climatici estremi, e che i territori degradati non sono più in grado di assorbirli o neutralizzarli, i membri delle comunità colpite sono, e saranno sempre di più, sospinti, ciascuno e ciascuna con le proprie motivazioni e per le proprie vie, ma pur sempre in un contesto di condivisione, a reagire: prima per contenere e rimediare ai danni; poi, forse, per prevenirli. Lo abbiamo constatato in occasione di alcuni dei disastri ambientali che hanno colpito la nostra penisola.
A patto di riuscire a individuare i mezzi da impiegare e soprattutto la strada da percorrere. Cioè pratiche e lotte che possono svilupparsi solo attraverso aggregazioni e coalizioni territoriali, in rete tra loro, a partire dai bisogni più immediati.
Solo quelle aggregazioni – che necessariamente si potranno sviluppare solo in forme discontinue, “a macchia di leopardo”, ma che avvertiranno immediatamente la necessità di mettersi in rete per sostenere progetti, programmi e rivendicazioni di carattere generale – possono permettere di costruire le forze per perseguire dei risultati, ancorché parziali e locali, che concorrano però a far fronte alle minacce più generali, in ambiti come: la riduzione del consumo di suolo e del dissesto idrogeologico; la promozione di un’agricoltura di prossimità e di una alimentazione conseguente; l’introduzione di sistemi di mobilità condivisa capaci di sostituire l’orda delle auto private – elettriche e non – che la crisi ambientale renderà insostenibile (non in termini generali e astratti, ma per ciascuno di noi). E così, via via, per tutti gli altri “servizi”: acqua, elettricità, connessioni, rifiuti, sanità, istruzione.
Potrebbe diventare necessario riportare sul territorio quelle produzioni e quelle attività che rispondono maggiormente ai bisogni più elementari che possono essere svolte in loco. Ma, soprattutto, si dovrà lavorare per creare un ambiente in grado di accogliere e restituire un futuro ai milioni – forse, domani, miliardi – di uomini e donne, vecchi e bambini, che non ne hanno più a disposizione uno vivibile.
In un mondo che pratichi l’eguaglianza, o che lavori per affermarla, c’è posto per tutti.
In alcuni casi contrastare e invertire il deterioramento dell’ambiente anche in presenza di una crisi climatica che avanza sembra ancora possibile. A patto che si adotti anche nelle aree più colpite un approccio fondato sull’iniziativa locale e dal basso.
Molte delle terre inaridite e devastate possono ancora essere risanate, rimboschite, irrigate, coltivate, con tanti progetti grandi e piccoli come quello, per metà abbandonato, della grande cintura verde del Sahel; rinforzando o ricostituendo le comunità locali come presidio del risanamento del loro territorio.
Ma chi può farsi protagonista di una svolta del genere se non l’iniziativa dei migranti che raggiungono l’Europa, se venissero accolti, inclusi, formati e arricchiti delle relazioni con le comunità che li ospitano, e messi così in condizione sia di poter tornare volontariamente alle loro terre di origine – cosa che la maggior parte di loro desidera – ma anche di rientrare quando vogliono nel paese in cui si sono rifugiati? E chi può progettare meglio il futuro del proprio paese e lottare di più contro chi lo sta riducendo a un deserto e a un inferno politico se non la comunità degli espatriati che ne sono fuggiti? Certo la guerra, la militarizzazione del mondo e la vendita di armi ai dittatori, come lo sfruttamento senza limiti dei loro paesi, non aiutano. Ma questi sono problemi che riguardano innanzitutto noi.
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