Articolo pubblicato su ‘il manifesto‘ del 04.09.2020
Il senso comune corrente è che Putin, dopo essersi formalmente assicurato la sua permanenza al Cremlino sino a quando lo vorrà, ha dato per scontato che i suoi avversari dentro il Cremlino si sarebbero rassegnati.
Sbagliava nel credersi capace di controllarli. Il tentato spettacolare avvelenamento del suo oppositore, il più mediaticamente amato dai liberal occidentali, è un pugno in faccia sferrato mentre stava cercando di mettere fuori gioco Lukashenko. La domanda è: chi sono i suoi avversari e quali fini hanno? Le risposte sono molte e in contraddizione l’una con l’altra. Vi sono quelle che riguardano contrasti tra le élite del paese e quelli che vengono da fuori, da un’Unione Europea incapace di accettare la Russia post sovietica per com’è, e soprattutto vi sono le spinte di vendetta e di rappresaglia di paesi come per esempio la Polonia, l’Ungheria, gli stati baltici, i quali, per la prima volta nella loro storia, hanno la possibilità di rivalersi su Mosca, non più strapotente.
L’occasione è tale che accolgono come atto di beneficenza qualsiasi richiesta della Nato (e del Pentagono) che rovesci l’antica subalternità. Il rovesciamento va dal terreno militare a quello sociale, politico, giuridico in una sorta di frenesia di ritorno agli anni trenta. Gli altri paesi dell’Unione, la Francia, la Germania, si comportano come se i paesi est europei che hanno voluto “dentro”, vanno capiti nel loro ‘momentaneo’ degrado e comunque servono a tenere sul chi vive il Cremlino.
Chi formalmente comanda al Cremlino si sente oggetto di una ostilità che valuta immeritata e reagisce in modo di meritarla, di accrescerla.
Il solo politico professionale europeo, in grado di tagliare il nodo gordiano di una tale situazione, è la Merkel. Perché non lo fa? E anzi accusa Putin di essere il responsabile di un avvelenamento, di cui è platealmente la seconda vittima, quella politica? Persino una parte della stampa internazionale accenna ambiguamente a tale possibilità ma ugualmente prevale la frenesia politically correct di mostrare Putin di Russia e/o la Russia di Putin come responsabile di qualsiasi cosa vada storta nel mondo. E al momento l’intero mondo mostra fratture e scollamenti mentre non si vede nemmeno nel più lontano orizzonte, chi abbia la colla necessaria per porvi rimedio. Viene da credere che l’élite finanziaria cosmopolita stia sperimentando i rischi di fare a meno di partiti, governi, stati capaci di fare politica. La scelta è di farsi formalmente rappresentare all’interno del singolo stato da un populista autocrate, e in ambito internazionale assecondare compromessi oscuri.
E quanto oscura è la lotta in corso al Cremlino tra gli avversari di Putin? E quanto ne sa di questa lotta l’intelligence americana, tedesca, cinese e israeliana? Quanto sono coinvolte le élite finanziarie, quelle che si rafforzano senza chiedere il permesso a Trump e nemmeno a Xi? Figurarsi a Putin.Forse i suoi avversari del Cremlino non si fidano della sua politica estera, per esempio di quella compromissoria con Lukashenko, il padrone dell’ultimo lembo di Unione Sovietica, con le sue fabbricone obsolete e il welfare antico, un lembo che al più presto va restituito al business privato, come è accaduto per tutto il territorio ex sovietico, comprese la Polonia, l’Ungheria, ecc.
Sono le élite finanziarie transnazionali – intenzionate ad omologare le proprie strategie – a voler mettere sotto controllo Putin, un politico troppo autonomo? Oppure il pugno in faccia glielo hanno sferrato gli uomini a lui più vicini, quelli che hanno maturato altre strategie in politica estera.
Qui ritorna il senso di un ruolo della Merkel che con Putin rappresenta l’ultimo esemplare vivente di politico professionale di tradizione europea. Insieme potrebbero tentare di fare quello di cui l’Europa ha bisogno: l’autonomia da Trump e da Xi e potrebbero farsi riconoscere la necessità del proprio ruolo politico dalla Fed, dalla Bce e dalle altre istituzioni finanziarie.
Ma appunto insieme da europei, che hanno studiato in scuole simili, militato nello stesso partito e vissuto l’esperienza sovietica così dall’interno da poterla superare per sempre.
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