Articolo pubblicato su ytali.it.
Guardo da 20 giorni i video e le immagini della mia pianura ed è uno strazio che non si ferma. Due alluvioni nel giro di 15 giorni, la seconda molto più devastante della prima e su un’area ancora più estesa. 14 fiumi hanno rotto gli argini in Romagna, 25 in tutta l’Emilia Romagna, 16 persone ci han rimesso la vita, e abbiamo perso migliaia di case, campi, orti ,vigne, stalle, animali affogati senza che si potesse far nulla, officine, fabbriche, negozi. Al ritirarsi graduale e lento delle acque quello che sembra certo è che la geografia di queste terre e di queste campagne e colline è stata radicalmente stravolta.
La causa non è una sola, sono molteplici: un evento estremo di portata straordinaria dovuto al cambio climatico (mai era caduta a monte e sul pedemontano cosi tanta pioggia in pochi giorni, nella precedente alluvione, quella del 1939, era caduta sulle stesse aree una quantità minore di acqua e in quegli anni sicuramente il territorio era meno dissestato); la scarsa manutenzione di fiumi, argini e torrenti; l’anomalo consumo e cementificazione di suolo agricolo negli ultimi decenni e la mancata rinaturalizzazione delle zone pedemontane e collinari e un eccessivo abbandono delle zone collinari.
Diciamo subito che tutte queste cause, eventi estremi uniti alle manchevolezze, sono presenti in molta parte del territorio italiano. L’Italia è da sempre un paese fragile, dissestato e ad alto rischio di frane e alluvioni almeno in un terzo della sua superficie. Un altro terzo è a rischio medio. Questo significa che tra alto (8 milioni) e medio rischio (5 milioni) sono circa 12 mln gli italiani che vivono in aree fragili. E il cambio climatico e la intensità di fenomeni estremi ne accentua la fragilità. Consultate i dati Ispra o qualunque altro dato statistico sulle alluvioni e le frane dovute al dissesto idrogeologico e ne troverete circa 140 piuttosto gravi, da quella del Polesine fino a quella delle settimane scorse. Io nei miei anni di lavoro a dirigere il settore ecologia del Pci e poi del Pds e poi in Parlamento ho visitato almeno 30 alluvioni gravissime in varie parti d’Italia (Genova e Liguria varie volte. Calabria e Sicilia, Toscana, Piemonte, Lombardia, Friuli, Marche) e mi sono battuta con altre e altri ecologisti per 30 anni perchè i governi nazionali e regionali assumessero finalmente la messa in sicurezza del Territorio come la più grande opera pubblica nazionale. Battaglia evidentemente persa, fino a questo momento. Nessun governo l’ha assunta, finanziata, realizzata. E gli esiti di questa mancata scelta sono davanti a tutti e tutte noi.
Noi ecologisti scientifici (tutt’altro che ideologici come ci ha chiamato Meloni giorni fa) avanziamo da oltre 40 anni proposte concretissime e voglio riassumerle proprio in questi giorni, perché guardando tutta quell’acqua e quel fango è ancora più incomprensibile come nessuno le abbia mai prese sul serio.
Le risorse necessarie alla prevenzione e alla messa in sicurezza del nostro territorio nazionale che si aggiravano dieci anni fa sui 40 miliardi di Euro, oggi sono sicuramente aumentate a 50/60 miliardi. Quelle realmente investite negli ultimi 30 anni sono state appena 1 o 2 miliardi di Euro. Al contrario per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e molto spesso per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 miliardi di euro in cinquant’anni e se sommiamo anche gli indennizzi post terremoti la cifra arriva a 213 miliardi di euro! Una cifra mostruosa! Che segnala meglio di molte altre quanto il nostro Paese non abbia mai scelto la prevenzione e la cura e come a causa di questa non scelta si siano spese il triplo delle risorse. Serve allora passare dall’incuria alla cura del territorio, dalla speculazione selvaggia alla pianificazione sostenibile, dalla edilizia costruttiva alla edilizia di recupero restauro e manutenzione, dall’intervento a posteriori alla prevenzione. E oggi va aggiunto un elemento, il cambio climatico accentua gravità e intensità dei fenomeni, le emissioni in atmosfera nonostante gli impegni di tutti i Governi mondiali non vengono diminuite e i tempi vengono sempre irresponsabilmente spostati in avanti. Dunque anche le opere di mitigazione sono da mettere nel conto della prevenzione.
Non possiamo più sprecare soldi e natura, non possiamo perdere altre vite umane , non possiamo far vivere milioni di persone in condizioni di insicurezza. Sul territorio poggia tutto, le persone, le strutture civili, le case, le fabbriche i negozi. Tra economia ed ecologia e tra ecologia e nuova occupazione vi sono molti più intrecci di quelli che tanti economisti assai poco innovatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, e un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell’Italia. Ecco allora da dove bisognerebbe finalmente cominciare:
Per finire direi che tra crescita e decrescita io mi sono sempre sentita stretta: un dilemma che non risolve i problemi così come li vedo nella realtà. Da diversi anni essendo io una persona di sinistra penso che una Sinistra nuova sia solo quella che sa dire e scegliere cosa può ancora crescere (svilupparsi) e cosa invece non può più crescere (svilupparsi), perché il limite delle risorse è una realtà già da anni e se ne sono accorti finalmente anche gli economisti. Mettendo al centro il tema della qualità sociale e ambientale dello sviluppo anche il lavoro e l’occupazione di conseguenza si trasformeranno e aumenteranno in alcuni settori mentre in altri diminuiranno, e figure lavorative oggi inedite dovranno affermarsi e altre usciranno di scena. Se procediamo per grandi settori direi che sicuramente devono e possono svilupparsi tuttii servizi materiali e immateriali al territorio e la messa in sicurezza dal dissesto idrogeologico e del patrimonio edilizio in aree sismiche, i servizi alla città e alla persona, il trasporto di merci e persone su ferro e mare, la manutenzione e il recupero e dunque l’edilizia di qualità e di manutenzione, le reti di qualsiasi genere. Mentre non possono più crescerel’industria automobilistica come è stata finora, l’edilizia di costruzione, il commercio basato solo sui grandi centri commerciali, il trasporto su gomma in tutte le sue forme, il consumo di territorio agricolo e la cementificazione e impermeabilizzazione del suolo agricolo.
La domanda dunque non è se i romagnoli ce la faranno, perchè si, ce la faremo a rialzarci dal fango anche se per alcune famiglie e imprese e piccole attività economiche sarà un’impresa titanica. La domanda per tutti (cittadini, Governo nazionale, Regioni, Comuni, osservatori, giornalisti, commentatori, associazioni di categoria, sindacati…) è un’altra: cosa va fatto perché non succeda più, a noi e ad altre popolazioni? Io credo vadano fatti gli interventi che ho proposto, senza i quali non ci sarà sicurezza ne per noi ne per chi verrà dopo di noi.
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