La ‘cultura estetica’ rappresenta il carattere saliente del nostro tempo, e il frammento – che costituisce la sua struttura fondamentale – si ritiene ormai superabile, e cioè ricomponibile, solo in epopee immaginate senza luogo e tempo definiti, volgendo lo sguardo esclusivamente all’indietro o davanti, nel mondo e nel sogno della ‘totalità perduta’, senza mai connettere, oggi, neanche di fronte alla brutalità della guerra, criticità e trasformazione, per porre fine a questa situazione catastrofica e inaccettabile. Ecco, dunque, come un diverso mondo – idealizzato – possa divenire il centro della nostalgia traendo origine dalla condizione di frantumazione del nostro presente: questa scissione, cioè, si ricomporrebbe nella memoria dei ‘tempi beati’ all’interno dei quali – si dice – anima e mondo, uomo e Dio, filosofia e poesia avrebbero costituito un tutt’uno. La cultura contemporanea – e dunque la cultura estetica – in una parte rilevante di coloro in grado ancora di ricordare l’oblio della totalità, e di anelare conseguentemente alla ricostituzione di un mondo oltre la frammentazione, rivolge il proprio sguardo all’indietro: il proprio luogo diviene l’immagine di quel mondo ideale in cui ciò che, nel presente, si è perduto, da un’altra parte, invece, si era compiutamente rivelato. Ma la problematizzazione della nostra epoca, se assunta fino in fondo, conduce in direzione della problematizzazione di qualsiasi mondo, e cioè se in questa crisi davvero ci si inabissa, se davvero si assume fino in fondo il momento storico-filosofico che ci appartiene e che ci è dato vivere, anche il passato, i tempi storici che furono, cambiano abito. Perché anche quei mondi, infatti, se osservati da qui, e dunque fuori di idealizzazione, rivelano il loro carattere luciferino, e cioè il loro costituirsi anch’essi traendo origine dalle caratteristiche di estraneità e scissione. La crisi del contemporaneo, insomma, conduce all’interrogazione sull’essere umano, la radicalizzazione del problema storico presente conduce alla domanda se in essa – nella storia – da qualche parte vi sia mai stata redenzione. Quei mondi idealizzati, assunti nella loro realtà, erano realmente ricomposti e con quali modalità? E, ancora, per noi che abbiamo vissuto solo nella condizione di scissione, ci si chiede se tale condizione di frammento sia insuperabile. Insomma, per ogni momento storico-filosofico mondi diversi, forme diverse, ma quando il nostro lo si assume fino in fondo – e si guarda il mondo a partire da qui – quell’elemento di scissione sembra rendere spurie, pur nella diversità dei tempi, anche quelle epoche che si definivano come compiute. La nostalgia, piuttosto, quando utopizzata, e non assunta in un proficuo dialogo con il presente, diviene dunque espediente per non morire, ‘arte della sopravvivenza’: ciò che permette di evitare la catastrofe rifugiandosi nella proiezione di mondi non-problematici. La dichiarata estraneità al proprio momento storico-filosofico è il tentativo di eludere la frammentazione: ma essa, in realtà, non fornisce alcuna salvezza, è un velo – che tenta di gettare ponti sull’abisso – alla presa in carico dell’estraneità tra anima e mondo, in questo tempo radicalizzata al punto da coinvolgere la storia dell’essere umano tout court.
Questo è uno dei primi elementi fondamentali della cultura contemporanea: la perdita di quel proficuo dialogo tra passato e presente. Considerarli alla stessa stregua, alla stessa altezza storico-filosofica, finendo per confonderli. Il passato non è qualcosa che si assume nella sua realtà – con tutte le sue contraddizioni – nel tentativo di comprendere quali siano gli elementi che possano entrare in un proficuo dialogo con i nostri tempi, bensì si assume come carne morta, immobilizzata. Il tentativo non è quello di andare a fondo alla propria condizione di frammento, inabissandosi in esso e simultaneamente andando alla ricerca nella storia di punti di contatto, bensì di eludere se stessi proiettando la propria immagine in ‘tempi beati’. Questo significa abdicare alla ricerca della ‘totalità perduta’, abdicare alla possibilità di mettere in forma la propria condizione di perdita di immanenza del senso: piuttosto ci si rifugia nell’‘esisteva un mondo da qualche parte’ e così invece di andare alla ricerca di ciò che si è perduto si vive nell’immagine idealizzata di ciò che fu.
Questo costituisce un versante di questa cultura, un solo lato che ci aiuta a comprendere, in realtà, elementi della sua struttura fondamentale. La cultura estetica contemporanea – quella a cui noi apparteniamo – nelle sue molteplici parti è unificata dall’impossibilità di approdare a una critica radicale che la destrutturi dall’interno anelando al suo superamento in direzione di qualcosa di altro: qualsiasi critica, infatti, sembra non in grado di cogliere o colpire alcun centro. Una cultura apparentemente antitetica, frammentata in miriadi di parti, ma in realtà che si costituisce come un tutt’uno in grado di inglobare in sé la possibilità del conflitto. Il ‘pensiero di parte’, il ‘punto di vista sul mondo’, quando decide di uscire dal suo isolamento e farsi carico delle ingiustizie, si consuma: il suo fuoco diviene immediatamente ‘flatus vocis’. Insomma, la contrapposizione – anche quella che sembra essere più radicale – sembra essere anch’essa parte della tesi di un mondo che diviene non conoscendo mai l’antitesi. La critica, dunque, è sempre dentro il movimento, impossibilitato a destrutturarlo: ciò che resta è un solo mondo – seppur apparentemente suddiviso in molteplici parti. Cogliere il momento storico-filosofico, decidere di esser parte della ‘Storia’ (o della sua mancanza), fuoriuscire dalle immagini idealizzate dei ‘tempi beati’, non significa, dunque, superarlo, bensì attendere la venuta di una nuova epoca inabissandosi, tuttavia, nella nostra, e dunque in questo movimento eterno, continuo, seppur pieno di maschere apparentemente in conflitto che sembrerebbero indicare il contrario.
Questo è lo sfondo – il ‘Nemico’ – e all’interno di esso vi sono varie figure che accolgono questo movimento fondendosi con esso: non solo esse sono impossibilitate a superare l’oblio bensì anche questa perdita sembra esser definitivamente scomparsa dalla memoria. Questo è probabilmente il nucleo profondo della ‘cultura estetica’: la dimenticanza della perdita, la scomparsa della consapevolezza della strutturale estraneità tra anima e mondo, forma e vita. Per approfondire, dunque, la nostra cultura contemporanea abbiamo preso in prestito le parole di uno dei più acuti filosofi della crisi – il giovane Lukács – il quale arrivò a definire quella ‘Kultur’ in disfacimento dei primi anni del novecento che si preparava alla grande guerra come ‘cultura estetica’. La crisi di quel mondo tuttavia – è bene ricordarlo – non è equiparabile alla crisi del nostro mondo: diversa l’epoca, diverso il momento storico-filosofico, diverse le modalità di inabissarsi in esso e prendersene carico. Il mondo di Lukács era un mondo che sfaldava qualcosa e in cui dunque la crisi aveva un suo significato positivo perché si costituiva dentro il mondo, contro il mondo – non fuori di esso – e dunque era portatrice di rivolgimenti, di speranze nel ritrovare il lato fecondo della catastrofe, di future rivoluzioni. Nel nostro mondo, invece, si può parlare di crisi di qualcosa? O, piuttosto, qui la crisi ha un significato esclusivamente passivo, negativo? E cioè la consapevolezza di esser fuori dalla storia: l’impossibilità di catastrofi, speranze, rivolgimenti e rivoluzioni. I ‘mondi della crisi’ non sono tutti uguali – la crisi che preannuncia a non è la crisi di chi si percepisce come destinato in. Tra noi e Lukács vi è dunque una voragine – la voragine costituita dal divenire storico, dal passaggio da un momento storico-filosofico a quello suo successivo. Ma è proprio tenendo conto di questa distanza che il dialogo ritorna possibile: nessuna nostalgia idealizzata del passato né, tantomeno, dissoluzione della storia, dialogo fecondo, piuttosto, che colga nella distanza tra mondi le possibili affinità.
La ‘cultura estetica’ è il riflesso più luminoso di questo mondo e i tipi umani che la compongono perpetuano questo circolo, apparentemente impossibilitato a spezzarsi, riconoscendosi nell’appartenenza ad esso. Il giovane Lukács ritrovava nelle figure dello specialista e dell’esteta i simboli di questo mondo in crisi, i discendenti prediletti di questa cultura. Esteta è colui che sposa il mondo del frammento senza tuttavia anelare a un suo possibile superamento bensì appartenendovi e riconoscendosi in esso: egli ritiene di poter rendere ogni impressione vitale luogo dell’arte ma quest’ultima, in questo modo, diviene qualcosa di artificiale, innaturale. Esteta è colui che ha accettato, dunque, acriticamente la cultura del frammento e degli ‘stati d’animo’. Lo specialista, invece, ha scisso a tal punto cultura e vita che esse non sono più in grado di ritrovare alcun elemento di dialogo: questo significa la compiuta decomposizione di quella che si definisce come ‘vocazione al sapere’, la scelta per un metodo di conoscenza tendente a un enciclopedico esteriore in cui gli interrogativi deviano dal centro alla periferia, dall’essenziale al superfluo. Lo specialista è della cultura estetica il suo tipo più puro: la cultura diviene il teatro dell’ornamento e di ‘atmosfere rarefatte’, essa non può più dire niente e non deve più dire niente, perché gli specialisti, infatti, seguendo lo scritto del filosofo ungherese, «ciò che “hanno da dire” [e ciò che in realtà gli interessa dire] è quasi inesistente», ed essi, non a caso, «respingono anzi con orgoglio ogni genere di contenuti», perché «i loro valori» alla fine consistono solo «nei trucchi del mestiere»1.
Da Lukács alla cultura contemporanea – queste figure sono ancora in grado di parlarci? È possibile istituire un ponte tra l’intervallo ampio di questi diversi momenti storico-filosofici? Un filo tiene, pur nella distanza, questi diversi ‘mondi della crisi’. La nostra cultura occidentale, i suoi centri massimi di sapere e di ricerca, è largamente popolata da queste figure, dai tipi puri della ‘cultura estetica’: ma se prima era ancora presente la possibilità del ricordo, e dunque la memoria del perduto riusciva a far mantenere un grado di estraneità da un riconoscimento acritico, ora queste figure sembrano vivere nel compiuto oblio, in quella che precedentemente avevamo definito come dimenticanza della perdita. Questo mondo è il mondo, l’unico mondo: si sono perduti, anche nella memoria, i concetti di totalità, di crisi, di sensatezza e insensatezza. Il rifiuto deciso della ‘Cultura’, in un’epoca apparentemente al massimo grado di civilizzazione, è squadernata davanti a noi: nell’oblio di quei concetti, infatti, vi è l’oblio di quelle domande fondamentali che accompagnano la ricerca autentica – il domandarsi il perché di ogni passo interpretativo, la ricerca di quel grimaldello in grado di donare un contenuto storico-vitale ai nostri studi. Di esteti – e cioè di cultura artefatta – ne è piena la nostra epoca, così come è ricca di specialisti, che hanno abiurato al compito dello studioso di andare alla ricerca nell’opera della vita perduta. Non solo il fuoco, la passione per la ricerca e, dunque, per la storia e le sue molteplici ingiustizie che sembrano scomparse magicamente dalla vita dell’uomo sembrano essere impotenti di fronte a una cultura che vive di sola tesi – che non conosce antitesi in grado di mutare radicalmente le regole del gioco – ma ogni volta che questa tensione a una diversa cultura si presenta, essa viene immediatamente ridimensionata dal mondo circostante, considerata come qualcosa di definitivamente superato. Non è altro che questa la disperazione tacita, l’angoscia esistenziale senza possibilità di parola di una sparuta parte del mondo circostante: l’osservazione di una cultura apparentemente eterna perpetuata all’infinito dai suoi tipi più puri.
Note
1 G. Lukács, La cultura estetica, in Id., Cultura estetica, Newton Compton, Roma, 1977, p. 19.
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