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La tormentata formazione della nuova Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen è stata accompagnata da un dibattito sulla natura stessa di questa istituzione. Essa rappresenta il potere esecutivo europeo, pertanto, secondo i Trattati, i suoi componenti dovrebbero rispondere a un programma che abbia al centro l’interesse comune. Il fatto che i componenti della Commissione siano diretta espressione dei 27 Paesi membri dell’Unione, e soprattutto che i singoli Commissari vengano indicati dai rispettivi Governi nazionali, non coincide con l’idea che l’esecutivo sia legato a un programma condiviso da una maggioranza politica; non è un caso, infatti, che nella nomina dell’on. Fitto sia esplosa la contraddizione circa il suo ruolo all’interno di una Commissione presieduta da una esponente che il “suo” partito europeo non ha votato. Tuttavia, era evidente fin dall’inizio che il Governo italiano avrebbe, in ogni caso, ottenuto un ruolo importante in quanto Paese fondatore nonché terza economia dell’Unione. L’articolo 17 del Trattato recita: “La Commissione promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine”, nonostante ciò rimane diffusa la convinzione che ciascun commissario stia lì per difendere l’interesse del proprio Paese.

Già nel Consiglio europeo che designò la Presidente della Commissione si polemizzò sul fatto che la Presidente Meloni, non votando a favore, avesse fatto prevalere il suo orientamento politico rispetto al ruolo istituzionale, tuttavia, con la formazione dei Partiti europei non dovrebbe essere acquisito il fatto che si possa instaurare una dinamica maggioranza-opposizione anche in Europa?

In Europa non è esattamente così, poiché, essendo il Consiglio l’istituzione più potente, la rappresentanza del Paese, come si è visto, fa premio sullo stesso orientamento politico. Un bel pasticcio.

Questa confusione renderà particolarmente interessanti le audizioni che i candidati designati dovranno sostenere di fronte alle Commissioni del Parlamento europeo in cui, insieme alla competenza legata al proprio portafoglio, uno dei criteri che riprenderà nuovo vigore sarà quello di misurare il tasso di europeismo dei vari candidati.

La stessa forza attribuita alla Presidente von der Leyen nella guida della Commissione, istituzione che per sua natura dovrebbe essere collegiale, è data dalla sua disponibilità di sottostare ai voleri del Consiglio e operare nei limiti tracciati dalla volontà dei Governi.

Il risultato di questo processo è una proposta di Commissione in cui il Partito popolare europeo ha da solo la maggioranza assoluta, una presenza di Socialisti e Liberali molto ridimensionata, i Verdi, per il fatto che la designazione dei Commissari è prerogativa dei Governi nazionali, sono completamente assenti e, seppure dovessero votare contro in Parlamento, la loro defezione sarebbe compensata dal voto di tutto o in parte l’ECR (Gruppo dei Conservatori e Riformisti). In conclusione, i Verdi, decisivi per la maggioranza che ha eletto Ursula, ora non lo sono più per il voto della Commissione nel suo insieme.

Von der Leyen ha replicato lo schema Macron dando dimostrazione di abilità e di un cinismo difficile da eguagliare.

In conclusione, è evidente un ulteriore spostamento a destra anche negli equilibri interni alla Commissione insieme a un accresciuto peso dei Paesi dell’Est europeo, a cominciare dalla Polonia, e di quelli cosiddetti “frugali”, con buona pace della proposta Draghi sul debito comune.

Comunque la si pensi, gran parte di questa babele è generata dall’attuale assetto istituzionale dell’Unione.

Aver affastellato Trattati e non aver scelto tra modello confederale e federale ha prodotto questo mostro difficilmente comprensibile dagli elettori, i quali reagiscono disertando sempre più il voto.

Gli ultimi risultati elettorali, al di là dell’illusione ottica data dal ricalcolo degli elettorati per l’uscita dello UK, segnalano una ulteriore flessione complessiva dell’1,35%, con un piccolo incremento nei Paesi dell’Est (+ 0,34) e del Nord-ovest (+1,7), cui fa da contraltare il crollo nei Paesi del Sud (– 7% complessivo), con punte di – 17% in Grecia, – 11% in Spagna e – 4,8% in Italia dove, per la prima volta, la partecipazione è scesa sotto il 50%.

L’Italia è il Paese che nel 1989, insieme al voto per il Parlamento europeo, votò anche un referendum per conferirgli il potere costituente. In quell’occasione la partecipazione al voto fu dell’80,68% e la vittoria del “Sì” al referendum raggiunse l’88,03%.

Oggi siamo in un regime che alcuni, non a torto, definiscono di “Europa reale” – in contrapposizione all’“Europa realizzata”, che allude all’idea di un processo d’integrazione in corso – in cui si perpetua il metodo funzionalista del passo dopo passo illudendosi che ciò possa produrre quel miracolo di coesione politica che non si è voluto perseguire attraverso la strada più democratica e lineare e cioè quella di una Costituzione europea.

Intanto la guerra russo-ucraina, avendo superato via via ogni linea rossa, è a un passo dall’evolvere in un confronto diretto tra NATO e Russia, e c’è chi teorizza che il futuro dell’Europa sarà quello del “contenimento” della Russia attraverso una tensione perpetua, fatta di guerra guerreggiata o minacciata. Un cambiamento che di per sé modifica alla radice i fondamenti della nascita stessa della Comunità europea.

Quanto al Medio Oriente, di fronte allo sterminio di un intero popolo e alla sofferenza di chi spera di riportare quel che rimane degli ostaggi a casa, impressiona l’impotenza dell’Ue che rasenta l’indifferenza, mentre la situazione precipita ulteriormente con gli attentati israeliani in Libano e in Siria, ed è sempre più chiara la volontà di liquidare ogni diritto del popolo palestinese a esistere come tale, costi quel che costi.

Il dibattito europeo si concentra oggi su due documenti commissionati rispettivamente a Enrico Letta e a Mario Draghi, il primo sul Mercato interno, il secondo sulla Concorrenza.

Non vi è dubbio che, soprattutto il Rapporto Draghi, colga punti reali della crisi europea quali l’inadeguatezza delle risorse del bilancio europeo (1,1% del PIL) a sostenere politiche di impatto continentale e la necessità di superare la concorrenza interna attraverso una vera politica industriale europea; tuttavia, in quale scenario si colloca tutto questo e, per quali politiche? E, ancora, attraverso quali strumenti?

Ciò che sorprende è quanto questa “Europa reale” sia divenuta l’orizzonte culturale e politico in cui la maggior parte delle forze, comprese quelle che si definiscono “europeiste”, si muovono. Al punto che l’opinione espressa da Barbara Spinelli (Il Fatto Quotidiano, 14 settembre) a me è sembrato un raggio di sole nella nebbia, solo per aver cercato di collocare il piano Draghi nelle scelte di riarmo che sembrano essere il volano principale per il rilancio dell’economia europea su scala continentale, nonché della politica di ricerca a esso collegata.

In passato, quando si parlava di difesa comune, uno degli argomenti a favore era quello che le spese militari di ogni singolo Paese si sarebbero ridotte proprio grazie all’integrazione tra i diversi sistemi; oggi, questo argomento viene ribaltato e si sostiene che dal dopoguerra abbiamo già beneficiato di quel dividendo di pace che ci ha consentito di poter sostenere il welfare; oggi, è tempo di impegnare somme ingenti al riarmo. Tuttavia, la questione non è meramente economica, essa chiama in causa, come sostiene Barbara Spinelli, il destino stesso dell’Unione ed il suo ruolo in un mondo in cui la guerra rischia di essere di nuovo lo strumento per definire nuovi equilibri o per difendere quelli che si ritenevano acquisiti.

I Rapporti di Letta e Draghi – quest’ultimo accolto, soprattutto in Italia, da ovazioni quasi unanimi – non affrontano il tema delle istituzioni europee, anche perché non era quello l’oggetto dello studio loro richiesto; eppure, entrambi indicano nell’estensione del voto a maggioranza del Consiglio la riforma necessaria a rendere le procedure più rapide, una panacea che dovrebbe sbloccare le attuali lungaggini burocratiche. Tuttavia, anche su quest’ultima questione, sono pronti ad aggirare le eventuali difficoltà dovute alle necessarie modifiche dei Trattati, suggerendo vie d’uscita quali le “passerelle” o ulteriori Trattati ad hoc tra alcuni Stati rendendo così ancor più fitta la giungla della governance europea.

Il rischio di guardare il dito e non la luna, in questo caso, è serio poiché uno dei tratti distintivi di questa “Europa reale” sta innanzitutto nello strapotere del Consiglio prima ancora che nelle sue modalità di voto.

In quest’ultimo si assommano poteri di indirizzo, legislativi ed esecutivi e perfino poteri giudiziari (decisioni riguardanti le sanzioni conseguenti al non rispetto dell’art. 7 dei Trattati sulla democrazia e lo Stato di diritto che meglio sarebbe stato affidare alla Corte di Giustizia).

Dove mai si è visto in un sistema democratico una tale concentrazione di poteri?

Le materie su cui il Consiglio decide all’unanimità sono quelle che i Governi hanno ritenuto sensibili e irrinunciabili quali: la politica estera e di sicurezza, l’adesione di nuovi Stati, l’imposizione fiscale, la sicurezza sociale e la protezione sociale, la giustizia e gli affari interni, le finanze dell’Ue.

Sono i Governi, e solo essi, ad aver sottratto al “metodo comunitario” queste politiche su cui vogliono mantenere un controllo esclusivo o prevalente, come nel caso dell’immigrazione, utile a manovrare il consenso delle proprie opinioni pubbliche.

Qualora il Consiglio raggiungesse l’unanimità su queste materie, il Parlamento europeo non avrebbe, secondo i Trattati attuali, alcun potere di intervento (meno che mai i Parlamenti nazionali), se non quello di ricevere informazioni ex post.

Ora è pensabile superare l’unanimità senza porsi questo problema?

I cosiddetti “europeisti” che ripetono questa proposta a pappagallo come un mantra, ne sono consapevoli?

È pensabile – su queste fondamentali questioni che comprendono la pace e la guerra, le politiche sociali, la fiscalità – dare ai Governi questo ulteriore potere?

Capisco la logica dei Governi, I quali, appaiono sempre più insofferenti di fronte al parlamentarismo e allo stesso ruolo delle parti sociali, e vedono in questa Europa uno spazio in cui annullare le proprie responsabilità o quanto meno confonderle agli occhi delle proprie opinioni pubbliche. Suscita altrettanta preoccupazione il fatto che la campagna sul superamento dell’unanimità sta conquistando consensi anche in ambienti insospettabili.

Infine, se si osservano le dinamiche intergovernative e anche quelle tra Consiglio e Commissione europea, il tratto dominante sembra essere quello del ricatto reciproco e dello scambio, fino ad arrivare a concessioni da parte della Commissione (custode dei Trattati) su principi irrinunciabili quali il rispetto dello Stato di diritto, tanto che il Parlamento europeo ha dovuto reagire denunciando la Commissione alla Corte di Giustizia.

Lo stesso rapporto che la Commissione von der Leyen intrattiene con una parte della destra sembra sfuggire a criteri di trasparenza e cedere anch’esso all’aurea regola del do ut des, che potrebbe essere il motto di questa “Europa reale”. Un’Europa à la carte, sempre più schiacciata sugli interessi USA, non avendo costruito la consapevolezza di un “proprio” interesse che non fosse la sommatoria di quelli nazionali o del conflitto tra di essi. I Governi hanno come obiettivo quello di rimanere in carica e, se possibile, essere rieletti dai propri concittadini; quindi, per loro natura – come già dimostrato dall’esperienza della Convenzione del 2003 – non saranno essi i motori di una visione democratica che liberi le potenzialità dell’Unione e le dia un ruolo nel mondo, diverso da quello in cui ci stanno portando a vivere.

Fuori da questa prospettiva, si moltiplicherà il ricorso, già sperimentato con insuccesso, a escamotage che complicano le procedure, confondono le responsabilità (non a caso quando ci si riferisce all’Ue non si parla più di governo ma di governance) logorando ancor più il rapporto con gli elettori. A questi ultimi, anche quando si tratta di decisioni comuni, non viene riconosciuto alcun ruolo di effettiva partecipazione democratica che vada oltre il recinto della dimensione nazionale.

A questo proposito, vale la pena ricordare le parole che Altiero Spinelli pronunciò subito dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo, nel 1984 della proposta di Costituzione per l’Europa: “Si è trattato solo di un primo passo, e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e al mercanteggiamento tra Governi, avremo la liquidazione del progetto”.

Purtroppo da allora le cose sono cambiate in peggio e lo stesso Parlamento europeo pare seguire le logiche intergovernative dominanti tanto che gli stessi gruppi politici dimostrano scarsa tenuta nelle votazioni proprio perché si scompongono a seconda degli interessi nazionali, per non parlare delle posizioni sulla guerra dove, fin dall’inizio, il Parlamento nella sua maggioranza, ha sposato la linea del confronto armato con la Russia fino alle estreme conseguenze. Anche il nuovo Parlamento pare seguire questa linea, come comprova il voto della risoluzione del 19 settembre 2024, al cui art. 8 si “invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni all’uso dei sistemi d’arma occidentali forniti all’Ucraina contro legittimi obiettivi militari sul territorio russo”.

E allora, chi potrà salvare il progetto europeo?

Questo interrogativo dovrebbe assillare ogni organizzazione della società civile, in primo luogo i sindacati, perché è vero, purtroppo, che il potere che i Governi esercitano in Europa deriva dalla delega che anche tacitamente è stata loro affidata.

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