Interventi

In “Elogio della fragilità” (Mimesis, 2016, pp. 130, 12 euro, prefazione di Michele Prospero, postfazione di Lorenzo Romito) si dispiega una disamina scrupolosa, al crocevia tra osservazione partecipante, introspezione autobiografica e trattato scientifico sui generis. L’autore Roberto Gramiccia, medico, militante, scrittore, critico e curatore d’arte, non necessariamente in quest’ordine, rovista nei sedimenti della memoria auscultando con schiettezza il proprio cuore, senza perdere la capacità di elaborare razionalmente un vissuto che è individuale, forse non paradigmatico, ma in qualche misura generalizzabile. Nelle pagine di questo agile volume la fragilità viene assunta come invariante esistenziale dell’esperienza di molti e al tempo stesso come forza motrice di iniziative ed evoluzioni.
Quando fa professione di anarchia metodologica, citando Feyrabend, Gramiccia pare evocare “la pestifera smania di formare sistemi” lamentata da Giacomo Leopardi (Zibaldone, p. 947) come tara di certa speculazione filosofica. Per coincidenza proprio Leopardi è una delle figure intellettuali cui l’autore afferma di essere più legato, insieme a Spinoza, Gramsci e al pittore Gino Bonichi, in arte Scipione. Personaggi che, per un’altra curiosa coincidenza, sono accomunati da un tratto patologico, la tubercolosi. Senza stabilire un nesso causale tra malattia e genio, l’autore pone in esergo la citazione anonima “Le perle nascono da una malattia della conchiglia” che molto dice sull’eterogenesi dei fini che permea il divenire delle cose di questo mondo.
Pagina dopo pagina affiora un percorso di crescente consapevolezza: la “scoperta” della fragilità che in età infantile l’autore compie (o meglio, subisce) fa il paio con il coraggio, in età matura, di assumere questa caratteristica così scabrosa come tema da incanalare nella penna, e non per riempire le pagine private di un diario, bensì per rivolgersi a un pubblico di lettori.
Quello della fragilità è senz’altro un tabù in un’età piagata da una curvatura competitiva dilagante, che invade ogni ambito del vivere associato, spesso anche la cerchia familiare. La deriva neoliberale rende indicibile l’essere fragili, vulnerabili, fallibili. Lo spirito del tempo ci vorrebbe affamati e folli, levigati e anche un po’ isterici, pur di ottenere successo. Il “preferirei di no” di Bartleby è relegato a sintomo di disprezzabile indolenza. La dimensione imprenditoriale, nel senso stretto dell’economia e in quello lato dell’approccio alla vita, viene imposta come prospettiva universale, si costituisce come dispositivo di imputazione individuale alimentato dal bellum omnium contra omnes e dalla colpevolizzazione degli sconfitti, cui in seconda istanza tocca una ricompensa compassionevole. La fragilità come condizione immanente all’essere umano è sempre più inconfessabile. Gramiccia prova a descriverla attraverso il prisma della propria esperienza individuale, all’università, nel ’68, nel rapporto con l’arte e la medicina, con la fede, l’amore, il sesso, al cospetto della fine delle grandi narrazioni e dell’evanescenza, presunta, della dialettica destra-sinistra.
La fragilità è riconosciuta come tratto innato, più o meno sviluppato, e come indicatore della presenza fisiologica in ognuno di noi di una componente deviante, malata e potenzialmente nociva se rimossa invece di essere affrontata e poi risolta. Una identificazione della fragilità che aiuta a superare la suddivisione manichea delle cose del mondo tra la sfera del bene e quella del male, attraverso la presa d’atto dell’imperfezione che alligna in qualunque individualità, persona, organo, in sé fallibile.
Si legge in filigrana il tema del soggetto, individuale e soggettivo, e la sua crisi. In un certo senso la fragilità può essere considerata una molla per l’intersoggettività, una manifestazione interiore dell’inadeguatezza del singolo e del bisogno di rassicurazione, e di comunità, che è alla base della costruzione politica del moderno. L’incontro dell’altro è allora un sollievo, la militanza una problematizzazione collettiva, l’espressione artistica una sublimazione della sofferenza.
Riconoscere la propria fragilità significa rifiutare gli schemi del darwinismo sociale e del superomismo che sono i contrassegni, rispettivamente, della coscienza neoliberale e della volontà di potenza della destra rivoluzionaria, come la chiamerebbe Zeev Sternhell. Traendo spunto dal lavoro di Gramiccia si può arrivare a dire che essere di sinistra consiste essenzialmente nell’accettare la fragilità come tratto dell’esistenza, e nell’affermare che tale fragilità non può essere lasciata in balìa di una mano invisibile ma invoca, piuttosto, l’intervento di una mano visibile, guidata da un afflato collettivo.
(L’immagine, che è anche quella riportata sulla copertina del libro, è un particolare di un’opera di Oscar Turco)

2 commenti a “Della fragilità. Ovvero, della vita”

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