Il neonato governo ha promesso il ritorno ai decreti sicurezza, con l’obiettivo di contrastare “l’immigrazione irregolare”.
Tuttavia, nei due anni in cui i decreti sono stati operativi (da ottobre 2018 a dicembre 2020), si è assistito a livelli maggiori di irregolarità nella posizione dei migranti in Italia, a una minore inclusione sociale e a cambiamenti nel sistema per richiedenti asilo e rifugiati che vanno nella direzione opposta al modello dell’accoglienza diffusa.
Nel suo primo discorso in Parlamento da presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha parlato anche degli sbarchi sulle coste italiane, ponendo l’accento da un lato sui flussi di ingresso regolare da parte dei migranti e dall’altro sulla volontà di impedire le partenze dai paesi nordafricani.
In Italia, come in qualsiasi altro Stato serio, non si entra illegalmente, si entra solo attraverso i decreti flussi. […] È nostra intenzione recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione Europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa. – Giorgia Meloni, discorso alla Camera, 25 ottobre 2022
Sul fenomeno migratorio Meloni ha fatto riferimento esclusivamente agli arrivi, ma non al sistema di accoglienza, più volte riformato negli ultimi anni.
Nel programma di coalizione i “decreti sicurezza” compaiono al primo punto nel capitolo dedicato alla “sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale”. Vedremo se il governo intenderà realmente reintrodurre il sistema previsto dal decreto sicurezza. Intanto in campagna elettorale il vice presidente del consiglio Matteo Salvini ha più volte auspicato un ritorno alle disposizioni decise quando era ministro dell’interno, cancellate (in parte) dalla riforma Lamorgese del secondo Governo Conte.
Ma quali sono stati gli effetti ottenuti dal decreto sicurezza nei due anni in cui è stato attivo? Ne abbiamo parlato in dettaglio nel rapportoCentri d’Italia, l’emergenza che non c’è, in occasione del lancio, avvenuto lo scorso febbraio, di Centri d’Italia, la prima piattaforma di monitoraggio indipendente sul sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, realizzata da ActionAid Italia e Openpolis.
Nell’analisi degli effetti del decreto sicurezza occorre fare una premessa imprescindibile: tra la fine del 2018 e la fine del 2020 le presenze nel sistema di accoglienza si sono quasi dimezzate, a causa della riduzione degli sbarchi, derivante a sua volta da politiche e disposizioni operate da governi precedenti, come il decreto Minniti e il memorandum Italia-Libia del 2017.
Oltre all’abolizione della protezione umanitaria, di cui abbiamo parlato in un precedente approfondimento, una delle novità più rilevanti del decreto sicurezza è stata la trasformazione del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) in Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi).
Nel nuovo Siproimi, sistema a titolarità pubblica più incline all’inclusione sociale e all’orientamento lavorativo, sono potuti entrare solo i titolari di asilo, e non come era accaduto per anni anche ai richiedenti asilo, ovvero a chi aveva inoltrato la richiesta ma ancora non aveva ottenuto la risposta.
Ai richiedenti asilo veniva negato l’accesso al Siproimi.
Per questi ultimi, quindi, è stato istituito un passaggio obbligatorio ai centri di accoglienza straordinaria (Cas), strutture per lo più assistenziali, che rappresentavano quasi il 70% del totale dei centri in Italia e che, con il decreto sicurezza, hanno perso anche a livello formale il loro carattere di straordinarietà.
Si è andati insomma verso una direzione opposta al modello dell’accoglienza diffusa in strutture piccole e ben distribuite sul territorio. Un modello in grado di facilitare l’inclusione degli ospiti nelle comunità e ridurre l’impatto dei centri nelle città.
È evidente dai dati: i centri di piccole dimensioni (fino a 20 posti) rappresentano la categoria più penalizzata nei due anni in cui è stato attivo il decreto sicurezza.
Inoltre, i centri di grandi dimensioni – quelli con più di 50 posti a disposizione, e che più spesso presentano criticità nella gestione e nell’integrazione con il tessuto del territorio che li ospita – sono diventati sempre più grandi. Infatti se nel 2018 queste strutture avevano in media 98 posti, due anni dopo la loro capienza media era salita a 110. Con casi rilevanti soprattutto nelle aree metropolitane, come a Milano, dove in media i centri di accoglienza hanno una capienza dieci volte maggiore alla media nazionale.
Anche il sistema della seconda accoglienza, il Siproimi – che oggi per via della riforma Lamorgese ha preso il nome di sistema di accoglienza e integrazione (Sai) – è stato penalizzato nei due anni considerati. Si è registrato infatti un calo del 12,7% dei posti disponibili, pari a oltre 4mila unità.
4.557 posti disponibili in meno, nel sistema Siproimi, dal 2018 al 2020.
Se tracciamo un bilancio degli effetti prodotti dal decreto sicurezza, quindi, possiamo affermare che si è trattato di un’occasione persa per riformare il già lacunoso sistema dell’accoglienza.
Si sarebbe infatti potuto approfittare del netto calo degli arrivi per chiudere i grandi centri e strutturare tutto il sistema secondo il modello dei piccoli centri. Più efficace per l’inclusione, meno impattante sul tessuto sociale pre-esistente e meno appetibile per le organizzazioni che vogliono massimizzare i profitti economici con la gestione dei centri.
Nelle prossime settimane analizzeremo gli effetti del primo anno di riforma Lamorgese.
Riusciremo a comprendere nelle prossime settimane se la riforma Lamorgese, entrata in vigore alla fine del 2020, andrà invece in questa direzione. In questi mesi, infatti, abbiamo chiesto al ministero dell’interno i dati relativi alle strutture attive nel 2021, ottenendoli non senza difficoltà.
Nei prossimi mesi insieme ad ActionAid racconteremo, attraverso le mappe interattive di Centri d’Italia e il rapporto annuale sullo stato dell’accoglienza, i frutti della nostra analisi.
Nel frattempo siamo costretti a constatare che il Parlamento ancora non rende pubblica la relazione sul sistema per gli anni 2020 e 2021, a dispetto di quanto prevede la legge.
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