1.
Inizio con un primo ordine di considerazioni. Mentre sui piani di un confronto geopolitico, costituzionale e diplomatico proposti in altri contributi della giornata si possono cogliere ipotesi di nuovi scenari, nuove Helsinki per un futuro che nel suo ordine (o forse disordine) di lunga durata non possiamo ancora prefigurare, sul piano ambientale esistono invece già delle soglie di non ritorno: il rischio concreto di ulteriori occlusioni nel pensarlo, immaginarlo,il futuro.
Sostanzialmente, da tanti contributi, abbiamo capito che i tempi di un complessivo rinnovamento dell’attuale forma economica – i tempi di quella che chiamo con Nicoletta Dentico una ‘conversione’, piuttosto che una ‘transizione’ ecologica (Gagliasso, 2021) – sono ormai agli sgoccioli.
Era già così prima della guerra, e tutti gli obbiettivi verso i quali già troppo lentamente ci stavamo avviando – dall’economia circolare, alle tecnologie green, alla produzione di energia da fonti rinnovabili, così come la crescita delle competenze sociali diffuse sullo stato della salute della biosfera e sull’emergenza climatica – erano ancora fumosi o perlomeno realizzati in misura ancora insufficiente per rispettare i valori già fissati nei Protocolli di Parigi nel 2015 e riaggiornati nella conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 26) del novembre 2021 a Glasgow.
Tutto ciò rischia adesso di essere vanificato dalla rapida marcia indietro che la guerra nel cuore dell’Europa va producendo. L’abbiamo sotto gli occhi: nuovi rigassificatori di metano, ricupero del carbone, nuove aperture sul nucleare, recupero, anche finanziario, del ritorno al petrolio.
Ma non voglio insistere solo su questi aspetti generali, economici ed energetici, che altri hanno già trattato in modo approfondito.
Insieme alla generale regressione temporale e poco riconosciuta nei suoi contraccolpi ecosistemici, la guerra sta già generando danni molto seri negli ecosistemi a breve e lungo raggio. Tutte le guerre lo fanno, la differenza con questa è che ora noi ne siamo ben più consapevoli che nel secolo passato.
Non parlo soltanto di rischi locali e della devastazione sugli esseri umani, ma di ferite ben visibili agli assetti ambientali, simili a quelle già studiate nel caso di guerre precedenti, come gli effetti duraturi dei defolianti in Vietnam, o quelli dei pozzi petroliferi incendiati in Iraq.
Oggi in questa guerra si tratta della combinazione tra gli elementi di distruzione tipici di qualsiasi guerra ad altissima intensità distruttiva, combattuta con armi molto avanzate, e le caratteristiche della regione geografica ed ecologica che attualmente ne è la prima vittima. Mi riferisco in particolare al Donbass, la zona più industrializzata in cui si combatte e dove, attraverso le osservazioni satellitari, è stato già rilevato che il suolo si comporta in modo strano, sprofondando e alzandosi in un vasto territorio percorso da centinaia di chilometri di gallerie, alcune delle quali inondate da acque portatrici di elementi chimici pesanti, residui radioattivi, sostanze tossiche, che minacceranno l’approvvigionamento idrico dell’intera regione. Non mi riferisco solo a fenomeni di carenza oggi (bombardamenti di acquedotti e depositi di cibo sono strumenti di carneficine per ‘prendere per fame e sete’ il nemico che mescolano tratti d’orrore arcaici con quelli avveniristici), ma al fatto che a ciò si affianca il rischio di una devastazione durevole: elementi di alta nocività per qualsiasi organismo vivente che si depositano e resteranno presenti nelle falde. Un dono atroce per le generazioni a venire, a prescindere da chi tra i belligeranti vivrà in futuro su quelle terre. In passato queste zone erano state già sede di test nucleari, raggiungendo livelli di radioattività tali per cui gli scienziati ucraini avevano segnalato, per tutta la regione, rischi che potevano essere anche maggiori rispetto al disastro Cernobyl.
“L’area è stata uno degli epicentri minerari del mondo, con centinaia di estrazioni attive e inattive, una catastrofe ecologica in slow motion, in grado di contaminare acqua e suolo, sulla quale la guerra ha riacceso i riflettori e che rischia di avvelenare ancora di più. Secondo un report della Banca mondiale, in Donbass ci sono 900 siti industriali, 40 fabbriche metallurgiche, 177 siti chimici ad alto rischio, 113 siti che usano materiali radioattivi, 248 miniere, 1.230 chilometri di tubature che trasportano gas, petrolio e ammoniaca, 10 miliardi di tonnellate di rifiuti industriali. Una polveriera che gli otto anni di conflitto, e questa invasione russa, rischiano di far detonare” (Cotugno, 2022).
Soprattutto l’inquinamento del fiumeDonetsk con piombo, arsenico, mercurio era già sotto osservazione (e dal 2014 l’abbandono delle fabbriche e degli impianti avevano aumentato la potenzialità di disastri ambientali per mancanza di manutenzione). Adesso, naturalmente, nel pieno degli avvenimenti, con la guerra in corso, non abbiamo la possibilità di monitorare i fenomeni in questione, ma fin d’ora è lecito affermare che nell’epicentro del conflitto è in atto una vera e propria catastrofe ecologica di immane portata.
Ma il panorama delle conseguenze ambientali è parziale se tiene conto dell’inquinamento di sostanze tossiche solo dal punto di vista quantitativo. Sono le circolarità viventi che vengono colpite (per esempio anche le bombe inesplose continueranno a rilasciare nei suoli, dove si coltiva, dove vivono gli alberi, sostanze tossiche di cui quindi gli animali e gli umani si nutriranno). Già dal 2014, sette anni di guerra avevano distrutto per effetti collaterali dei bombardamenti circa 530 mila ettari boschivi compresi ben diciotto parchi naturali, unici al mondo (foreste incontaminate e zone umide del delta di due fiumi). Si prepara così enorme futura perdita di mondi vegetali e animali per devastazioni a lungo termine. Ricordiamo anche che il suolo così inquinato contiene anche una biomassa microbica intorno alle migliaia di tonnellate, essenziale per la vita, a sua volta destinata a essere completamente stravolta in modi imprevedibili da quello che sta avvenendo. Un dato solo, folgorante: l’Ucraina, che occupa il 6% della superficie in Europa, possiede (possedeva?) ben il 35% della biodiversità dell’intero continente.
2.
Passo ora ad un secondo ordine di considerazioni. Che cosa succede sul piano della ricerca scientifica. Facciamo mente locale a una ben nota ovvietà metodologica, ma che in questo frangente necessita di specifica attenzione: la scienza si basa su pratiche di condivisione transnazionali costanti e intense. Queste spesso non travalicano gli interessi economici degli Stati, ma riescono a superare quelli politici. Emblematicamente, perfino in questa situazione di guerra, abbiamo assistito all’abbraccio tra l’astronauta americano Mark Vande Hei e i colleghi russi Pyotr Dubrov e Anton Shkaplerov tornati sulla terra. Ecco, con la continuazione del conflitto, è difficile che di questi abbracci se ne possano vedere ancora. Ricordiamo anche che proprio i primi a condannare l’invasione dell’Ucraina sono stati centinaia di scienziati russi con dichiarazioni che li esponevano in prima persona a gravi rischi personali. Frontiere insormontabili per la ricerca le avevamo conosciute ai tempi dell’Urss, laddove per lunghi decenni intere comunità di ricerca sono diventate mute negli scambi con l’Occidente (e molte sono state perseguitate fino all’internamento nei gulag).
Lo sappiamo da sempre ormai: la dimensione della collaborazione transnazionale è una componente essenziale della democrazia scientifica, della democrazia dentro la scienza e la scienza, senza democrazia, cessa di esistere.
Quella che può sopravvivere, anzi prosperare, anche con un tasso abbastanza basso di democrazia è la tecno-scienza, per esempio la ricerca bellica, una ricerca scientifica che non conosce confini e ha ormai molti e ben precisi sponsor.
Regolarmente anche la ricerca militare applica il metodo scientifico, a prescindere dall’etica della ricerca, lo applica su tutte le scale e su tutte le innovazioni delle armi anche ‘convenzionali’ (non solo necessariamente, sulle armi nucleari o tattico-nucleari). Per esempio, a proposito del ‘buon uso’ del metodo scientifico, si sa che le mine antiuomo sono state accuratamente perfezionate per mezzo di un approccio di tipo trial and error: oggi sono equipaggiate con una tecnologia di intelligenza artificiale molto sofisticata ottenuta osservando quello che succedeva in Afghanistan quando i ribelli, per farle saltare, mandavano avanti le loro greggi di pecore. Ecco come risultato di successo, oggi le mine sanno distinguere tra il passo umano e il passo di un animale, possono elevarsi in altezza e essere più devastanti delle mine a grappolo di anni fa.
Quel tipo di ricerca progredisce quindi e usa il ‘test’ dei campi di battaglia come verifica di ‘efficienza’. Si affina la dimensione tecno-scientifica, ma la ricerca di tipo teorico, la ricerca di fondo, di base, quella che necessita di tempi liberi e lunghi, di libertà mentale creativa e non centrata solo sull’urgenza del prodotto è più a rischio perché non sopporta che la democrazia decresca e che il dialogo si interrompa.
Certo, sappiamo bene che la democrazia in senso lato ovunque non gode di buona salute, e sappiamo anche che lo stesso rapporto tra democrazia e ricerca scientifica, negli ultimi anni, è entrato in sofferenza. Un intero numero della rivista Notizie di Politeia è stato dedicato proprio a questa difficoltà di coniugare i principi della democrazia politica, civile, con quelli della democrazia scientifica, alla difficoltà di salvaguardare il principio che faceva dire a Popper che la scienza si dà solo in una società libera (Rufo ed., 2017). La nostra è una società libera, relativamente libera, su tanti piani, ma ormai è chiaro che il rapporto tra la ricerca scientifica e gli stakeholders finanziari, quello con gli interessi delle grandi corporate imprenditoriali, non può non essere vigilato con preoccupazione per la riduzione del tasso di democrazia a cui molti suoi settori di ricerca sono sottoposti. In più va aggiunto che oggi, con una guerra in corso che si va espandendo (ma sarà così anche dopo la sua conclusione), alcune ricerche sconteranno una perdita di significato, mentre altre si gioveranno della situazione. Anche se dovesse finire a breve, quello che è successo ha creato per il futuro un effetto soglia irreversibile. Se la ‘torta finanziaria’ della ricerca è quella che è, e la situazione porterà a perfezionare, per restare sul tema, le mine antiuomo, o i droni sempre più invisibili al nemico, o a potenziare altri sistemi d’arma sempre più letali per i corpi, ma, ad esempio, meno dannosi per le infrastrutture, difficilmente potranno essere economicamente premianti studi su come si riproducono insetti e anfibi nelle zone umide, o su quali sistemi di cure parentali sono preferiti in remote culture di nativi delle foreste pluviali. Se le scelte tecno-militari sono privilegiate – e nel nuovo ordine-disordine mondiale che avanza promosse – è chiaro che ne conseguirà un dirottamento di risorse, e se questo dirottamento diventerà stabile, esso raggiungerà una dimensione finanziaria di autoalimentazione notevole. Infatti dietro le scelte di riarmo, dietro la necessità di avere un sistema di armamenti europeo più robusto, la crescita estesa di spesa militare (che riguarda anche il nostro Paese, non ce lo dimentichiamo) trascina con sé anche la spesa per la ricerca militare innovativa. Spendiamo sì per acquisire e produrre serialmente sistemi d’arma, ma si spenderà moltissimo anche per migliorarli, perfezionarli, renderli sempre più competitivi, ‘scoprire’ ulteriori tecnologie di morte. Con un effetto di ‘schismogenesi’ incrementale, come a suo tempo lo chiamava riferendosi alla deterrenza della guerra fredda Gregory Bateson: un processo che a partire dalla crescita della conflittualità tra sfere d’influenza può andare esponenzialmente fuori controllo.
Cosicché, se alla crescita di certi settori della ricerca, sostenuti dalle dinamiche finanziarie, affianchiamo la diminuzione della dimensione democratica della transnazionalità e della comunicazione trasparente (sempre solo relativamente trasparente) tra ricercatori in cooperazione e competizione virtuosa di aree di mondi in conflitto, ecco che torneranno ad essere innalzate barriere di totale segretezza.
A ciò corrisponde un ulteriore contrappunto nel rapporto tra comunità scientifiche e comunità civili: una erosione del delicato e acerbo legame tra cittadinanza scientifica e ricerca, la citizens science, su cui tanto si stava lavorando negli ultimi vent’anni. Un rapporto considerato da molti epistemologi e storici della scienza come elemento nuovo, aurorale, ricco di potenzialità maturative per entrambi i poli. È chiaro che difficilmente, in condizioni di segretezza, nell’ignoranza di quello che la ricerca sta producendo, le cittadinanze potranno muoversi. Certo, situazioni di segretezza c’erano anche prima e le ricerche blindate sugli armamenti si facevano anche prima e si ramificavano in molti settori ‘civili’ come l’intelligenza artificiale, gli studi sui big data, le neuroscienze e così via. Ma il problema qui è quando la quantità, che potrà avere una ben altra crescita, si trasforma in qualità.
La cittadinanza scientifica, lo sappiamo, ha avuto ad esempio un peso notevole sull’elaborazione dei Protocolli climatici, ha innervato il tessuto dei movimenti ambientalisti, è stata significativa nelle ricerche di epidemiologia ambientale sui territori inquinati. Negli ultimi 20 anni, in questi e in altri casi c’è stato un avanzamento di civiltà e di competenze condivise: un fenomeno interessantissimo che ha prodotto studi e riflessioni sul cambiamento epistemico che tutto ciò comportava. Ma nelle condizioni che stanno incalzando, la cittadinanza scientifica viene messa in scacco. Non parlo di un vero e proprio silenziamento, ma certamente si verifica una forte erosione del suo potere interlocutorio: di fronte a una guerra, se non sparisce, ha di certo una voce estremamente flebile e ininfluente.
3.
Una breve terza considerazione, uno spunto che lascio, per chi legge, alla riflessione e alla libera associazione con i primi due. È interamente affidata a una citazione, che da lontano, dal 1915, con malinconia e pacatezza parla a noi oggi. E parla di noi oggi:
“Presi dal vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obbiettive, senza la possibilità di osservare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o che si stanno compiendo, o di prevedere l’avvenire che sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi […]. Anche la scienza ha perso la sua imparzialità i suoi servitori, esacerbati nel profondo, cercano di trarre da essa armi, e contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è indotto a dimostrare che l’avversario è un essere inferiore e degenerato. Lo psichiatra a diagnosticare in lui perturbazioni spirituali e psichiche (Freud, 1915, p. 123).
E ancora:
“L’annebbiamento delle facoltà intellettuali che questa guerra ha spesso provocato proprio nei nostri migliori cittadini del mondo è dunque un fenomeno secondario, effetto della eccitazione emotiva e quindi, ci auguriamo, destinato a sparire con essa. Quindi nei nostri pensieri non dobbiamo attribuirgli valore ultimativo” (ibidem, p. 135).
Così scriveva Sigmund Freud nel 1915, in un capitolo, “La delusione della guerra”, di uno dei suoi primi lavori, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, dal quale verrà fuori successivamente gran parte della sua teoria sulla pulsione di vita e sulla pulsione di morte. Freud nel 1914, nella sua Vienna, era un austroungarico convinto ed era stato interventista. In un solo orribile anno intercettò la transizione epocale che stava avvenendo, la fine di un mondo che implodeva e colse l’ottenebramento mentale prodotto dall’esperienza della guerra. Anche se le sue parole sembrano sforzarsi verso una speranza finale nel non dare “valore ultimativo” al giudizio sull’essere umano rivelato dal mondo dei massacri allora in corso, in realtà si coglie come la Grande Guerra avesse sgretolato le illusioni sui “nostri migliori cittadini del mondo” (!). La Mitteleuropa aveva prodotto un mostro. Solo il primo del nuovo Secolo Breve. E adesso?
Bibliografia
Cotugno Ferdinando (2022) “La guerra ha riacceso la luce sui disastri ecologici dimenticati del Donbass”, in Domani, 27 febbraio.
Freud Sigmund (1976) “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), in Opere, vol VIII, Torino Boringhieri.
Gagliasso Elena (2021), “Una conversione epistemica in corso: tra conoscenze incerte e soluzioni urgenti”, in (a cura di) Cori L., Re S., Bianchi F., Carra L., Comunicare ambiente e salute. Aree inquinate e cambiamenti climatici in pandemia, ETS, Pisa.
Rufo Fabrizio (a cura di) (2017), Ripensare il rapporto tra scienza e democrazia. Verso la costruzione della cittadinanza scientifica. Notizie di Politeia, Anno XXXIII, n. 126.
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