La Palestina è in fiamme. Dal cielo di Gaza, ormai da nove giorni, piovono bombe che devastano interi quartieri, strade, grattacieli, campi profughi. Gerusalemme grida di dolore, tra la sacralità violata di Al-Aqsa e della Spianata delle Moschee, alle famiglie di Sheikh Jarrah, costrette a denunciare un’ingiustizia cristallizzata in sistema normativo, che le vede spogliate di ogni diritto, anche quello di proprietà sulle loro abitazioni. Dalla West Bank in rivolta, dove giovani, adolescenti, anziani, donne, figli e madri sembrano non avere paura di riversarsi nelle strade e ai checkpoint, e di affrontare i militari israeliani armati fino ai denti, volto concreto di un regime di occupazione che li attanaglia ormai da decenni; fino ad arrivare alle città a maggioranza araba della Palestina storica, attualmente parte di Israele, che in modo inedito fanno sentire la loro voce contro le politiche di segregazione e discriminazione a cui sono sottoposte nel silenzio generale, avvolte anzi da una cappa di finta normalità.
Difficile stabilire quale sia stata la miccia che ha innescato un incendio ora apparentemente indomabile, che Israele e il governo di Benjamin Netanyahu stanno tentando di reprimere con la prassi consueta: bombardamenti indiscriminati, assalti feroci e truppe pronte a sparare ad altezza d’uomo. Possiamo tuttavia cercare di capire chi avesse maggiore interesse a scatenare una crisi che, con ogni probabilità, non si immaginava di tali dimensioni. Tutti gli indizi sembrano condurre a un’unica pista.
Già all’indomani delle elezioni del 23 marzo scorso, che arrivavano dopo tre appuntamenti elettorali nel giro di un anno e che non hanno dato un esito certo – continuando a riflettere la profonda polarizzazione in atto nelle istituzioni e nella società israeliana – l’attuale capo dell’opposizione, Yair Lapid, aveva prefigurato la possibilità che Netanyahu scegliesse la strada della violenza e dello scontro per generare una situazione di emergenza e uscire dallo stallo. “Se Netanyahu sente il governo sfuggirgli dalle mani, cercherà di creare un problema di sicurezza. A Gaza o al confine settentrionale. Se dovesse ritenere che questo è l’unico modo per salvarsi, non esiterebbe neanche un istante,” aveva detto Lapid all’attuale Ministro della Difesa Benny Gantz, secondo il commentatore di Haaretz, Yossi Verter.
Akiva Eldar, invece, dalle pagine di Al Jazeera, svela che Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beitenu, ex ministro dei governi Netanyahu e ora suo acerrimo nemico, avrebbe correlato direttamente l’esplosione della violenza di questi giorni alla decisione del Presidente Reuven Rivlin di affidare il mandato esplorativo per la formazione di un governo a Lapid. “L’obiettivo strategico dell’operazione militare è aumentare la propria popolarità agli occhi dell’opinione pubblica. Netanyahu cercherà di prolungare questa operazione finché durerà il mandato esplorativo di Lapid,” avrebbe sostenuto Lieberman.
D’altro canto, questa tattica non rappresenta certo una novità nel panorama politico israeliano. Negli anni, Netanyahu ha sempre usato questo stratagemma per restituire un’immagine di forza a una società che, innegabilmente, è sempre più schiacciata su posizioni di assoluto estremismo. Evocare a gran voce, e abbozzare nei fatti, una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi serve ad acquisire popolarità in una fetta consistente dell’elettorato, e particolarmente presso la popolazione dei coloni che ormai sembrano orientare, con i loro numeri e la loro forza, le politiche israeliane. Quegli stessi coloni che sono stati usati come una sorta di forza paramilitare e come ulteriore braccio armato delle autorità israeliane per le strade di Gerusalemme, nei giorni e nelle settimane che hanno preceduto l’escalation finale.
Ciò che probabilmente non era prevedibile, tuttavia, era la risposta del popolo palestinese. Un popolo che, prima di ogni cosa, sembra aver ritrovato una perduta unità.
Raccontare il processo di frammentazione a cui sono stati sottoposti i palestinesi nel corso degli anni e dei decenni non è semplice. Oltre che dal principio del divide et impera – che ispira da sempre l’azione politica del progetto sionista – l’unità del popolo palestinese aveva ricevuto un colpo decisivo, almeno in apparenza, con gli Accordi di Oslo e ciò che avevano rappresentato.
Il presunto “processo di pace”, infatti, sembrava più teso a sopire la volontà di resistenza dei palestinesi e a “normalizzare” l’occupazione militare che a garantire l’effettiva creazione di uno spazio in cui potessero esercitare una sovranità e vivere in modo dignitoso. Nella fase post-Oslo, il territorio si è ulteriormente parcellizzato. Al contempo, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), unico organismo rappresentativo di un popolo senza Stato, è stata di fatto esautorata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Questo ha creato un vuoto di rappresentanza, vista la coincidenza pressoché assoluta tra l’ANP e il partito di Fatah, protagonista della fase degli accordi, ormai svuotato da quella spinta rivoluzionaria che aveva caratterizzato l’azione del suo fondatore Yasser Arafat, e appiattito sulle posizioni decisamente più morbide di Abu Mazen.
Abu Mazen, infatti, verrà probabilmente ricordato dalla storia come colui che, soffocando definitivamente la Seconda Intifada e la reazione spontanea contro un accordo che penalizzava in modo assoluto i palestinesi, ha ricercato l’approvazione e il placet della comunità internazionale, fino a normalizzare, di fatto, l’occupazione attraverso il cosiddetto “coordinamento per la sicurezza”, ovvero un apparato di forze di polizia e intelligence che collabora direttamente con la forza occupante.
Abu Mazen rimane alla guida dell’ANP nonostante le elezioni del 2006 e la vittoria, mai riconosciuta, di Hamas; nonostante la conseguente spaccatura con la Striscia di Gaza, che da quel momento è governata dal Movimento di Resistenza Islamico e che, per questo, è soggetta a un brutale embargo. Rimane alla guida dell’ANP anche dopo la scadenza del suo mandato elettorale, proclamando, di tanto in tanto, la possibilità di elezioni che servono più a compiacere i suoi partner a livello internazionale che a ricercare quel momento di democrazia e legittimazione popolare di cui è ormai completamente privo.
Questa volta, poi, le elezioni sembravano una possibilità concreta. Le date erano state fissate da un decreto presidenziale di gennaio, frutto di una serie di incontri tra i diversi movimenti che animano la politica palestinese. Abu Mazen, però, non aveva calcolato la spaccatura interna al suo partito, la formazione di una lista alternativa guidata da Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat, e da Fadwa Barghouti, moglie del prigioniero politico palestinese e leader della resistenza, Marwan; una spaccatura che avrebbe probabilmente determinato una cocente sconfitta per Fatah alle elezioni legislative e la destituzione di Abu Mazen in favore dello stesso Marwan, deciso a correre per le elezioni presidenziali dal carcere israeliano in cui è rinchiuso e favorito in tutti i sondaggi.
La decisione di rimandare, per l’ennesima volta, l’appuntamento, è stata giustificata dalla impossibilità, per i palestinesi gerosolimitani, di votare, per le restrizioni imposte dalle autorità occupanti israeliane. In effetti, in Palestina, il tema della rappresentanza e, conseguentemente, delle elezioni come momento fondante del processo democratico, non può prescindere da un “vizio d’origine”: le elezioni democratiche, idealmente, si svolgono in una nazione che abbia una reale sovranità sul suo territorio, in cui tutto il popolo possa davvero essere rappresentato.
Nel caso della Palestina, questo non può avvenire, perché quanto ipotizzato dalla Risoluzione ONU del 1947, il cosiddetto “piano di partizione” – che, pur nei suoi aberranti limiti, prevedeva la nascita di due Stati – nei fatti, non si è mai concretizzato. Pertanto uno Stato palestinese, nei fatti, non ha mai visto la luce, per esplicita volontà di Israele, che ha agito sin dagli albori come una potenza coloniale, interessata alla acquisizione di tutto il territorio e alla cancellazione della popolazione nativa, mosso dal mito infondato della terra nullius.
Tuttavia, il popolo palestinese si è sentito tradito dalla resa, l’ennesima, dell’ANP che, anziché lottare per conquistare anche il diritto al voto di Gerusalemme, ha preferito usare l’occupazione come scusa per sopire il dibattito interno a Fatah. Un popolo che si è visto, negli anni, già privato di ogni diritto, isolato come non mai, arrestato, in alcuni casi, anche da quelli che dovevano essere i suoi rappresentanti; un popolo bombardato, umiliato, emarginato anche da alcuni Paesi arabi (che non hanno esitato a “normalizzare i rapporti” con l’entità sionista). Un popolo forzatamente diviso, sottoposto a un regime di apartheid imposto da Israele e che oggi viene riconosciuto anche da varie organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch o la stessa, israeliana, B’Tselem.
In questo scenario, un primo, fortissimo, squarcio si apre con la Grande Marcia del Ritorno, avviata nel 2018, che parte da Gaza, si estende ai Territori Palestinesi Occupati e segna in modo inequivocabile una mai sopita volontà, da parte del popolo palestinese, di partecipare a un processo ampio di resistenza popolare. Un popolo che, oggi, scende in piazza, affronta apertamente l’occupazione e, nei fatti, supera e destituisce sul campo i suoi presunti rappresentanti.
L’impressione è che questa nuova fase, apertasi nelle ultime settimane, determinerà anche un cambiamento radicale nello scenario politico palestinese e costituirà un punto di non ritorno. Anche il silenzio assordante di Abu Mazen, per svariati giorni dopo l’inizio dell’attuale escalation, la dice lunga sulla afonia di questa classe dirigente e sulla sua incapacità di rappresentare le istanze del suo popolo. Una conferma di questo profondo cambiamento, che costituisce un punto di non ritorno, è data anche dalla decisione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo combattente legato a Fatah, di tornare tra le strade della Cisgiordania per la prima volta dopo sedici anni, prima nelle città di Nablus e Jenin, poi con la marcia a Ramallah in preparazione dello sciopero generale indetto dai palestinesi per il 18 maggio.
“Questa,” scrive l’analista palestinese Ramzy Baroud, “è un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta di liberazione palestinese. […] Questa unità è ben più rilevante di un qualsiasi accordo tra fazioni palestinesi. Va a eclissare Fatah, Hamas e gli altri perché, senza un popolo unito, non può esserci una resistenza efficace, non c’è prospettiva di liberazione né lotta per la giustizia”.
Sicuramente, chi riuscirà a interpretare meglio questa fase risulterà la guida naturale di un processo che sembra ormai inarrestabile, ma nessun esito sembra scontato. Certamente, Hamas si è fatto trovare più pronto, anche per il radicamento sul fronte della resistenza a Gaza, una resistenza che, vale la pena ricordarlo, agisce in comunione con altri gruppi, tra cui anche le forze di matrice socialista del PFLP.
Ridurre, tuttavia, i fatti odierni a uno “scontro” tra Israele e Hamas è non solo falso, ma decisamente riduttivo. L’impressione, infatti, è che a fronteggiarsi siano due forze diverse.
Da una parte, uno Stato ormai impigliato nelle stesse trame della sua vocazione coloniale, guidato da un leader stanco e logoro, protagonista di vicende giudiziarie importanti e apparentemente deciso a trascinare con sé nel fango un’intera nazione. Dall’altra, una nuova generazione di palestinesi, non più condizionati dai tentativi di normalizzazione di Oslo, che parlano una stessa lingua a Khan Younes come ad al-Lud, a Ramallah come ai confini con Giordania e Libano. Un nuovo popolo deciso a superare le divisioni e i balbettii della sua classe dirigente, e che non sembra più disposto a trattare sulla propria dignità e sul raggiungimento della giustizia, premessa necessaria e indispensabile alla pace.
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