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Articolo pubblicato su “L’Unità” del 21.03.2025.

Piange la baronessa con il consulente speciale al seguito fermato solo dalla inesorabilità dell’orologio, perché al telefono i due autocrati hanno concordato le tappe della tregua. Draghi lamenta il tradimento del “nostro maggiore alleato e scandisce il proposito di “proteggerci difendendoci”. L’Europa risponde all’annuncio di un silenzio delle bombe con la volontà di riarmo e lo stanziamento di nuovi aiuti militari all’Ucraina. Tentando di sabotare le trattative, i governi del Vecchio Continente ancora non hanno percepito che la struttura delle relazioni internazionali è cambiata in maniera irreversibile.

Invadendo il vicino a motivo della sicurezza minacciata, Putin ha dato uno scossone militare all’ordine unipolare, che già di per sé era in palese affanno. Non per caso l’America fuggiva dalle molteplici situazioni di polizia in cui era impegnata. I costi delle guerre in nome della espansione della democrazia parevano insostenibili anche per la nazione indispensabile. Tornando alla Casa Bianca, con un progetto di radicale cesura, Trump ha strapazzato le compatibilità interne alla potenza non più egemone. Invece di agire nella situazione nuova ricorrendo a categorie aggiornate, Draghi con l’élite di Parigi e Berlino rimane aggrappato a una ideologia sorpassata, che non ha più sostegni nelle dinamiche reali. Costoro urlano perché il comandante in capo, preso atto che la guerra per procura è stata persa, ha telefonato all’Hitler moscovita per concordare una soluzione. Per chi sognava di vincere in trincea, sino a imporre il cambiamento di regime in Russia, si tratta indubbiamente di uno schiaffo non da poco.

Draghi si dispiace perché “c’è una differenza di vedute su chi è davvero il nemico”. Lui lo sa, e nega che la cessazione della scivolosa guerra di attrito sia una opportunità di manovra anzitutto per l’Europa, con le grandi democrazie in sofferenza proprio da quando il quadrante orientale è divenuto la terra del fuoco. Il modello di partito liberal è ovunque in affanno, e in America è stato bastonato dal voto non già a causa degli effetti delle esagerazioni della cultura woke, ma perché Trump ha denunciato che la guerra metafisica per la libertà portata avanti dai Democratici è incompatibile con la competitività economica e il mantenimento di antiche prestazioni sociali. Non è per un soprassalto di buonismo – le cannonate di Israele su Gaza, per Trump, sono sante e benedette – che l’amministrazione Usa apre alle rivendicazioni di Mosca. Non ha mezzi, uomini, denaro a disposizione per continuare ad esercitare una dispendiosa funzione di guida militare mondiale. La visione agonistica resiste, ma si calcola più utile concentrare le risorse nell’urto definitivo con la Cina. Da quando Pechino non si limita a produrre merci di scarsa qualità e a ricorrere alla pirateria informatica per stare al passo con i giganti delle nuove tecnologie, il duello per la supremazia è considerato inevitabile.

I vantaggi economici che l’ossatura imperiale assicurava non sono più garantiti, il privilegio del dollaro come moneta mondiale viene da più parti contestato, i profitti della globalizzazione che penetrava con le multinazionali in mercati vergini si sono esauriti. Il protezionismo, e il ritorno a forme di isolazionismo, nascono in Trump da questa realistica lettura dei rapporti di forza, che alimentano nelle aree più interne degli Stati Uniti la sensazione di un declino incombente. Per contrastarlo, gli uomini del nuovo presidente rifiutano il paradigma nato dalla convergenza tra l’indirizzo neo-con dei Repubblicani vecchio stile e le credenze dei Democratici alfieri del cosmopolitismo a colpi di bombe intelligenti. Nella sala Koch di Palazzo Madama si avvertivano segnali di nervosismo perché il mondo veniva raffigurato come un territorio in gran parte ostile occupato da tre autocrazie: quella novella di Washington, insieme ai regimi stagionati di Mosca e di Pechino, senza dimenticare l’Iran e le altre centrali del Male. L’America, in tale scenario, riconosce le esigenze geopolitiche di Putin nella speranza di invertire la lunga marcia che ha portato all’abbraccio tra Mosca e Pechino. All’appuntamento con Tucidide (e la sua famigerata “trappola”) la superpotenza in declino intende arrivare senza assumere come avversario il compatto blocco russo-cinese.

La piccola Europa resta aggrappata alla dottrina degli internazionalisti liberali sbigottiti dinanzi a un Occidente alle prese con un mondo non più unipolare. Draghi teme un’aggressione che straccia “i valori costituenti dell’Unione europea” e obbliga quindi a “difendere i confini”. Oltre ai nemici esterni (capeggiati da una Cina dal cuore ingrato, che ha disatteso la speranza di trasformarsi in una democrazia come conseguenza dell’adozione del mercato), irrompono guastatori interni che parlano il linguaggio del populismo e sfidano le istituzioni dello Stato di diritto. Uno dei più autorevoli teorici della friabilità dello stile di vita occidentale, G. John Ikenberry (A World Safe for Democracy. Liberal Internationalism and the Crises of Global Order, Yale University Press, 2020), esorta a preparare guerre difensive.

Il suo assunto è che il principio di sovranità, tipico di un ordine westfaliano gestito da enti territoriali autonomi, in un tempo globalizzato e polivalente aumenti il rischio di una catastrofe di civiltà. Sono eccessive le pretese delle periferie, e ciò spaventa il club di Stati democratici (il centro) che coltiva diritti, regole ritenute universali. “La cosa più importante, nel nostro ordine mondiale in disfacimento, è se ci sia un futuro per l’internazionalismo liberale come modo di organizzare le relazioni globali e rendere il mondo sicuro per la democrazia”. Da un cosmopolitismo liberale offensivo (esportazione della democrazia) si passa a un approccio più pragmatico e nondimeno ben armato (per “una difesa contro i pericoli esistenziali e le vulnerabilità reciproche che derivano dalla modernità stessa”).

Ossessionato dall’affermazione di spazi estranei ai valori dell’Occidente (“La roccia su cui è stato eretto il progetto liberale sembra sgretolarsi”) e dalle sparate grossolane di Trump (“Sotto la sua amministrazione, gli Stati Uniti hanno persino cercato di minare le istituzioni e le relazioni dell’ordine internazionale”), l’internazionalismo liberale pare destinato a ricompattarsi con il tycoon newyorkese nel comune astio verso la Via della Seta. Avverte infatti Ikenberry che “se il progetto di modernità della Cina di costruire un capitalismo senza liberalismo o democrazia avrà successo e supererà i suoi rivali occidentali, le implicazioni per il liberalismo saranno profonde”. Questa visione demoniaca del Celeste Impero, indicato come minaccia esistenziale per la legittimità dell’ordine mondiale a prescindere dalla sua effettiva condotta, allontana una governance efficace. L’Europa dovrebbe prendere sul serio l’esperienza di un’antica civiltà e prospettare programmi condivisi per la gestione dell’interdipendenza economica e della sicurezza. Non è irrilevante che, nelle attuali convulse fasi di crisi che sconvolgono gli assetti delle relazioni internazionali, soltanto Pechino continui a parlare il linguaggio del diritto, della diplomazia, della cooperazione.

Le ricette di Ikenberry, all’insegna di un interventismo ragionevole teso a “rendere il mondo sicuro per la democrazia”, rivelano le angosce di una impostazione sin troppo dottrinaria. “Le democrazie liberali – scrive – non sono palle su un tavolo da biliardo. Sono sistemi politici più complessi e vulnerabili che richiedono un contesto internazionale protettivo. In sostanza sono più simili alle uova, che richiedono la protezione dei cartoni delle uova. L’edificazione dell’ordine liberale è fondamentalmente un progetto per realizzare cartoni delle uova”. Il problema è che, maneggiando così tante uova sullo scacchiere, si rischia di combinare la frittata. È quanto potrebbe provocare von der Leyen, la quale torna a riciclare il motto per cui se vuoi la pace devi preparare la guerra. Il suo consigliere Draghi garantisce che attraverso la produzione di missili ci sarebbe “certamente un maggiore ritorno industriale”. Già Marx aveva censurato gli esiti catastrofici delle tradizionali prassi di realpolitik orientate agli armamenti.

Tra le contese divampate nelle classi dirigenti europee dell’Ottocento, egli notava, “con l’aiuto del vecchio e fidato si vis pacem, para bellum, ecco cominciare una di quelle guerre di civiltà la cui futile barbarie ricorda i più bei tempi dei saccheggi cavallereschi, mentre la loro sottile perfidia appartiene in esclusiva alla più moderna età della borghesia imperialista”. Invece di annunciare un gigantesco piano di riarmo, per essere riconosciuto tra alcuni lustri come un partner temuto grazie ai fucili, l’Europa dovrebbe giocare le sue carte politico-culturali. Il suo ruolo risiede nella progettazione delle istituzioni di un nuovo ordine multipolare in grado di gestire una sicurezza cooperativa (confini, armi, commercio, ambiente, malattie, flussi migratori). Peccato però che, per farsi valere con la visione che caratterizza ogni grande politica, capace di una integrazione e convergenza delle diverse potenze anche se “illiberali”, servano statisti. Una merce, purtroppo, diventata rara nella post-politica ridotta a comunicazione volgare o alle sparate di supertecnici che con i carri armati promettono la riduzione delle bollette.

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