Articolo pubblicato anche su “il manifesto” del 12.07.2024.
Non è mai stato un destino l’avanzata dell’estrema destra, in Francia e altrove. L’unico, a mia conoscenza, ad averlo detto prima del rovesciamento spettacolare avvenuto tra il primo e il secondo turno delle elezioni legislative francesi è stato Jean-Luc Mélenchon. La domenica del primo turno ha detto: “Non credete al primo turno, non credete ai sondaggi. Saremo noi a vincere il secondo turno”. E poi ha fatto la mossa del cavallo: la France Insoumise, a nome del Nuovo Fronte Popolare, ha lanciato la “desistenza”. E ha finito per imporla a un gran numero di macronisti.
L’arroganza di questo blocco di potere in disfacimento impedisce di ammettere l’evidenza. La desistenza lanciata dalla sinistra ha permesso di contrastare efficacemente l’avanzata dei lepenisti. I macronisti non solo hanno dovuto inghiottirla, ma a questa mossa della sinistra è attribuibile addirittura la loro tenuta. Grazie alla sinistra, in almeno 32 casi hanno guadagnato un deputato. Questo semplice dato sembra essere stato rimosso nelle tattiche post-voto in cui è palese il tentativo di non riconoscere la vittoria della sinistra.
Quanto costa salvare un ministro di polizia
Mi ha colpito il senso di responsabilità, anche tra i giovanissimi, nel votare per il proprio avversario al fine di sbarrare la strada alla destra. Mi sembra sia la dimostrazione di una disponibilità soggettiva a praticare un’intelligenza politica diffusa. Nella contingenza di una settimana incredibile, con un emozionante colpo di scena finale, ho avvertito anche l’amarezza delle persone che vivono a Parigi ma sono state costrette a riprendere il treno per andare a votare al secondo turno nella propria circoscrizione. Alcuni di loro sono andati in piazza per sette anni e in alcuni casi sono stati picchiati dalla polizia macronista.
Penso a chi ha fatto vincere l’elezione a Gérard Darmanin, il ministro della polizia macronista, espressione di un estremismo neoliberale razzista, incomparabile per ferocia alle caricature italiane. Se non avesse ricevuto i voti di chi ha fatto picchiare in piazza avrebbe perso il suo seggio. La responsabilità della sinistra, che in Francia chiamano “repubblicana”, è stata ricambiata con l’accusa tanto falsa quanto ignobile, per cui la France Insoumise sarebbe “antisemita” solo perché denuncia il massacro dei palestinesi in atto a Gaza. Tecnica nota anche in Italia. In Francia è stata usata per cercare di tagliare le gambe al primo partito della coalizione del Nuovo Fronte Popolare. Inutilmente.
Disprezzo di classe. Ai dominanti tutto sembra essere dovuto. E quando dimostri che la loro esistenza dipende dalle masse che perseguitano, incassano il risultato e riversano il loro odio su chi ha un’intelligenza politica superiore e gli permette di esistere. È quello che ha fatto Macron in questi sette anni: ha usato i voti della sinistra – quelli che gli permettono di trovarsi dov’è – contro la sinistra e per alimentare la guerra civile a bassa intensità contro i francesi di nuove generazioni, le minoranze, i migranti, i poveri e i disoccupati.
Un sistema mediatico marcio
La grande difficoltà dei media ad accettare l’esito della vittoria della sinistra è un caso interessante. Nei media francesi la notizia ha sorpreso il divenire di destra di tutta l’informazione. Che però prosegue, battendo sul tasto della demonizzazione della France Insoumise e della tesi degli opposti estremismi. La legge è sempre la stessa in queste democrazie in crisi radicale: solo l’estremismo di centro può governare una società che è messa in ginocchio dalla sua incapacità e dalla sua violenza. Contro ogni evidenza, il sistema sembra tenersi a partire da questo assunto. Costi quel che costi, la realtà deve obbedire a questa tesi.
La regola è applicata stupidamente anche in Italia. Lo spettacolo che per fortuna ho visto e sentito a distanza è stato penoso. Il disgusto per i media italiani mainstream – devo ammettere – è stato massimo nella settimana tra il primo e il secondo turno. Perché non sanno di cosa parlano. Perché stridente è stata l’intenzione di manipolare gli eventi. Perché vergognosa è stata l’informazione plagiata sui media reazionari francesi. L’aggressione pregiudiziale, disinformata e oltre il ridicolo è stata una lezione molto importante. Contro una Fox News fascio-liberista che da Parigi ha trasmesso in Italia e altrove – a reti e giornali quasi unificati – bisogna difendersi.
La sorpresa
Il problema è che queste elezioni non hanno portato a una maggioranza assoluta. L’enorme sforzo “repubblicano” della sinistra ha messo in crisi l’estremismo liberista del macronismo, ma ha solo arrestato una marcia apparentemente inarrestabile del lepenismo verso il governo. Questo è solo il primo tempo di una partita che non finirà a breve. La prossima si giocherà probabilmente tra un anno quando si potrebbe tornare a votare. E non è detto che allora ci sarà una maggioranza.
Sullo sfondo ci sono le elezioni presidenziali del 2027. E tre anni di agonia del macronismo. Che potrebbero riservare altri colpi di coda com’è stato quello della dissoluzione dell’Assemblea nazionale un’ora dopo i disastrosi risultati delle elezioni europee che hanno visto il Rassemblement National arrivare primo. In questa battaglia la sinistra si è presentata in ordine sparso e quasi inconsapevole della forza sociale di cui dovrebbe essere l’espressione.
Un episodio me lo ha fatto capire verso le 19:30 di domenica 7 luglio. Eravamo al Lieu-Dit, uno degli avamposti della Comune parigina del XX arrondissement, a Ménilmontant, quartiere di Père Lachaise. Sui cellulari giravano i primi sondaggi che attestavano una sorprendente vittoria del Nuovo Fronte Popolare. L’incredulità era grande, almeno quanto è stato il boato che ha accolto la prima proiezione del voto alle 20:01 in tv. Nessuno si aspettava la lieta notizia.
L’offensiva
Sono decenni che la sinistra vive in difesa di alcune prerogative sociali conquistate nel secondo dopoguerra. Il problema ora è: come passare all’offensiva. Non è solo un problema di numeri all’Assemblea nazionale, pur importanti. Un’indicazione chiara è venuta dalle mobilitazioni frenetiche, oltre che dalle assemblee e dai media di sinistra: basta divisioni, bisogna cambiare nell’unità. Per capire quanto insperato sia stato il risultato del 7 luglio basta ripercorrere gli ultimi mesi.
Mi riferisco al fatto che, solo tre settimane prima delle legislative, la stessa sinistra si era fatta la guerra alle elezioni europee. E, nei mesi precedenti, il cartello elettorale Nupes è imploso approfittando delle infelici e imprecise dichiarazioni di Mélenchon sul 7 ottobre. La mobilitazione anti-fascista, più larga della pure estesa sinistra francese, ha giovato alla formazione istantanea del fronte difensivo contro il lepenismo. Questo è uno dei frutti degli imponenti cicli di movimento sociale di almeno un decennio. È stata una prova impressionante di tenuta e di autoconvocazione democratica. Ma non è sufficiente perché il lepenismo è aggressivo, radicato e diffuso nella “fasciosfera”. Il problema politico è stato così riassunto da Etienne Balibar nel saggio Il popolo a venire che ho tradotto in due parti (qui e qui) per il manifesto prima delle elezioni: “[Questi movimenti erano] caratterizzati da una reale capacità di trasformare la difensiva in offensività, il ‘rifiuto’ (o la rabbia, o la disperazione) in affermazione di un diritto, di solidarietà e volontà di trasformare il ‘mondo’ nella direzione dell’uguaglianza e della giustizia, e per questo universalizzabile a partire dalle situazioni e circostanze che le hanno originate. In altre parole, sono ‘azioni di cittadinanza’ (acts of citizenship, dice Engin Isin), portatrici di un’utopia concreta senza la quale non esiste politica di emancipazione”.
Il lavoro, al quale fanno riferimento tutti – quello di passare dalla difensiva all’offensiva – deve ancora iniziare. Perché l’unità non è una questione elettoralistica, né sarà mai un Governo (sempre che la sinistra riesca a farlo) a garantirla. L’unità in questione non è soltanto sociale, perché non basta aprire le liste a qualcuno che viene dal basso. Questa unità è il risultato di un lavoro politico oggi intuito ma soggetto a una contraddizione che si potrebbe tradurre con la difficoltà di trasmutare il risentimento diffuso in forme diverse dal nazional-populismo o dal populismo sociale in un’indignazione liberatrice. Dopo un decennio di passaggi a vuoto prodotti dal “momento populista”, consapevoli dei limiti della politica intesa come tribuna invece che come intelligenza collettiva, sarebbe già uno scarto quello di praticare diversamente l’unità. Mi sento di condividere quanto ha scritto a tale proposito il filosofo Michel Feher: “La risoluzione richiesta non è tanto una questione di radicalismo o di moderazione, quanto di intransigenza: richiede una posizione ferma all’incrocio delle cause, senza cedere alla tentazione di classificarle o classificarle, ma anche senza negare i problemi posti dalla loro coesistenza. Ancora una volta, nulla fa pensare che la sinistra, per quanto risoluta, riuscirà ad abolire la differenza tra un’intersezione e un incontro di movimenti sociali. D’altra parte, il suo rifiuto di sacrificare l’abbondanza e la complessità dei suoi impegni alla vana speranza di formare una maggioranza determinerà la sua capacità di resistere al lungo inverno in cui siamo entrati”.
L’autonomia politica di un sindacato
In questo contesto è comprensibile che la brillantissima segretaria della CGT Sophie Binet abbia tra gli altri sostenuto all’indomani del voto che Macron “vuole rubare la vittoria” alla sinistra. Il sindacato guidato da Binet ha giocato un ruolo importante nell’esito elettorale, insieme alla mobilitazione civile e associativa in tutto il paese. La stessa Binet – che ha fatto un bellissimo discorso a Place de la République domenica 7 luglio – è consapevole dei limiti della linea di difesa da parte della sinistra. È il minimo dopo 40 anni di offensiva neoliberale.
Sophie Binet ha scritto un libro: Il est minuit moins le quart (È mezzanotte meno un quarto). Si tratta di un commento al programma del Consiglio nazionale della resistenza anti-fascista francese con un titolo meraviglioso: Les jours heureux (I giorni felici). Fino alle 19:59 di domenica 7 luglio l’orologio faceva mezzanotte meno uno. Alla domanda “Che ora è adesso?” Binet ha risposto sagacemente: “Siamo tornati a mezzanotte meno un quarto, ma se vogliamo riportare l’orologio a un’ora più ragionevole bisogna fare un governo che cambi la vita delle persone”.
Sono parole importanti perché la CGT ha tenuto a dire di essere una delle gambe della coalizione della sinistra. Mantiene la sua autonomia, ma appoggerà un governo di rottura anti-neoliberale. Seguo da mesi Sophie Binet e ascolto quello che dice. A differenza di altri sindacati europei paragonabili al suo interpreta in maniera progressiva ed egemonica l’autonomia sindacale. Al punto che fa campagna elettorale, mette a disposizione dei movimenti e dei partiti il suo sindacato.
Un ruolo, quello della CGT, evidente in tutte le mobilitazioni degli scorsi anni. Ma a partire da queste elezioni, le prime di Binet alla segreteria, c’è stato un evidente salto politico. Oltre che culturale. In Italia, per esempio, non ho mai sentito un segretario di un sindacato confederale fare una critica radicale del capitalismo di cui il neoliberalismo è una eterogenea declinazione di classe come in questa intervista. Su queste basi la CGT oggi dialoga con il vivace sindacalismo di sinistra francese, tra i quali c’è Solidaires.
Cambiare l’idea di Repubblica
L’ambigua “disciplina repubblicana” è stata fondamentale per impedire al Rassemblement National di vincere il secondo turno delle elezioni. Jean-Yves Frétigné, il biografo francese di Antonio Gramsci, ha definito suil manifesto questa “disciplina” nei termini di una “cultura nazional-popolare” basata su un principio filosofico: francese è chi rispetta il contratto sociale, cioè i valori della Repubblica. All’interno di questa identità si riconosce lo spirito di quel gigantesco tricolore che è stato aperto in Place de la République: “La Francia è un tessuto di migrazioni”.
È chiaro il rigetto dell’approccio naturalistico al concetto di popolo. Questa teoria ritiene che un francese sia solo colui che fa parte della comunità di sangue. Tuttavia bisogna fare tesoro della critica antirazzista e decoloniale che in Francia è particolarmente perspicace e ha analizzato i paradossi costitutivi del contratto sociale. Sono quelli che nascono dall’universalismo repubblicano e si scontrano con l’individualità di chi, pur nato o cresciuto in Francia, si vede negata una piena cittadinanza sociale. Anzi, è oppresso due volte: come persona nata da genitori stranieri e come persona ridotta all’esclusione, alla proletarizzazione, al razzismo e al sessismo. La Francia contemporanea, è stato detto, è la sintesi conflittuale tra l’idea di una nazione “imperiale e colonizzatrice” e una Repubblica costruita sia sulle classi lavoratrici che sui “soggetti indigeni dell’ex impero coloniale”.
In questa prospettiva si potrebbe interpretare quello in atto come un conflitto dentro e contro i limiti del “patto repubblicano” con lo scopo di trasformare la stessa idea di Repubblica. Il Nuovo Fronte Popolare ha saputo, di nuovo, intercettare questa lotta molecolare. Un dato politico importantissimo e tutt’altro che scontato. Infatti, è fortissima la polemica contro la sinistra che viene dai quartieri popolari.
La critica, in sintesi, è la seguente: sono decenni che conoscete la situazione, quando siete andati al governo avete ceduto al razzismo di Stato, le vostre politiche hanno finito per peggiorare la nostra condizione, avete “tradito” e siete scomparsi. E quando avete bisogno dei nostri voti tornate a farvi vedere. E, nonostante tutto, le avanguardie politiche e sociali che fanno un lavoro ammirevole nei quartieri popolari, almeno quelli di Parigi e dell’Ile de France, sono riuscite a fare votare il Nuovo Fronte Popolare. Lo si capisce: con un governo del Rassemblement National saranno loro nel mirino.
La cineasta Alice Diop ha parlato di una “paura reale”, di “vita o morte”, rispetto all’arrivo al governo dei fascisti. C’è da crederle. Questa fiducia nel meno peggiopotrebbe non durare ancora per molto. Il rischio, più che concreto, è quello di una definitiva secessione sociale in un paese dove è tangibile la rabbia per l’odio subìto, sin da un sistema scolastico che, mi raccontano, riesce a essere spietato.
Il “Nuovo principe”
Con tutti i suoi limiti – divisioni interne, elitarismo, populismo – il Nuovo Fronte Popolare è riuscito a giocare i limiti della “disciplina repubblicana” contro se stessa, sia nel senso della lotta antifascista, sia nel senso della lotta contro il neoliberalismo. L’istanza gramsciana che consiste nel ridefinire tale disciplina nel senso del nazional-popolare può essere convincente. Consiste nel giocare l’idea di Repubblica contro i neofascisti e i neoliberali che la usano in maniera completamente diversa: i primi affermano il principio dell’autoctonia contro l’universalismo vuoto dell’illuminismo moderato e borghese; i secondi pensano a un universalismo selettivo che gira intorno all’etno-nazionalismo e individuano nell’idea di Repubblica un’identità senza storia, ma pronta ad essere usata per escludere chi – come la sinistra – contesta l’idea di selezione meritocratica.
Il gioco politico nel campo repubblicano non è occupato solo dalla sinistra, né è sufficiente porre la barriera contro il lepenismo rampante per pacificare il conflitto che si svolge contro gli indeboliti – ma non per questo arrendevoli – estremisti di centro. Macron e i suoi hanno usato la discriminante repubblicana contro la sinistra, o meglio contro la France Insoumise tacciata di estrema sinistra. Da ciò sembra derivare la denegazione, direbbero gli psicoanalisti, dell’esito del voto. I macronisti rimuovono il fatto che il Nuovo Fronte Popolare ha vinto le elezioni anche se non ha raggiunto una maggioranza assoluta.
Questo uso politico della “disciplina repubblicana” contro la sinistra, che l’ha egemonizzato, permette di capire che questo legame cambia nel tempo e può essere usato anche in maniera interessata. La sinistra l’ha usato in maniera conforme alla storia del dopoguerra contro gli eredi di Vichy. I liberal-liberisti sono stati costretti, ma cercano di cambiare il gioco. Questo tipo di cultura repubblicana è comunque soggetta a un rovesciamento delle prospettive basate su un rapporto di forza.
È in questa cornice che si affrontano tre blocchi non egemonici e divisi da una profonda contrapposizione. La loro contesa è sulla direzione da imporre nella lotta per l’egemonia. Per vincerla la sinistra ha bisogno come l’aria di mantenere e estendere la mobilitazione traendo dal conflitto la propria virtù. Non può permettersi di tradire, ancora una volta, questa pressione politica tangibile.
Il “Nuovo principe” sono le mobilitazioni. L’intelligenza politica sta nel prendere l’iniziativa, nei limiti dati, e riuscire a mantenerla. Si è manifestata un’iniziativa di massa che ha costretto le sinistre a unirsi. Questo è un vantaggio, ma ha bisogno di un progetto. Lo ha dimostrato il rilancio del Fronte popolare – formula che in Francia ha una storia suggestiva e ha ancora una presa sull’immaginario.
Lo spirito di scissioneche traspira dalle piazze che ho potuto vedere, e di cui sento da tempo, suggerisce la possibilità di una larga disponibilità alla lotta, capace di affrontare il fanatismo delle risposte che arriveranno. Il lavoro sull’unità serve a trovare, già ora, soluzioni creatrici a partire dall’iniziativa che viene dalla società.
Perché il Governo
Sono in diversi a definire quella in atto una crisi organica della Quinta Repubblica. Per Gramsci una crisi è organica quando si prolunga nel tempo e indebolisce tutto il regime politico. La classe dominante e le sue istituzioni presentano una perdita di autorità e consenso nella popolazione. La crescita dell’estrema destra lepenista che ha assorbito le sue propaggini razziste e, all’opposto, la tenuta e la crescita della sinistra lo dimostra. Macron credeva di sorprendere la sinistra divisa. Non solo ha perso la scommessa, ma ha visto rinascere ciò che pensava di avere domato. E, soprattutto, ha confermato il suo ruolo politico: il suo autoritarismo è un volano per l’estrema destra. La crisi di senso di chi ha recitato la commedia di bassa lega “né destra, né sinistra” sta producendo un contro-effetto: Macron sta spaccando sia il suo partito che la sua coalizione.
I segnali, nel momento in cui scrivo, sono molteplici. Forti sono quelli di una perdita di lucidità che produce di continuo pasticci dopo la decisione presa il 9 giugno di “dissolvere” il parlamento. Il risultato è stato quello di perdere un centinaio di parlamentari. Al prossimo voto legislativo è probabile che saranno ancora di più. Costerà cara la volontà di escludere la France Insoumise, e dividere il Fronte Popolare, ostinandosi nel non accettare il fatto che la tenuta del blocco centrista è dovuta ai loro voti. Sempre che la sinistra non si faccia scomporre da offerte di un governo che non avrà una lunga vita.
Mi chiedo a cosa serva insistere nel comporre un Governo in queste condizioni. Ho posto il problema a diverse persone. Mi ha colpito una delle risposte. Serve a farsi bocciare le proposte di riforma (abolire la “riforma” delle pensioni o l’aumento del salario minimo a 1600 euro, per esempio). E a fare campagna elettorale, in vista del prossimo voto, stando al governo. Mi sembra un’impostazione strategica. Su questo misuro la distanza con il tatticismo e il politicismo italiano. Qualcuno infatti penserebbe che è meglio stare all’opposizione per passare all’incasso. Francamente, ci avevo pensato anch’io.
Una crisi organica
È da almeno un decennio, a mia conoscenza, che si formulano ipotesi sugli esiti della crisi della Quinta Repubblica. Per ora non sembra una crisi di facile soluzione. La sfida del lepenismo è stata contenuta perché la sinistra ha dato i propri voti al blocco liberista. Quest’ultimo ha usato questi voti controla sinistra. Oggi la dissoluzione del macronismo, e la consapevolezza della sinistra, dimostrano che questo gioco non sarà più accettato. Alla sinistra non resta che lavorare all’ipotesi di vincere sia le elezioni presidenziali per almeno due mandati che quelle legislative intermedie rovesciando i rapporti con i liberisti e imponendo l’esigenza di votare il proprio programma. Se la sinistra ha dovuto accettarlo fino a oggi, a causa dei rapporti di forza, non è detto che non possa accadere lo stesso, a parti invertite. In questa prospettiva la tenuta politica del Nuovo Fronte Popolare potrebbe accelerare la dissoluzione dei centristi ai quali non è più possibile offrire sponde. Lo scontro sarà duro.
Effetti possibili di una rivoluzione
E se all’Eliseo, oltre che a Matignon, arrivasse una società insorgente capace di trasformarsi in una soggettività collettiva e politica: cosa accadrebbe? Sempre che riesca a difendersi dai colpi di coda che Macron – o chi per lui – potrebbe dare all’enorme rivolgimento di cui parlano Mélenchon & Co.?
Non è escluso che un simile rivolgimento possa affrontare una guerra aperta almeno su due fronti: il primo interno, ed è quello del neo-fascismo che conquisterebbe ancora più spazio tra quella cinica borghesia a-democratica che ha già lavorato per normalizzare il lepenismo nelle forme più diverse. Gli ultimi due anni di macronismo sono stati istruttivi a tale proposito. Il secondo fronte sarebbe quello esterno, a cominciare dalla Commissione Europea e dagli ineffabili mercati. Difficile immaginare, oggi, un trattamento greco per la Francia. Con uno dei tanti “Mario Draghi” – allora alla Bce – che comunicava con il suo stile robotico di avere praticato un waterboarding monetario al sistema bancario greco quando interruppe la liquidità e negò ai greci la possibilità di ritirare denaro dai bancomat. Sembrano scenari fantascientifici, ma chissà.
In fondo, al punto del precipizio dove siamo arrivati, forse un po’ fantascientifico è anche il programma del Nuovo Fronte Popolar che prevede una non proprio semplice riconversione di tutto ciò che è stato fatto in Francia, e in Europa, nell’ultimo mezzo secolo. Dal punto di vista economico, è un programma keynesiano e socialdemocratico che mira a riequilibrare la distribuzione della ricchezza e a stimolare gli investimenti attraverso la domanda e la spesa pubblica di redistribuzione. Una “politica riparatrice”. Diversamente da quanto dicono molti grilli parlanti non solo francesi questo programma è applicabile e razionale. Queste mosche del capitale però una cosa giusta l’hanno detta. Il programma della sinistra è un’eresia. Ma non nel senso che credono loro.
Al di là delle singole misure, il programma allude a una rivoluzione contro il lungo ciclo neoliberale iniziato negli anni Settanta – perché di questo si parla – partirebbe su posizioni moderatamente riformistiche e potrebbe essere chiamata a radicalizzarsi. Le risposte degli avversari potrebbero essere terribili. Come già è avvenuto, anche nella storia politica francese. Ma non c’è dubbio che si farebbe valere considerata l’esplosività che circola sensibilmente nella società francese. A quel punto, sempre che le cose vadano così, l’appello alla solidarietà e alla costruzione di un fronte internazionale perlomeno europeo da chi potrebbe essere raccolto?
Questa ipotetica svolta mi sembra radicale al punto da rischiare di lasciare da sola la Franciamentre altrove ci sarà l’estrema destra al governo. In Italia, ancora, quasi sicuramente. Chissà in Germania. Sempre che poi, alla Casa Bianca, non si trovi Donald Trump. In fondo, le destre stanno aspettando che vinca contro il tragico Biden. Eventualità non improbabile a quattro mesi dalle elezioni presidenziali.
Una situazione paragonabile a quella attuale è stata quella in cui si è trovata tutt’altra sinistra francese tra il 1981 e il 1983. Erano i primi anni della presidenza Mitterand. Allora fu vittoria piena, il programma era di rottura. Ma durò poco. Le enormi pressioni dei mercati, e delle élite interne, sbaragliarono i socialisti e la loro maggioranza. E ci fu una spettacolare contro-rivoluzione, una vera e propria rivoluzione passiva praticata all’interno della maggioranza. Fu quello l’inizio della sinistra che usa i propri voti per fare una politica contro il suo stesso elettorato, convincendolo che è l’unica cosa da fare. Su questa base è nato il neoliberalismo. Le conseguenze di questa storia devastante le conosciamo benissimo anche in Italia. In Francia sono state raccontate in un bel libro da Didier Eribon. Se vuole sopravvivere, in questa o in altra forma, il Nuovo Fronte Popolare dovrebbe fare il contrario di quanto fece Mitterand. Non sarà affatto semplice.
Una spinta fisica e mentale
In questo viaggio francese mi sono ricordato il detto di un maestro che ha tanto amato e vissuto la Francia, dopo avere lottato in Italia. “In Italia – mi diceva – si facevano le lotte, in Francia si trovava la teoria”. Sono passati tanti anni ormai nell’infelice paese al quale Pasolini augurò “di annegare nel suo bel mare”.
A me sembra che tra l’Italia e la Francia da almeno 15 anni – la prospettiva potrebbe partire però dalla metà degli anni Novanta – non solo l’ordine dei fattori di quella bella definizione si sia invertito, ma che il rapporto tra la teoria e le lotte sia ridotto ai minimi termini. E che il rapporto con ciò che accade in altri paesi sia ormai considerato, in Italia, solo sul piano della mimesi e della frustrazione. Tanto le lotte, quanto la teoria sono considerate da un punto di vista passivo.
In effetti le lotte si trovano in Francia con una concentrazione colossale percepibile anche con il corpo quando ci arrivi. C’è un contributo anche della teoria. Basta vedere cosa viene pubblicato in libreria. E quello che si scrive sulle riviste. E, con tutti i limiti che mi ricordano amiche e amici francesi, su un certo tipo di stampa. Io la trovo sempre interessante, passo un sacco di tempo a leggerla.
Mi scuserete, les amis, ma io vengo da una stampa che può raggiungere uno dei livelli più schifosi. In qualche modo li conoscete anche voi, con quei media che hanno “bollorizzato” l’atmosfera (dal miliardario reazionario Vincent Bolloré, proprietario anche di un impero mediatico).
Se c’è una cosa che porto con me al ritorno in Italia è una spinta fisica e mentale di massa che non ricordavo più. E che forse, in realtà, non ho mai conosciuto. Oltre alla commozione provata nel vedere nelle strade e nelle piazze la coreografia di massa e nell’ascoltare il coro che l’accompagna: “Siamo tutti antifascisti”. Detto in italiano. Con gli accenti sulle “T”.
Ciò che mi resta è un desiderio. Sentirlo insieme, potentemente, in un respiro. Non è impossibile dire: “Del possibile, sennò soffoco”.
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