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I conti elettorali veri, insegnavano una volta i maestri di politica e di giornalismo, vanno fatti sui voti assoluti, non sulle percentuali. Tanto più se le percentuali sono falsate dalla discesa libera del numero dei votanti. Esempio: FdI vanta da due anni un 26,5% ottenuto alle politiche del 2022, ma tenendo conto dell’astensione quel valore è pari al 17% dell’intero corpo elettorale. Lo stesso vale adesso per le europee: le percentuali di tutti i partiti andrebbero ricalcolate, e scenderebbero di conseguenza, sulla base di quell’implacabile 50% di astenuti che continua a segnalare l’agonia della democrazia rappresentativa senza che nessuno se ne preoccupi granché.

A maggior ragione i conti cambierebbero se si avesse la pazienza di aspettare i valori assoluti invece di fare la gara a chi azzecca per primo le percentuali nelle maratone televisive. Perché poi, con i valori assoluti, arrivano le sorprese. Infatti, sorpresa! Guardando i valori assoluti si scopre che Giorgia Meloni detta Giorgia, nel frattempo proclamata urbi et orbi titolare di un salto dal 26,5 al 29% che proverebbe un aumento dei consensi rispetto al 2022, in realtà rispetto al 2022 di consensi ne ha persi seicentomila: FdI passa infatti dai 7 milioni e 300.000 voti delle politiche ai 6 milioni e 704.000 delle europee. Idem per Forza Italia e Lega, che perdono 400.000 voti ciascuno. Aumentano invece di 250.000 voti il PD, e di 500.000 AVS, mentre il M5S ne perde ben 2 milioni e 300.000. Non solo. Nel suo insieme, la coalizione di centrodestra mantiene ma non aumenta il suo bacino di voti, come del resto è avvenuto anche nel 2022 e avviene dal 1994 in poi, mentre la somma dei partiti d’opposizione sarebbe teoricamente superiore a quella della maggioranza di governo. Ma com’è noto il centrodestra si avvale da sempre di un vantaggio coalizionale su un centrosinistra perennemente diviso.

Questi dati non smentiscono, sia chiaro, l’egemonia politica e culturale che la destra può rivendicare oggi rispetto alla sinistra, ma ridimensionano l’entità numerica dell’“onda nera” che attraversa l’Italia. Così come andrebbe correttamente dimensionata – cosa tutt’altro che semplice data la disparità dei sistemi politici nazionali che convergono nelle elezioni europee – quella che attraversa l’intero continente.

Sul piano storico e simbolico l’avanzata delle destre più o meno radicali, soprattutto in Francia, Germania e Austria – ma la destra cresce anche in Bulgaria, Lussemburgo, Belgio e guadagna poco o nulla in Spagna, mentre l’Europa del Nord va in controtendenza e premia socialisti e Verdi – è un dato disperante che riporta le lancette della storia a un secolo fa, con la differenza che un secolo fa a contrastare il fascismo e il nazismo c’erano un socialismo e una socialdemocrazia forti della Rivoluzione russa del 1917, mentre oggi a contrastare sovranismi, nazionalismi, razzismi, tradizionalismi e autoritarismi di varie gradazioni ci sono sinistre pallide e riplasmate dal neoliberalismo e dall’abiura della propria tradizione. Se a questo si aggiungono gli effetti devastanti dell’onda nera sull’asse franco-tedesco fin qui pilastro dell’Unione, che si sommano ai molteplici effetti disgreganti dell’Unione stessa indotti dalla guerra d’Ucraina, è evidente che la costruzione europea rischia un balzo all’indietro più che una battuta d’arresto, tanto più se i venti di guerra continueranno a spirare trasversalmente da destra e da sinistra.

L’allarme va dunque tenuto alto più di quanto lo farebbero suonare i dati elettorali nudi e crudi. Sul piano numerico, infatti, i danni dell’onda nera sembrano più contenuti. I due raggruppamenti di destra, Conservatori e riformisti (Meloni) e Identità e democrazia (Le Pen e Lega), guadagnano rispettivamente 4 e 9 seggi, ma l’attuale maggioranza tiene con i Popolari che guadagnano 10 seggi e malgrado i Socialisti e democratici ne perdano 4 e i liberali di Renew ne perdano ben 23. Formalmente dunque Ursula von der Leyen ha i numeri per puntare a un secondo mandato all’insegna di una continuità “pro-Europa, pro-Ucraina e pro-Stato di diritto”, come lei la definisce. Ma in realtà si sa che i giochi sono già aperti per un allargamento o ai Verdi o alla destra di Conservatori e riformisti, cui i Socialisti hanno però opposto un “giammai”. È un quadro perfetto per i giochi di Giorgia Meloni ma aperto anche a quelli di Marine Le Pen, giacché sulla carta è possibile anche una maggioranza di centrodestra (Popolari, Liberali, Conservatori, Identità e democrazia), ancorché più risicata di quella attuale. Ma se anche la maggioranza attuale fosse confermata, è evidente che l’onda nera la condizionerebbe dall’esterno e sui contenuti (immigrazione, questione sociale, politiche di bilancio) molto più di quanto non sia già accaduto negli ultimi anni, tanto più che agli equilibri del Parlamento di Strasburgo vanno aggiunti quelli del Consiglio europeo, già ben presidiato da destra da Meloni e Orbàn ma destinato a spostarsi ancor più a destra se Le Pen (da oggi ufficialmente sostenuta dai gollisti) vincerà le elezioni francesi indette repentinamente da Macron o se Scholz dovesse cedere lo scettro a un popolare.

Mai come oggi tuttavia il quadro elettorale non basta a fare luce sul quadro politico reale. Non solo per i tassi di astensionismo sempre più elevati in tutto il continente. Ma soprattutto perché resta forte l’impressione che le urne abbiano dato sì entità e contorno ai venti di destra, ma non abbiano né dissipato né profilato con maggior precisione i venti di guerra. Rimossa o evitata dalla campagna elettorale, la guerra – d’Ucraina soprattutto – resta rimossa ed evitata nei commenti post-elettorali. Nicola Fratoianni fa bene a sottolineare che l’asse guerrafondaio di Scholz e Macron è stato pesantemente penalizzato dal voto. Ma che dire del consenso riconfermato a Donald Tusk, quello che poche settimane fa ci ha informato che siamo in una fase prebellica da un paese come la Polonia, che nell’Europa di oggi (e per volontà degli USA) conta più della Germania? E come interpretare il crollo dei Verdi a livello continentale e segnatamente in Germania: come un no alla transizione ecologica, o come uno schiaffo alla loro posizione ultra bellicista?

Tutto lascia presumere che malgrado i mal di pancia filo-putiniani della destra più radicale l’allineamento atlantista sull’escalation ucraina resterà quello che è almeno fino alle presidenziali statunitensi, e che l’Europa continuerà a restare senza voce sul massacro di Gaza e sulla sempre possibile estensione del conflitto mediorientale. Curiosamente, e malgrado Giorgia Meloni, per una volta potrebbe essere proprio l’Italia a fare una qualche differenza. La lista di Santoro com’era prevedibile non ha raggiunto il quorum, ma abbiamo eletto candidati pacifisti nel PD, in AVS e nel M5S, che si spera facciano sentire la loro voce a Strasburgo. AVS è la forza politica più premiata dal voto, non solo per la sacrosanta difesa dello Stato di diritto rappresentata dalla candidatura di Ilaria Salis, ma anche per il no all’invio delle armi in Ucraina, per il no all’Europa-fortezza rappresentato dalla candidatura di Mimmo Lucano, per un programma orientato al rilancio del welfare e dei diritti sociali e civili. Sarebbe l’abc di un rilancio della sinistra, se anche Elly Schlein, più sicura della propria leadership, cominciasse a osare di più di quanto non abbia saputo o potuto fare finora, disallineandosi dal mainstream atlantista. E se il M5S decidesse finalmente che cosa vuol fare da grande. Il laboratorio politico italiano non dorme mai, come ben sappiamo. Dopo decenni di sperimentazioni a destra, chissà che non si rimetta a girare a sinistra.

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Un commento a “Europee, luci nel vento”

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