Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” de “il manifesto” il 02.02.2023.
Sotto un cielo celeste dove un transito di nuvole rosa si muove lento in una chiara luce che si fa giallina all’orizzonte, in lontananza si susseguono calanchi bruciati, una vasta terra inaridita che non darà più frutti. In primo piano, su un tappeto di pietre, giacciono accatastati i corpi dei morti, alcuni mutilati, altri per sempre immobili nei gesti disperati dello strazio supremo. Neri corvi se ne cibano, gracchiano, le ali aperte ad aiutare la presa degli artigli e la precisione dei rapaci colpi di becco. Dalla pietraia, tra i sassi, si levano tronchi combusti che con i rami spezzati segnano il cielo d’una trama di stecchi. Le poche foglie bruciate penzolano accartocciate.
Sovrasta il carnaio d’un balzo, e lo scavalca in uno slancio poderoso, un cavallo nero dall’ispida criniera, proteso nella corsa distruttrice. Lo eccita urlante, coperta d’una lacera camicia bianca, una donna che con la destra impugna un’acuminata spada e agita, con l’altra mano, una fiaccola che attizza incendi. Urla. E l’urlo si ripete come un ululato che si diffonde lugubre e feroce, e le arruffa vieppiù i cernecchi della capigliatura incolta, tende la coda del cavallo e passa attraverso l’intrigo della sua criniera.
È la Guerra, rappresentata nell’ampia tela che al Salon des Indépendants fu esposta da Henri Rousseau, il Doganiere (1844-1910), nel 1894, a Parigi. La guerra, solo morte e distruzione. Gli uomini ridotti a carogne, «di cani e d’augelli orrido pasto», come si legge nel proemio dell’Iliade.
L’irsuto cavallo di Rousseau non è il medesimo destriero del Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis, a Palermo. Glabro questo, fatto d’una fibra quasi trasparente, consunto il manto tanto che ne intravedi sotto le ossa e, della testa, la mandibola. È montato da un agile scheletro che con un arco scaglia acuminate frecce. Molti sono i colpiti, mentre d’attorno uomini e donne, giovani e vecchi, assistono al loro spirare, consapevoli che la morte giungerà per tutti, non risparmierà nessuno. A Palermo, in quel grande affresco del Quattrocento, è la Morte che viene illustrata, non la Guerra. La morte ‘sorella’ del Cantico delle creature dettato da san Francesco d’Assisi due secoli prima: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ scappare». Ma il Signore non si loda, non si ringrazia per l’uccisione in guerra di chi fu creato ‘a sua immagine e somiglianza’. Il Signore ha detto: «Non uccidere».
Il 7 ottobre del 2023, ancora una volta, con inaudita, sconvolgente ferocia, ha ripreso a divampare il sanguinoso conflitto che, con fasi e modalità alterne, dura da oltre un secolo nelle terre della Bibbia. Dal 7 ottobre a orrore si contrappone orrore, senza sosta, senza interruzione e in crescendo. Quali prescelti modi di guerreggiare si sta facendo ricorso alla strage, al massacro, allo sterminio. Da distruzioni totali e definitive, ci dicono i capi di Hamas e di Israele, nasce una affermazione di vita. L’umanità che si intende affermare, la propria in cui riconoscersi, si costituisce grazie al ricorso sistematico dell’omicidio, al mettere a morte l’altro? Questa ed altre, imposte dalle atrocità che si perpetrano giorno dopo giorno, le terribili domande. Come darsi risposte che ne siano all’altezza? Come allontanare, come contrastare la disumanità che dilaga e nella quale siamo immersi? Mi tengo alla parte contendente d’ascendenza ebraica con l’intento di tornare a meditare su alcuni convincimenti espressi da Imre Toth (1921-2010) in Essere ebreo dopo l’Olocausto, libro prezioso edito da Cadmo nel 2002. Considera Toth, quella ebraica in Europa, propriamente condizione di mediazione: «La mediazione ha certamente il suo genio particolare. Suo fondamento è la capacità d’intelligere, la facoltà di comprendere simultaneamente le due parti in presenza, l’amico e il nemico; la capacità d’identificare lo Stesso e l’Altro». E ancora, riguardo all’identità ebraica: «La loro patria non era in nessun luogo perché era ovunque. Internazionali, cosmopoliti, poliglotti, gli Ebrei, la loro patria eterna la portano ovunque con sé. Era un libro in cui era scritto: ‘Non uccidere!’».’
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